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Magistratura Indipendente

PENALE  

La sentenza nr. 40 del 23-01-2019 della Corte Costituzionale

  Penale 
 martedì, 7 maggio 2019

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Effetti sul giudicato, sorte delle sentenze di patteggiamento e limiti fisiologici al potere attribuito al Pubblico Ministero in sede di riformulazione dell’accordo ex articolo 188 disposizioni di attuazione al c.p.p.

di ADRIANA BLASCO, sostituto procuratore della Repubblica presso Tribunale di Milano

 
 

 

 1.                      PREMESSA

La Corte Costituzionale con sentenza nr. 40 del 23-01-2019, depositata il 8-3-2019 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 13-03-2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 73 comma 1 del decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309 - recante il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Suppl. Ordinario del 15-3-2006 [di seguito d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309] - nella parte in cui per i fatti non di lieve entità aventi ad oggetto le cosiddette droghe pesanti prevedeva come minimo edittale della pena quello di anni 8 di reclusione, a cui, per effetto dell’intervento demolitorio della Corte, dovrà sostituirsi quindi quello dei sei anni di reclusione.

Quello reso con la sentenza nr. 40/2019 non è il primo intervento demolitorio della Corte Costituzionale sul Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope.

Ed infatti, sulle disposizioni del d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 era intervenuta la Corte Costituzionale con sentenza del 12-02-2014 nr. 32, depositata il 25-2-2014 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 5-3-2014, che aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 4 bis e 4 vicies ter comma 2 lettera a) e comma 3 lettera a) nr. 6) del decreto legge 30 dicembre 2005 nr. 272 - recante Misure urgenti per garantire la sicurezza delle Olimpiadi invernali nonché Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti e Modifiche al Testo Unico in materia di Sostanze Stupefacenti e Psicotrope, convertito con modifiche dall’articolo 1 comma 1 della legge 21 febbraio 2006, nr. 49 [cosiddetta legge Fini-Giovanardi] - che avevano modificato le pene previste nell’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, nel testo originariamente licenziato con la novella del ‘90 [cosiddetta legge Jervolino-Vassalli], con il conseguente effetto di riviviscenza dell’originaria disciplina sanzionatoria prevista (e delle relative tabelle) nella formulazione antecedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate. La dichiarazione di incostituzionalità del tempo ebbe, conseguentemente, a travolgere il superamento della distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, introdotto dalla cosiddetta legge Fini-Giovanardi e la loro unificazione dal punto di vista sanzionatorio, determinando la riespansione delle cornici edittali previgenti, così come originariamente introdotte dalla legge Iervolino-Vassalli.

 

2.                      COMPARAZIONE TRA LE VECCHIE E LE NUOVE DISPOSIZIONI

Appare utile, in via preliminare, effettuare una comparazione tra le vecchie e le nuove disposizioni e, soprattutto, analizzare il quadro normativo antecedente la sentenza della Corte Costituzionale nr. 40 del 23-01-2019.

L’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 - nel testo licenziato con la novella del ‘90 [cosiddetta legge Jervolino-Vassalli], quindi precedente alle modifiche apportate dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 [cosiddetta legge Fini-Giovanardi] – era sostanzialmente fondato su due bipartizioni [a) droghe pesanti/droghe leggere; b) fatti di lieve entità/fatti non lievi] e prevedeva un trattamento sanzionatorio più mite [rispetto a quello caducato per effetto della sentenza della Corte Costituzionale del 25-2-2014 nr. 32] per gli illeciti concernenti le cosiddette droghe leggere [puniti con la pena della reclusione da 2 a 6 anni anziché con la pena della reclusione da 8 a 20 anni], mentre stabiliva sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette droghe pesanti [puniti con la pena della reclusione da 8 a 20 anni, anziché con la pena della reclusione da 2 a 6 anni].

La stessa distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere” era riproposta anche per i fatti di lieve entità, in relazione ai quali il comma 5 del medesimo articolo 73 stabiliva un’attenuante ad effetto speciale cosiddetta autonoma o indipendente, che puniva con la reclusione da uno a sei anni i fatti concernenti le droghe “pesanti” e da sei mesi a quattro anni quelli relativi alle droghe “leggere”, oltre alle rispettive sanzioni pecuniarie.[1]

Sull’originario testo dell’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 è intervenuta la modifica resa con il D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 [cosiddetta legge Fini-Giovanardi], oggetto della censura di illegittimità costituzionale resa con la sentenza nr. 32/2014. In definitiva, con le nuove disposizioni era stata soppressa, sia per i fatti lievi che per quelli non lievi, la distinzione fondata sul tipo di sostanza stupefacente [leggere o pesanti che fossero] ed era stata prevista una pena unica [la reclusione da sei a venti anni oltre la multa] per i fatti non lievi, nonché la pena unica [reclusione da uno a sei anni oltre la multa] per i casi in cui fosse applicabile l’attenuante del fatto di lieve entità.[2]

A seguire, con plurimi interventi normativi – anteriori e successivi alla sentenza nr. 32 del 2014 – il legislatore ha ridisegnato il regime sanzionatorio anche dell’ipotesi attenuata del fatto di lieve entità compendiato nel testo dell’articolo 73 comma 5 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, dapprima con il D.L. 23 dicembre 2013 nr. 146, convertito nella L. 21 febbraio 2014 n. 10, che ne ha modificato la previsione riducendo il massimo edittale della pena detentiva, prevedendo un trattamento sanzionatorio unitario per i fatti di lieve entità, indipendentemente dalla qualità delle sostanze oggetto della condotta incriminata e configurando la fattispecie come ipotesi autonoma di reato, con la conseguenza - per nulla marginale - che il blando quadro edittale ivi previsto non poteva più essere eliso (con conseguente ritorno al ben più severo quadro edittale previsto per il reato-base) nel caso, assai frequente, di concorso con l'aggravante della recidiva, e con l'ulteriore conseguenza di una notevole riduzione del termine della prescrizione, da calcolarsi ora in sei anni (anziché in venti), ai sensi dell'art. 157 co. 1 c.p.[3]

