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Magistratura Indipendente

ORDINAMENTO GIUDIZIARIO  

Funzione giurisdizionale e neutralità del giudice

  Giudiziario 
 mercoledì, 2 luglio 2025

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di Francesco PERRONE, Giudice del Tribunale di Padova

 
 

Funzione giurisdizionale e neutralità del giudice.

  1. Il problema della neutralità.

Nel contemporaneo dibattito giuspolitico è aspramente discussa la questione su quale sia l’autentico ruolo che ciascun magistrato è chiamato a svolgere nel sistema di equilibrio tra i poteri dello Stato: se quello dell’impassibile applicatore della legge, istituzionalmente insensibile alle ricadute sostanziali provocate dalle scelte legislative presupposte (dura lex sed lex), ovvero quello di garante ultimo dell’equità sostanziale nel caso concreto, e quindi di interprete del senso di giustizia storica, chiamato a neutralizzare le ipotizzate aberrazioni prodotte dal formalismo giuridico (summum ius, summa iniuria).

Qual è la linea di demarcazione che segna il confine tra il fisiologico esercizio della funzione giurisdizionale e l’indebita interferenza nel circuito di determinazione dell’indirizzo politico-amministrativo?

A ben vedere, il punto nodale rispetto al quale si lacera l’idem sentire, per lo meno presso parte significativa degli ambienti magistratuali, non è tanto quello dell’imparzialità o dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario, bensì quello, sfuggente e multiforme, della neutralità del magistrato nella sua dimensione di individuo-essere umano.

Il tema non è di facile inquadramento, a partire dalla difficoltà di ricostruire una definizione condivisa del concetto stesso di neutralità. Nel presente scritto, la neutralità verrà, quindi, intesa nel suo contenuto minimo, più facilmente accettabile come ipotesi di studio, quale indifferenza del magistrato, nella sua veste istituzionale, rispetto ai suoi stessi personali orientamenti culturali, politici, filosofici, morali. Essa è un attributo che garantisce la (tendenziale) impermeabilità della sfera oggettiva funzionale del magistrato-istituzione rispetto a possibili straripamenti promananti dalla sfera soggettiva del magistrato-essere umano.

Da tempo, non è più oggetto di (serio) dibattito la figura mitologica del giudice “sterilizzato” bouche de la lois. È evidente l’artificiosità antropologica di ogni ipotesi di scissione tra sfera funzionale dell’istituzione e dimensione fisica-psicologica dell’individuo che quella funzione impersona, essendo ciascuno sempre portatore di un personale bagaglio morale, culturale, filosofico, e latamente umano. Del resto, unico e indivisibile è il ben dell’intelletto di ciascun magistrato-persona fisica.

È altrettanto vero, però, che la questione della neutralità nemmeno può essere liquidata, per ciò solo, come un “falso problema”. L’elaborazione di una compiuta teoria sulla neutralità è indispensabile in un sistema costituzionale, quale quello italiano, in cui la funzione giurisdizionale gode delle più intense garanzie di indipendenza.

 

  1. La neutralità quale attributo naturale della giurisdizione.

Esiste uno stretto rapporto di circolarità tra indipendenza della giurisdizione (in tutte le sue forme: istituzionale, funzionale ed organica) e neutralità del magistrato.

È noto che la garanzia costituzionale dell’indipendenza del giudice (art. 101, comma 2 Cost.) e, con le dovute precisazioni, del pubblico ministero (artt. 102, comma 1, 104 comma 1, 105, 106, 107, 108 Cost.), è strettamente connessa a quella dell’imparzialità (art. 111 Cost.), la quale è attributo naturale e imprescindibile tanto del giudice, quanto, per taluni fondamentali aspetti, del pubblico ministero. Quest’ultimo è chiamato a essere “parte imparziale” nello svolgimento del proprio ruolo, come tra l’altro prescritto dall’art. 13 del codice etico dell’Associazione nazionale magistrati (appartiene soltanto al giudice, invece, la terzietà). È per questo macroscopica la differenza che intercorre tra lo statuto costituzionale del pubblico ministero nell’ordinamento italiano e l’antipodo rappresentato, nel sistema nordamericano, dal US Attorney/District Attorney (l’avvocato dell’accusa, rispettivamente federale e distrettuale). Essendo l’indipendenza da ogni altro potere una guarentigia assicurata all’Ordine giudiziario senza distinzione di funzioni, il dovere di imparzialità non può non riguardare anche i magistrati del pubblico ministero.

L’imparzialità e la terzietà rappresentano giustificazione funzionale della garanzia dell’indipendenza: se l’indipendenza non fosse ricondotta alla funzione di fondamentale presidio posto a difesa dell’imparziale applicazione della legge, essa si trasformerebbe da strumento di garanzia dei diritti dei cittadini in privilegio irragionevole, e anzi in illegittima immunità. Cosicché, quanto più pregnante è il modo di intendere i doveri di imparzialità e di terzietà, tanto più proporzionalmente intensa potrà (e dovrà) essere la tutela che la garanzia dell’indipendenza offre al magistrato nell’esercizio delle proprie funzioni.

Ma i termini dell’equazione possono anche essere invertiti: poiché il legislatore costituente ha dimostrato di voler configurare la garanzia dell’indipendenza nel modo più pregnante, in modo altrettanto pregnante devono essere interpretati i doveri di imparzialità (di ogni magistrato) e di terzietà (del giudice), che ne costituiscono il pendant giustificativo.

Non va trascurato che fondamentale elemento strutturale della garanzia dell’indipendenza è il principio di accesso all’Ordine giudiziario mediante un medesimo concorso (art. 106, comma 1 Cost.). Ciò concorre a definire la fonte di legittimazione della funzione giudiziaria in termini ben diversi rispetto alla via di legittimazione propria del sistema giurisdizionale nordamericano, caratterizzato da una forte incidenza del momento della mediazione, anche politica.

A ben vedere, nemmeno i tre – pur irrinunciabili – livelli dell’indipendenza possono essere trattati come fossero di rango assolutamente equipollente. L’indipendenza funzionale è il vero baricentro della triade, mentre l’indipendenza istituzionale e quella organica giocano un ruolo “servente” rispetto alla necessità di garantire l’autentico fulcro dell’indipendente esercizio della funzione.

Non può allora essere condivisa la tesi (diffusa anche in taluni ambienti magistratuali) di chi esclude la neutralità dal basamento fondativo della garanzia dell’indipendenza.

Imparzialità e terzietà qualificano la funzione giurisdizionale nella sua proiezione interna, in quanto internamente rivolte a perimetrare, la prima, la dimensione soggettiva del rapporto processuale tra il decisore e le parti del giudizio, la seconda, la dimensione oggettiva del rapporto processuale tra il giudice e la res iudicanda. La neutralità – pur nella sua definizione minima – concorre a radicare il fondamento dell’indipendenza sia internamente, laddove segna il limite interno di separazione del piano oggettivo del diritto dal piano soggettivo dei valori riservati alla libertà di coscienza individuale, sia esternamente, laddove segna il limite esterno che demarca l’ambito di competenza della giurisdizione rispetto al circuito della responsabilità politica. Ecco che se l’indipendenza, con il grado di fisiologica e irrinunciabile irresponsabilità che essa strutturalmente implica (Carlo Guarnieri e Patrizia Pederzoli parlano di “enclave[1]), rappresenta l’argine costituzionale a difesa dalle ingerenze di altri poteri dello Stato, quanto più solido e invalicabile è tale argine, tanto più stringente deve essere il dovere di astensione da possibili atti di sconfinamento inverso all’interno del circuito del policy making, come rischia di avvenire quando la funzione giudiziaria sia interpretata quale strumento attuativo di progettualità ideali, morali, politiche, sociali.

 

  1. La neutralità quale principio ordinante della logica argomentativa.

La sfida è elaborare una teoria che riesca a ricondurre a unità due istanze che sembrano difficilmente conciliabili: da un lato, la necessità giuridica di demarcare la linea di separazione tra soggettività del magistrato e oggettività della funzione giurisdizionale, dall’altro lato, l’esigenza antropologica di non sconfessare artificiosamente l’ontologia dell’unità psicofisica del magistrato-essere umano.

La pratica giudiziaria dimostra come, non di rado, il vuoto di parametri normativi, e quindi l’indisponibilità di argumenta di carattere giuspositivo, impongono di ricercare le coordinate risolutive del caso concreto in un tessuto di valori non positivizzati, e, magari, nemmeno univocamente espressi dal contesto sociopolitico di riferimento, come sempre avviene nelle materie eticamente più sensibili (si pensi ai temi dell’inizio e fine-vita, delle pratiche procreative medicalmente assistite, del suicidio assistito, dell’accesso all’adozione in relazione alla questione della parità di genere). Nel noto caso giudiziario Englaro[2], il vuoto legislativo allora esistente in materia di testamento biologico è stato colmato dai giudici per mezzo di un intervento sostanzialmente ricostruttivo, il quale è andato ben oltre la ricognizione di regole in qualche modo esplicitate dall’ordinamento positivo o chiaramente riconoscibili nel sentire condiviso della comunità. L’horror vacui normativo ha, in tal modo, sollecitato la potenzialità nomopoietica della giurisdizione, la quale è stata chiamata a operare una selezione di valori socio-politici e a individuare un punto di equilibrio costituzionalmente accettabile (molti anni dopo, il legislatore ha posto parziale rimedio alla lacuna intervenendo con legge n. 219/2017). 