L’ipotesi attenuata del fatto di lieve entità è stata ulteriormente modificata per effetto del D.L. 20 marzo 2014 nr. 36 (pubblicato sulla GU del 21-3-2014 nr. 67) coordinato con le modifiche introdotte con la legge di conversione del 16 maggio 2014, n. 79 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 20-5-2014 nr. 115) che ha ulteriormente ridotto il trattamento sanzionatorio.[4]

Quindi con riguardo alle droghe c.d. leggere – a cui l’intervento reso con la sentenza nr. 32/2014 della Corte Costituzionale si riferiva – la disciplina sanzionatoria più favorevole (conseguente alla reviviscenza della normativa in vigore anteriormente a quella dichiarata incostituzionale) finiva con il divergere significativamente da quella introdotta nel 2006, atteso che la pena massima in vigore, per effetto della declaratoria di incostituzionalità del 2014, corrispondeva alla pena minima prevista dalle disposizioni caducate dal giudice delle leggi.

Ne consegue, che alla data dell’intervento reso con la sentenza nr. 32/2014 della Corte Costituzionale, la disciplina sanzionatoria penale delle sostanze stupefacenti compendiata nel d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, risultante dalla stratificazione di plurimi interventi normativi e giurisprudenziali, si è potuta ricostruire avendo riguardo:

·  da un lato, agli esiti della sentenza della Corte Costituzionale nr. 32/2014;

·  dall’altro, all’intervento correttivo ed integrativo del legislatore, principalmente realizzato dapprima con il D.L. 146/2013 convertito nella L. 10/2014 (che ha trasformato l’articolo 73 comma 5 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 in ipotesi autonoma) e poi con il D.L. 36/2014 convertito nella L. 79/2014 (che ha ulteriormente ridotto le pene per l’autonomo delitto dei fatti di lieve entità).

Consegue ulteriormente che la disciplina sanzionatoria penale delle sostanze stupefacenti compendiata nel d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 a far data dall’intervento reso con la sentenza nr. 32/2014 della Corte Costituzionale è stata così sintetizzabile distinguendo tra i <fatti illeciti non lievi> ed i <fatti illeciti lievi>:

·  per i fatti non lievi, norma cardine del sistema sanzionatorio penale è divenuto l’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 il cui testo vigente è diventato, a far data dall’intervento reso con la sentenza nr. 32/2014 della Corte Costituzionale, quello derivante dalla declaratoria di incostituzionalità. Si è tornati a dover applicare le fattispecie incriminatrici contenute rispettivamente nei commi 1 e 4 dell’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 nel testo antecedente alle modifiche del 2006, avendo interesse rispettivamente ai fatti riguardanti le droghe pesanti [tabelle I e III per le quali si applica la reclusione da 8 a 20 anni e la multa da €. 25.822,00 a €. 258.228] ed a quelli relativi alle droghe leggere [tabelle II e IV per le quali si applicano le sanzioni della reclusione da 2 a 6 anni e della multa da €. 5.164,00 a €. 77.468,00]. Ne è conseguito, per le droghe pesanti, che il ritorno alla previdente disciplina del 1990 si è risolto in un aggravamento sanzionatorio quanto alla pena della reclusione. In entrambi i casi, il nuovo regime sanzionatorio ha posto ovviamente un problema di sanzioni applicabili ai fatti commessi sotto la vigenza della precedente disciplina, che è stato risolto secondo le regole dettate dall’articolo 2 c. 4 del codice penale;

·  per i fatti lievi, di cui all’articolo 73 comma 5 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, rispetto ai quali non si distingue tra droghe pesanti e droghe leggere, la relativa disciplina è ora rinvenibile nella modifica da ultima introdotta con il D.L. 36/2014 convertito nella L. 79/2014 che prevede la pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni e della multa da €. 1.032,00 a €. 10.329,00 (così ulteriormente ridotta rispetto a quella introdotta con il D.L. 36/2014). Ne consegue, che è l’attuale più favorevole disciplina che deve trovare applicazione ai sensi dell’articolo 2 comma 4 del codice penale anche per i fatti commessi sotto il vigore della previgente disciplina.

 

3.                      L’INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE COMPENDIATO NELLA SENTENZA NR. 40/2019

Alla luce dell’excursus storico-legislativo sopra riportato, risulta evidente che - per effetto della sentenza della Corte Costituzionale nr. 32/2014 - per le droghe cosiddette pesanti il ritorno alla previgente disciplina, nel testo originariamente licenziato con la novella del ‘90 [cosiddetta legge Jervolino-Vassalli], si è risolto in un aggravamento sanzionatorio quanto alla pena della reclusione, che peraltro ha impedito al condannato l’accesso all’affidamento in prova ex articolo 94 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 la cui misura massima è rimasta fissata in anni 6 di reclusione. In ogni caso, il nuovo regime sanzionatorio ha posto ovviamente un problema di sanzioni applicabili ai fatti commessi sotto la vigenza della precedente disciplina, che – come si diceva - è stato risolto secondo le regole dettate dall’articolo 2 comma 4 del codice penale.

In presenza del sopra descritto quadro normativo, la Corte d’appello di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale - per contrasto con gli articoli 3, 25 e 27 della Costituzione - dell’articolo 73, comma 1, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, nel testo conseguente alla sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale, per effetto della quale è stata determinata la reviviscenza della vecchia normativa [antecedente all’entrata in vigore dell’articolo 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito in Legge 2006 nr. 49 (oggetto della censura di illegittimità costituzionale)], la quale prevedeva la pena minima edittale in otto anni anziché in quella di sei anni di reclusione.

L’incidente di costituzionalità proposto dalla Corte d’appello di Trieste è l’ultimo di una serie di pregressi rilievi di costituzionalità,[5] che – tuttavia - non avevano trovato, sino ad ora, avallo alcuno nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, quantomeno fino a quando – sulla medesima questione – la Corte era stata investita dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Rovereto.[6]

In quella circostanza la Corte[7] - pur dichiarando la questione proposta ancora una volta inammissibile – non aveva perdo l’occasione per formulare un monito al legislatore, evidenziando come la divaricazione venutasi a creare tra il minimo edittale di pena previsto dal primo comma dell’articolo 73 comma 1 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 ed il minimo edittale della pena previsto dal comma 5 del medesimo articolo avesse raggiunto <una ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria rimediabile con plurime opzioni legislative>.

Opzioni che – a distanza di anni da quella sentenza – il Parlamento, come è noto, non ha inteso intraprendere; sicché – a fronte del perdurante silenzio del legislatore – come era prevedibile la Corte si è trovata, questa volta, a dover intraprendere <<un <sentiero inedito> per <risanare la frattura> tra cornici edittali che la Consulta, sin dalla sentenza nr. 79/2017, aveva comunque denunziato come incoerenti con il <principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio>>.[8]

La vicenda da cui – per l’appunto - ha tratto origine l’incidente di costituzionalità proposto dalla Corte d’appello di Trieste è la seguente.

Nel corso del giudizio di primo grado un soggetto era stato condannato per la detenzione di circa cento grammi di cocaina, occultati all’interno di tre condensatori per computer, contenuti in un pacco proveniente dall’Argentina. La Corte d’appello di Trieste, ritenuta corretta la sussunzione del fatto operata dal giudice di prime cure nell’articolo 73, comma 1, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 in ragione di una serie di elementi fattuali [nella specie: a) il notevole grado di purezza della sostanza; b) la presumibile destinazione alla cessione a terzi; c) il rinvenimento nell’abitazione dell’allora imputato di una significativa quantità di denaro di dubbia provenienza; d) l’inserimento di quest’ultimo in traffici di stupefacenti di carattere internazionale], tuttavia aveva ritenuto che la comminatoria edittale di otto anni di reclusione nel minimo, applicabile al caso oggetto della sua valutazione, dovesse ritenersi manifestamente eccessiva rispetto alla condotta concreta commessa dall’allora imputato, che – a giudizio della Corte - appariva piuttosto situarsi al confine rispetto ai fatti inquadrabili nella fattispecie di lieve entità prevista dal quinto comma, che invece era [ed è] punita in modo sensibilmente inferiore. E l’ingente differenza sanzionatoria tra le due fattispecie (pari a ben quattro anni di reclusione) risultava segnatamente problematica perché, da un lato, costituiva una conseguenza della declaratoria di incostituzionalità pronunciata con la sentenza n. 32 del 2014; dall’altro, in casi “di confine”, incrementava le prassi giudiziari tese ad a operare “forzature interpretative” volte ad ampliare l’ambito applicativo delle ipotesi di lieve entità di cui al comma quinto dell’articolo 73, comma 1, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309.

Da ciò il sospetto contrasto del minimo edittale previsto dal primo comma dell’articolo 73, comma 1, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 rispetto ad una serie di parametri costituzionali:

-  l’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, sub specie di principio di riserva di legge in materia penale, in ragione della violazione, ad opera della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, del monopolio esclusivo del legislatore sugli interventi volti a inasprire le sanzioni penali;

-  l’articolo 3 della Costituzione, sub specie di principio di ragionevolezza, giacché la pena prevista dal vigente primo comma dell’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 sarebbe troppo (e quindi irragionevolmente) distante dalla pena prevista dal comma quinto, che punisce la fattispecie di lieve entità, intercorrendo così - a fronte di fattispecie “naturalisticamente” vicine - una distanza sanzionatoria di ben quattro anni di reclusione tra il minimo dell’una e il massimo dell’altra “anche tenuto conto della sussistenza nell’ordinamento di ulteriori norme, quale può essere la disposizione punitiva del fatto di lieve entità (articolo 73, comma 5, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309) o quella riguardante le droghe “leggere” (articolo 73, comma 4, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309), che possono offrire la grandezza predefinita che consente alla Corte costituzionale di rimediare all’irragionevole commisurazione della pena”;

-  il combinato disposto degli articoli 3 e 27 della Costituzione, giacché la previsione di una pena sproporzionata rispetto a quella prevista per il massimo della corrispondente fattispecie di lieve entità impedisce al giudice di adeguare la sanzione alle circostanze del fatto e al reo di comprendere, con piena consapevolezza, il disvalore del proprio comportamento.

A fronte di tali censure - reputata innanzitutto inammissibile la questione sollevata in riferimento all’articolo 25, secondo comma, della Costituzione (sul rilievo che porre in discussione la dichiarazione di incostituzionalità pronunciata con la sentenza n. 32 del 2014 avrebbe costituito un “improprio tentativo di impugnazione”) - la Corte ha ritenuto invece fondate le censure formulate dal giudice rimettente in relazione agli articoli 3 e 27 della Costituzione, considerati congiuntamente, superando così i precedenti arresti in senso contrario in cui – come si diceva - la Corte aveva ritenuto inammissibili analoghe questioni a quella ora sottoposte alla sua attenzione, sul rilievo che la determinazione della cornice edittale rientrasse in una sfera di discrezionalità legislativa che in assenza di <soluzioni a rime costituzionalmente obbligate> non avrebbe potuto essere incisa nemmeno dalla Consulta.[9]

Una volta affermata la possibilità del proprio sindacato sul quantum di pena stabilito dal legislatore, la Corte - dopo avere rimarcato il [vigente] divario sanzionatorio tra le fattispecie di lieve entità e quelle di non lieve entità, previste rispettivamente dal quinto e dal primo comma dell’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, e dopo aver rilevato come nella pratica applicativa siano incerti i confini tra le due fattispecie - ha osservato come tale incertezza applicativa rendesse non più <giustificabile l’ulteriore permanenza di un così vasto iato sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve>, così da condizionare inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto (ritenuta doverosa in conformità a quanto statuito dalla Corte di Cassazione a sezioni unite)[10] e con il rischio <di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte>; da ciò derivandone, pertanto, la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza ex articolo 3 della Costituzione e del principio di rieducazione della pena ex articolo 27 della Costituzione.