L’esperienza politico-giuridica dimostra che vi sono spazi sempre più ampi lasciati vuoti dal legislatore, che il giudice è funzionalmente chiamato a riempire in virtù dell’assioma della “densità” dell’ordinamento giuridico.

Così, quanto più ci si allontana dalle rassicuranti geometrie del diritto positivo per accedere ai sempre più astratti livelli dei “valori”, tanto più sfuma il confine tra oggettività del sistema normativo e soggettività della rappresentazione interiore, e tanto più la personale percezione morale si appropria di un ruolo condizionante del processo decisionale. All’atto pratico, quindi, non è sempre agevole isolare i casi di indebita “politicizzazione” della funzione giudiziaria rispetto all’attività di fisiologica interpretazione del diritto oggettivo, soprattutto qualora si pretenda che il diritto vivente sia in qualche modo manifestazione dell’ars boni et equi. Oltretutto, nemmeno è detto che gli argumenta di natura normativa debbano necessariamente essere più ragionevoli o razionali di quelli di natura giurisprudenziale, e nemmeno di quelli propriamente politici, filosofici, sociologici o morali.

Tali profili di complessità non possono però valere a deresponsabilizzare il magistrato rispetto al problema della propria neutralità. Essi anzi impegnano ancor più nella ricerca di soluzioni operative che consentano alla giurisdizione di conservare il proprio “senso” esistenziale.

Tra i molteplici riflessi che il principio di neutralità riverbera sullo statuto del magistrato, in questo scritto se ne vuol focalizzare intanto uno: la neutralità può, e deve, rilevare innanzitutto alla stregua di criterio di selezione degli argomenti impiegabili a fondamento di ogni determinazione giudiziaria.

 In un ordinamento in cui la giurisdizione è concepita in termini di garanzia pura, in quanto tale esclusa dal circuito del policy making, nel concorso di una molteplicità di argomenti astrattamente disponibili a sostegno o confutazione di una determinata tesi, devono essere considerati tanto più persuasivi, e quindi preferibili, gli argomenti di natura normativa, rispetto ad argomenti di natura giurisprudenziale (ad esempio, il valore vincolante o di indirizzo nomofilattico del precedente), ovvero, a maggior ragione, rispetto ad argomenti di carattere politico, morale, filosofico, sociologico.

Ben diversa può essere (e concretamente è) la gerarchia delle tipologie argomentative propria di taluni ordinamenti di common law, laddove, a fronte di una differente fonte di legittimazione del potere giurisdizionale, una ben diversa forza relativa è assunta dall’argomento di tipo giurisprudenziale (principio dello stare decisis) e, in taluni casi, financo dall’argomento morale e politico, così come emblematicamente avviene nel sistema statunitense, ove al giudice è riconosciuto un ruolo di attore fisiologicamente inserito nel complesso circuito del policy making. Tanto che W. J. Brennan, giudice che ha profondamente segnato la storia della Corte Suprema statunitense dal 1956 al 1990, significativamente sosteneva che l’esercizio della funzione giurisdizionale si concreta “nella consapevole applicazione di una teoria politica più o meno chiara e sostanziale”, per lo meno qualora la si voglia mantenere nell’alveo di “un’interpretazione della Costituzione moralmente e intellettualmente difendibile”.

Ciò rende ancor più rigoroso il dovere di esplicitazione (in funzione della controllabilità motivazionale) di ogni argomento posto a fondamento della decisione, in particolare quando si tratti di argomenti, in qualche modo, ispirati al senso di giustizia sostanziale (ad esempio, la progettualità morale, politica, ideale), anziché fondati su precise referenze di diritto positivo. Gli argomenti di natura non giuspositiva, come detto, non sono aprioristicamente sottratti alla disponibilità del decisore. Tuttavia, ogniqualvolta essi rivestano un’incidenza condizionante il processo formativo della decisione giudiziale, il decisore giammai può sottrarsi al dovere di farne esplicitazione formale, e di misurarne scrupolosamente l’accettabilità rispetto ai parametri positivi stabiliti dal diritto oggettivo.



[1] C. Guarnieri, P. Pederzoli, La magistratura nelle democrazie contemporanee, 2007.

[2] Corte di Cassazione, I sez. civ, sentenza n. 21748/2007; Corte d’Appello di Milano, decreto del 25/6/2008.

 

 

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