Dunque, la Corte ha rivolto la propria attenzione al quesito logicamente successivo teso ad individuare un diverso minimo edittale di pena, applicabile ai fatti incriminati dal primo comma dell’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, che fosse idoneo a rappresentare una misura sanzionatoria adeguata per i fatti “di confine” ed ha fatto quindi richiamo ai criteri da ultimo elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui l’individuazione della nuova misura della pena può non essere una soluzione “costituzionalmente obbligata”, ma deve essere ricavabile da previsioni già rinvenibili nell’ordinamento e deve rispettare la logica della disciplina prevista dal legislatore.

La Corte ha, quindi, evidenziato come la pena di sei anni di reclusione sia stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine” e più precisamente:

-  innanzitutto quale pena minima per i fatti non lievi stabilita dalla legge Fini-Giovanardi, dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014;

-  quale pena massima attualmente in vigore per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le c.d. droghe leggere;

-  quale pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le c.d. droghe pesanti vigente il d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309;

-  quale pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le c.d. droghe pesanti vigente la legge Fini-Giovanardi.

Dunque ha concluso nel senso che dovesse ritenersi idonea a sostituirsi a quella di otto anni dichiarata illegittima la diversa pena di anni sei di reclusione, rimettendo al legislatore il compito di riconsiderare i quadri sanzionatori previsti dal settore normativo che disciplina i delitti in materia di stupefacenti, purché nel rispetto del principio di proporzionalità.

 

4.                      GLI EFFETTI SUL GIUDICATO

Resta quindi da affrontare il tema degli effetti della decisione in questione in sede esecutiva e ciò in quanto l’intervento della Corte Costituzionale ha innegabilmente effetti anche sul giudicato, perché pone conseguentemente la questione della legittimità della perdurante esecuzione di una pena divenuta incostituzionale, perché fondata su una norma dichiarata incostituzionale nella sola parte della sanzione.

La questione non può che essere adeguatamente collocata, e risolta, se non alla luce dei principi espressi dalla stessa Corte Costituzionale sulla diversa tematica del trattamento sanzionatorio per i delitti puniti con l’ergastolo e giudicati con rito abbreviato.

In quella circostanza, la Corte Costituzionale con sentenza del 3 luglio 2013, nr. 210 (Gallo, Lattanzi) aveva ritenuto praticabile l’intervento del giudice dell’esecuzione nell’ipotesi in cui il giudice nazionale dovesse conformarsi alle disposizioni espresse dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella nota sentenza cosiddetta Scoppola, e dunque dovesse rideterminare la pena per i condannati all’ergastolo, anche se costoro non avevano fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. La Corte, in quella pronunzia, ha affrontato molti nodi problematici sullo sfondo della delicatissima questione dei rapporti tra giudicato e violazione dei diritti fondamentali accertati dalla Corte di Strasburgo e la qualificazione di tali sentenze ai fini del riconoscimento degli effetti delle medesime oltre il caso esaminato e, in epoca successiva, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza cosiddetta Ercolano[11] si sono conformate all’orientamento della Corte Costituzionale, ammettendo che l’ordinamento nazionale debba prevedere ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato nei casi in cui sul valore del giudicato siano prevalenti opposti valori di pari dignità costituzionale, conseguentemente concludendo nel senso che il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e preganti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona.

In tale prospettiva ermeneutica <lo scoglio del giudicato, rivelatosi ex post intrinsecamente illegittimo nella parte relativa alla esecuzione della pena irrogata, perché …costituzionalmente illegittima>, pone <l’esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti dell’esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere alla più alta valenza fondativa dello statuto della pena, la cui legittimità può essere assicurata anche in executivis>.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[12] quindi – sul presupposto che l’accoglimento della questione deve essere effetto di un’operazione meramente ricognitiva che non deve richiedere la riapertura del processo - hanno individuato lo strumento processuale attraverso il quale riportare alla legalità l’esecuzione della pena nell’incidente di esecuzione, atteso che pur non trattandosi di un’ipotesi di abrogatio criminis espressamente prevista dall’articolo 673 c.p.p., nondimeno l’articolo 30 commi 3 e 4 della legge 87/1953, espressamente prevede che <le norme dichiarate incostituzionali non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione e che quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali>.

Il dettato della norma consente dunque di impedire che sia data esecuzione anche solo alla parte di pena conseguente ad una norma penale dichiarata incostituzionale, giacché l’eliminazione di questa parte di pena risponde ad esigenze di giustizia.[13]

È dunque possibile che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice - ma che incida sul trattamento sanzionatorio - comporti una rideterminazione della pena in sede di esecuzione vincendo la preclusione del giudicato [così da ultimo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione in data 29 maggio 2014, nr. 42858 cosiddetta Gatto],[14] a condizione che la pena non sia stata espiata e che il reato sia stato consumato (e conseguentemente giudicato con sentenza), in epoca antecedente la pronunzia della Corte Costituzionale [che nella specie è stata resa il 23-01-2019 e depositata il 8-3-2019], perché altrimenti ne conseguirebbe l’inammissibilità dell’istanza.

La prima condizione - che quindi discende dalla sentenza cosiddetta Gatto – è che la situazione processuale non sia ancora esaurita e che, quindi, la pena non sia stata espiata.

A questo riguardo, infatti, la Corte ha puntualizzato i casi in cui si ha a che fare con una situazione esauritasi e come tale ormai immodificabile e impermeabile, anche agli effetti dell’eventuale declaratoria di incostituzionalità. L’esecuzione della pena, infatti, implica l’esistenza di un rapporto esecutivo che nasce dal giudicato e che si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione della pena. Quindi, sino a quando l’esecuzione della pena è in atto, il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima devono essere rimossi. Ciò significa, l’impraticabilità di un intervento correttivo sul giudicato, per carenza anche di interesse, nel caso in cui il condannato abbia ormai scontato la pena.

Proprio richiamando i principi di detta sentenza, di recente la Cassazione[15] ha annullato con rinvio la sentenza di un giudice di merito che – chiamato a giudicare in sede di rinvio dopo un annullamento della Corte di Cassazione limitato all’apprezzamento circa la sussistenza dell’aggravante della ingente quantità in una vicenda in cui l’illecito riguardava droghe leggere - aveva ritenuto di non poter fare applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio introdotto per le sostanze leggere dalla sentenza nr. 32/2014 della Corte Costituzionale, sul rilievo che sulla questione si era formato il giudicato e, quindi, in ossequio al principio del cosiddetto giudicato progressivo di cui all’articolo 624 c.p.p.

La seconda condizione - che discende dalla sentenza cosiddetta Gatto - è che la condanna sia stata comminata nella vigenza della legge dichiarata incostituzionale.

Ed infatti, la norma affetta da un radicale vizio del procedimento legislativo, quale è stata valutata quella incriminatrice di cui al modificato articolo 73, comma 1, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, non solo cessa di avere efficacia (ex articolo 136, primo comma, della Costituzione), ma perde anche l'idoneità ad abrogare la disciplina precedente, che rivive, di talché deve ritenersi applicabile la normativa più favorevole, e conseguentemente valutarsi non più legittima la determinazione della sanzione operata nel caso concreto con riferimento alla sanzione prevista dalla norma incostituzionale.[16]

L'evidenziato mutamento della forbice edittale applicabile comporta l'assoluta necessità di una rimodulazione del trattamento sanzionatorio complessivo, nella considerazione che il giudice, nel determinare la pena, normalmente valuta sia il limite minimo che quello massimo; con la conseguenza che, mutato il parametro di riferimento, il giudice del merito deve inderogabilmente esercitare il potere discrezionale conferitogli dagli articoli 132 e 133 del codice penale.[17]

D’altra parte non può non rilevarsi come la stessa Corte Costituzione ha da sempre evidenziato come i due istituti dell'abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi «si muovano su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse». La norma abrogata a seguito di una legge successiva resta pienamente valida fino all'entrata in vigore della norma abrogante, mentre in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale la norma colpita viene eliminata con effetto ex tunc dall'ordinamento, rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici, con conseguenze assimilabili a quelle dell'annullamento e con incidenza sulle situazioni pregresse, fatto salvo il limite del giudicato.[18] In questo senso, l'illegalità sopravvenuta, cui si riferiscono alcune sentenze, deve intendersi nel senso che la declaratoria di incostituzionalità contenuta in sentenza "sopravviene" rispetto ai fatti, rilevando tuttavia un vizio che è originario.

In particolare, è stato precisato come la declaratoria di illegittimità costituzionale «determinando la cessazione di efficacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo. Altro è, infatti, il mutamento di disciplina attuato per motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore, altro l'accertamento, ad opera dell'organo a ciò competente, dell’illegittimità costituzionale di una certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, è perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pure se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della Corte».[19]

Appare evidente che la norma dichiarata incostituzionale deve essere considerata "come mai esistita", con la conseguenza di dover escludere il fenomeno della successione di leggi nel tempo, presupposto per l'applicazione dell'articolo 2 del codice penale.

Del resto anche le Sezioni Unite hanno, recentemente, ribadito la necessità di distinguere i fenomeni dell'abrogazione e della dichiarazione di illegittimità della legge, sottolineando come si pongano su piani diversi e come producano effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell'ordinamento giuridico ed il secondo, invece, un evento di "patologia normativa", dal momento che, a differenza dell'effetto derivante dallo ius superveniens, inficia fin dall'origine la disposizione impugnata.[20]

Se questi sono gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale, ne deriva che - per i processi in corso per reati in materia di stupefacenti in cui si è fatta applicazione, per le droghe pesanti, della nuova cornice edittale risultante dalla declaratoria di incostituzionalità resa con la precedente sentenza della Corte Costituzionale nr. 32/2014 - deve trovare applicazione proprio l’articolo 73, comma 1, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 nella sua originaria formulazione, proprio in quanto la disciplina incostituzionale deve ritenersi "come mai esistita"; con l'ulteriore corollario, evidenziato dalla stessa giurisprudenza costituzionale citata, che è fatto divieto al giudice di assumere le norme incostituzionali per qualsiasi canone di valutazione, ivi compresa la valutazione giudiziale relativa alla commisurazione della pena in base a limiti edittali dichiarati incostituzionali.

 

5.                      LA SORTE DELLE SENTENZE DI PATTEGGIAMENTO IRREVOCABILI

Nell’esperienza pratica che si sta registrando negli Uffici giudiziari, le Procure della Repubblica presso i diversi Tribunali del territorio dello Stato [il tema non coinvolge gli Uffici della Procura Generale presso le varie Corti di Appello] si trovano, allo stato, significativamente travolte da istanze di rideterminazione della pena comminate con sentenze irrevocabili - oggetto di pregressi accordi processuali intervenuti ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. e fondati sulla preesistente cornice edittale - che fondano sulla pretesa dei condannati tesa ad ottenere che venga fatta applicazione, vulnerando il giudicato, della disciplina di favore relativa alle droghe cosiddette pesanti di cui al comma 1 dell’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, nel testo che risulta dall’intervento della Corte Costituzionale.

In questa fase processuale – che si colloca a ridosso della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale nr. 40 del 2019 – le istanze risultano in gran parte formalmente ammissibili,[21] risultando rispettate ambedue le condizioni poste dalla sentenza cosiddetta Gatto resa a Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione in data 29 maggio 2014, nr. 42858, atteso che le pene di cui viene chiesta la rideterminazione non risultano ancora espiate ed i reati risultano essere stati consumati (e giudicati) in epoca antecedente la pronunzia della Corte Costituzionale [che nella specie è stata resa il 23-1-2019]; con la conseguenza che la pena determinata in sede di pregressi accordi processuali, di cui si chiede la rideterminazione, risulta essere stata comminata nella vigenza della legge dichiarata incostituzionale.

Nondimeno, molte istanze[22] - per quanto formalmente ammissibili – si sono esposte al diniego del Pubblico Ministero alla prestazione del consenso, non risultando – a giudizio di chi scrive – giuridicamente sostenibile la tesi secondo cui, soprattutto in presenza di fatti qualificati come gravi – i quali certamente non si collocano nella cosiddetta <zona grigia> ai quali si riferisce l’intervento della Corte Costituzionale -, la rideterminazione della pena in senso più favorevole al condannato sia un’operazione che discende in modo automatico dalla sentenza della Corte, con la conseguente pretesa, da parte dei condannati, ad un abbattimento pressoché automatico, in sede esecutiva, di tutte le pene in misura ‘secca’ di due anni.

Al contrario, chi scrive ritiene che il Pubblico Ministero - chiamato a rinegoziare pregressi accordi processuali intervenuti ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. e fondati sulla preesistente cornice edittale - debba vagliare attentamente il tenore della gravità del fatto-reato, collegandolo alla pena inflitta in concreto, e debba conseguentemente valutare se esista o meno proporzionalità tra questi due elementi e che, soltanto all’esito di questa rinnovata comparazione, debba valutare se la pena di cui si chiede la rideterminazione sia congrua o meno e rispetti o meno il principio di proporzionalità fissato dalla Corte Costituzionale.

L’interpretazione di chi scrive poggia sul tessuto delle motivazioni rese dalla Corte Costituzionale con la sentenza nr. 40 del 2019.

La Corte, infatti, se per un verso ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 73 comma 1 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 - nella parte in cu prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura minima di otto anni anziché di sei anni – al contempo ha evidenziato che detta pronunzia, nella perdurante inerzia del legislatore, si è resa necessaria allo scopo di soddisfare il <principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73 del d.PR. n. 309 del 1990>, dal momento che <la divaricazione di ben quattro anni venutasi a creare tra il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 ed il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello stesso articolo “ha raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria”>. Con la conseguenza che - se anche <il costante orientamento della Corte di cassazione è nel senso che la fattispecie di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (ex multis, da ultimo, Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 24 gennaio-12 febbraio 2019, n. 6621; Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 20 dicembre 2018-24 gennaio 2019, n. 3350; Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 13 dicembre 2018-18 gennaio 2019, n. 2312)> - indubitabilmente <molti casi si collocano in una “zona grigia”, al confine fra le due fattispecie di reato, il che rende non giustificabile l’ulteriore permanenza di un così vasto iato sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve. L’ampiezza del divario sanzionatorio condiziona inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto (ritenuta doverosa da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 settembre-9 novembre 2018, n. 51063), con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte>.

In definitiva, a giudizio di chi scrive, la sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe essere interpretata nel senso che la violazione del principio di proporzionalità, che è a fondamento della declaratoria di incostituzionalità, sia stata, nel giudizio della Corte medesima, denunziata, non già con riferimento a tutte le situazioni sussumibili nell’articolo 73 comma 1 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 [si da giustificare, in sede esecutiva, un abbattimento pressoché automatico di tutte le pene in misura di due anni], ma con riferimento unicamente a quelle situazioni di confine fra le due fattispecie di reato.

Ne consegue, ulteriormente, che soprattutto in presenza di fatti gravi – i quali certamente non si collocano nella cosiddetta <zona grigia> ai quali si riferisce l’intervento della Corte Costituzionale - la rideterminazione della pena in senso più favorevole al condannato non è certamente un’operazione che discende in modo automatico dalla sentenza della Consulta, con la conseguente pretesa, da parte dei condannati, ad un abbattimento aritmetico, in sede esecutiva, di tutte le pene in misura ‘secca’ di due anni.

Fatta questa debita premessa, quali sono – a giudizio di chi scrive – gli elementi dei pregressi accordi processuali, intervenuti ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. e fondati sulla preesistente cornice edittale, che non sono in alcun modo suscettibili di essere oggetto di rivalutazione in sede di rinnovazione dell’accordo?

Quali, in altri termini, i limiti fisiologici dei poteri attribuiti al giudice dell’esecuzione?

Il Pubblico Ministero e la difesa, in questa fase, trovano uno sbarramento processuale nella ri-valutazione del fatto e nella sua ri-qualificazione: qualsivoglia siano gli elementi che hanno condizionato la valutazione del fatto-reato come di non lieve entità [che sia il quantitativo dello stupefacente; la condotta del reo, ove abbia conferito particolare disvalore penale al fatto; le modalità dell’azione, in ragione dei mezzi approntati per la consumazione del delitto (come ad esempio la disponibilità di locali appositamente adibiti alla preparazione delle dosi o di strumenti per il taglio dello stupefacente e per la preparazione delle dosi); la condizione di tossicodipendenza, e quindi il ricorso all’attività di spaccio quale strumento di finanziamento dei propri bisogni] e la sua collocazione nell’ipotesi di cui al comma 1 piuttosto che nell’ipotesi di cui al comma 5, in sede di riformulazione dell’accordo ai sensi dell’articolo 188 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. non potrà procedersi, in alcun modo, ad una rinnovata valutazione degli atti del giudizio, dovendosi il Pubblico Ministero e la difesa confrontarsi, in proposito, con le vincolanti valutazioni in sede di merito espresse dal giudice della cognizione nella sentenza che ha recepito il pregresso accordo processuale.

<È solo sulla pena, in sostanza, che il giudice dell’esecuzione, può e deve sviluppare in modo autonomo il proprio rinnovato apprezzamento valutativo>.[23] Su questo profilo, dottrina[24] e giurisprudenza, sono assestate su posizioni sostanzialmente granitiche.[25]

Tuttavia, a giudizio di chi scrive, l’affermazione secondo cui il giudice dell’esecuzione [ovvero le parti con le modalità di cui all’articolo 188 delle disposizioni di attuazione del c.p.p.] possono e devono <sviluppare in modo autonomo il proprio rinnovato apprezzamento valutativo> unicamente sulla pena, andrebbe riempita di contenuti più pregnanti.

Detto in altri termini, dal momento l’apprezzamento valutativo sulla pena – per quanto discrezionalmente vincolato dall’obbligo di adeguata motivazione (ex articolo 132 del codice penale) – è condizionato dalla valutazione degli elementi oggetto del potere discrezionale del giudice di cui all’articolo 133 del codice penale, quali di questi elementi potranno essere oggetto di un rinnovato apprezzamento valutativo? O diversamente deve ritenersi che solo ed esclusivamente la pena base possa essere oggetto di rivalutazione alla luce della nuova cornice edittale?

Chi scrive ritiene che, pur nell’impossibilità di procedere ad una rinnovata valutazione degli atti del giudizio, tutti quegli elementi che hanno concorso all’apprezzamento valutativo della pena [e non solo ed esclusivamente la pena base alla luce della nuova cornice edittale] possano essere oggetto di un rinnovato apprezzamento valutativo, e offre in valutazione l’esperienza pratica che muove dalla lettura di alcune sentenze di merito che hanno recepito pregressi accordi processuali formulati ai sensi dell’articolo 444 del c.p.p.[26]

Dall’esperienza maturata nelle aule di giustizia è emerso dunque come – pur in presenza di fatti dal Giudice qualificati, con chiarezza, come <gravi> in ragione del quantitativo dello stupefacente, delle modalità dell’azione, stante i mezzi approntati per la consumazione del delitto [come ad esempio la disponibilità di locali appositamente adibiti alla preparazione delle dosi o di strumenti per il taglio dello stupefacente e per la preparazione delle dosi] o della condotta del reo, ove idonea a conferire particolare disvalore penale al fatto [esemplificatamente nei casi, non infrequenti, di soggetti arrestati nella flagranza del delitto commesso mentre il medesimo imputato si trovava in espiazione pena nelle forme della detenzione domiciliare in ragione di una pregressa condanna per delitto della medesima specie] – siano stati formulati, e recepiti in sentenza, accordi processuali ex articolo 444 c.p.p. in cui [esemplificatamente] circostanze attenuanti generiche sono state riconosciute prevalenti alla contestata recidiva ex articolo 99 comma 4 del codice penale, pur ostando al giudizio di prevalenza la disposizione dell’articolo 69 comma 4 del medesimo codice; ovvero in cui [sempre esemplificatamente], sebbene <ritenuta> la recidiva ex articolo 99 comma 4 del codice penale, si è ammesso ugualmente l’imputato al patteggiamento cosiddetto allargato, pur ostandovi la disposizione dell’articolo 444 comma 1 bis c.p.p., ovvero in cui [sempre esemplificatamente] circostanze attenuanti generiche sono state concesse e riconosciute equivalenti o addirittura prevalenti alla contestata recidiva ex articolo 99 del codice penale, senza motivazione ulteriore (se non la dichiarata esigenza di adeguare la pena al disvalore penale del fatto), e pur in presenza di condotte del reo, ritenute in sentenza, specificatamente idonee a conferire particolare disvalore penale al fatto [ad esempio, come si è registrato in uno dei casi sopra citati, di soggetti arrestati nella flagranza del delitto commesso mentre l’imputato medesimo si trovava in espiazione pena nelle forme della detenzione domiciliare in ragione di una pregressa condanna per delitto della medesima specie].

In tali casi, a giudizio di chi scrive, la rinnovazione – a norma dell’articolo 188 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. - del consenso ex articolo 444 c.p.p. negli stessi termini in cui venne originariamente formulato e con la sola rimodulazione della pena base alla luce della nuova cornice edittale, oltre a prestarsi a clamorose violazioni della legge penale e processuale [come nei casi - sopra citati - di violazione dell’articolo 69 comma 4 del codice penale e dell’articolo 444 comma 1 bis del c.p.p.], può in concreto risultare non conforme all’esercizio di quella discrezionalità vincolata a cui il giudice deve attenersi nella determinazione della pena, in ossequio ai parametri di cui all’articolo 132 e 133 del codice penale.

Detto in altri termini, se in presenza della preesistente cornice edittale – che a giudizio della Corte Costituzionale non rispettava il principio di proporzionalità – il Pubblico Ministero e la difesa sono pervenuti a formulare accordi processuali tesi, in ultima analisi, ad adeguare una pena [dichiarata illegale] al disvalore penale del fatto, anche facendo ricorso ad evidenti forzature di quella discrezionalità vincolata a cui il giudice deve attenersi nella determinazione della pena, in ossequio ai parametri di cui all’articolo 132 e 133 del codice penale,[27] la rinnovazione – ex articolo 188 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. - del consenso negli stessi termini in cui venne originariamente formulato, non ricorrendo più l’esigenza di adeguare una pena [dichiarata illegale] al disvalore penale del fatto, non è forse una operazione che si presta a violare quei parametri a cui il giudice deve attenersi nella determinazione della pena, in ossequio agli articoli 132 e 133 del codice penale?

L’opzione interpretativa proposta da chi scrive – che ritiene che il Pubblico Ministero possa non adeguarsi pedissequamente ai precedenti accordi processuali - si ritiene conforme a quanto statuito nella giurisprudenza resa dalla Corte di Cassazione[28] anche sezioni unite.[29]

La Corte di Cassazione, infatti - nel dare risposta al quesito sul se una pena determinata in riferimento ad una cornice edittale sostanzialmente mai esistita (in quanto contenuta in una norma dichiarata incostituzionale proprio nella sua parte sanzionatoria) possa considerarsi legale perché rientrante in una cornice edittale, quella ripristinata, che, tuttavia, sia espressione di una valutazione del legislatore del rapporto tra pena e offesa diverso da quello sotteso alla norma incostituzionale - ha affermato che <anche la pena applicata sulla base dell’articolo 73, comma 1, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309, nella versione modificata dalla novella del 2006, ma compresa entro la forbice edittale delle norme ripristinate dalla sentenza della Corte costituzionale è da considerare "illegale". Tuttavia, in questo caso si tratta di una illegalità particolare, non solo perché non attiene ad un errore materiale nella determinazione della quantità o del tipo di sanzione, ma perché ciò che è illegale non è la sanzione in sé, quanto l'intero procedimento di commisurazione giudiziale, che si è basato su criteri edittali incostituzionali e quindi mai esistiti, procedimento che ha portato, tra l'altro, all'applicazione di una pena in contrasto con il principio di proporzionalità e di colpevolezza>.[30]

Ed infatti, l'evidenziato mutamento della forbice edittale applicabile comporta l'assoluta necessità di una rimodulazione del trattamento sanzionatorio complessivo, nella considerazione che il giudice, nel determinare la pena, normalmente valuta sia il limite minimo che quello massimo; con la conseguenza che, mutato il parametro di riferimento, il giudice del merito deve inderogabilmente esercitare il potere discrezionale conferitogli dagli articoli 132 e 133 del codice penale.[31]

Ora, posto che l'operazione di cui agli articoli 132 e 133 del codice penale – quella tesa alla commisurazione della pena - è frutto di una scelta che il giudice della cognizione compie, con discrezionalità guidata, in un ambito legislativamente definito tra il minimo e il massimo edittale è evidente che il profondo mutamento di "cornice" derivante dalla declaratoria di incostituzionalità rende necessaria, in sede esecutiva, una rivalutazione piena di tale aspetto che va compiuta tenendosi conto del "fatto" storico così come accertato in cognizione [che, stante la formazione del giudicato, non potrà essere più oggetto di rivalutazione] ma non anche dei termini matematici espressi da tale giudice (in rapporto alla scelta tra minimo e massimo edittale).

Con ciò si intende affermare che, se da un lato risulta doverosa ed obbligatoria, alla luce di quanto sopra, la rideterminazione in sede esecutiva della pena inflitta in rapporto ad una squilibrata (e costituzionalmente illegittima) cornice edittale, dall'altro non può escludersi che - con valutazione in concreto e rispettosa del "fatto accertato" - il giudice dell'esecuzione possa rivalutarne la valenza in rapporto ai "nuovi" e profondamente diversi parametri edittali, ovviamente dando conto (ex articoli 132 e 133 del codice penale) delle modalità di esercizio del potere commisurativo e tenendo conto dei principi generali del sistema sanzionatorio.

Dunque, la decisione emessa dal giudice dell’esecuzione - in ipotesi di accoglimento dell'istanza e di rideterminazione del trattamento sanzionatorio - assume una valenza sostitutiva di un titolo esecutivo (la precedente decisione irrevocabile) solo in tale parte non più eseguibile, che andrà pertanto integrato, in punto di entità della pena, dalla decisione emessa in sede esecutiva (peraltro anch'essa ricorribile per Cassazione ai sensi dell'articolo 666 comma 6 c.p.p.) secondo uno schema procedimentale non estraneo al procedimento di esecuzione (si pensi a quanto previsto e regolamentato dall'articolo 671 c.p.p., norma che - a diverso fine - consente la modifica in esecuzione dell'entità del trattamento sanzionatorio correlato a decisioni parimenti irrevocabili circa l'an della responsabilità).

Quindi in definitiva - inammissibile una rinnovata valutazione degli atti del giudizio e ferma restando l’intangibilità del giudicato con riferimento alla ricostruzione del <fatto storico> e alla valutazione della <gravità> del medesimo - tutti gli altri elementi che concorrono all’apprezzamento valutativo della pena secondo i parametri dettati dagli articoli 132 e 133 del codice penale, potranno essere oggetto, in sede esecutiva, di una rivalutazione piena, dal momento che è innegabile che la presenza di una cornice edittale significativamente aggravata nel minimo edittale [quella conseguente alla declaratoria di incostituzionalità resa con la sentenza nr. 32 del 2014], ha condizionato inevitabilmente la valutazione di detti elementi e [esemplificatamente] la valutazione in ordine alla sussistenza della recidiva, al riconoscimento delle eventuali circostanze generiche ed al giudizio di comparazione delle circostanze, dando luogo ad una irragionevole difformità applicativa di istituti che, nell’esperienza concreta maturata nella giurisprudenza di merito, sono stati forzati allo scopo di adeguare la pena al disvalore penale del fatto.

Alle stesse conclusioni deve pervenirsi in relazione alla pena applicata su richiesta delle parti, in quanto le peculiarità caratterizzanti la "individuazione" della sanzione in questo rito speciale non comportano deroghe ai principi suindicati, con la sola differenza che l'illegalità della pena nel "patteggiamento" pone un'altra questione, che è quella della validità dell'accordo sottostante.[32]

Nella pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione (a parte i casi di mero errore matematico o di calcolo), l’illegalità della pena ha sempre implicato l'esclusione della validità dell'accordo concluso fra le parti del processo e ratificato dal giudice, derivando da ciò il corollario secondo cui anche la sentenza sarebbe inficiata, sicché il suo annullamento dovrebbe essere «senza rinvio in quanto le parti del processo potranno o meno rinegoziare l'accordo su altre basi e nel caso contrario [...] il procedimento dovrà proseguire con il rito ordinario».[33]

Non può essere dunque condivisa la tesi sostenuta da alcuni Autori,[34] sul tema dei provvedimenti adottabili dalla Cassazione, secondo cui la specificità dell’intervenuto mutamento sanzionatorio potrebbe consentire alla Corte di Cassazione di procedere ex articolo 620, comma1, lettera l) c.p.p. a rideterminare la pena allorquando il patteggiamento sia stato espressamente articolato, come pena base, avendo riguardo al precedente più grave limite edittale minimo della pena, e ciò sul rilievo secondo cui <in tal caso l’operazione da farsi per ricondurre la pena ad equità sarebbe meramente matematica, senza necessità di una rinnovata valutazione delle parti (compreso il Pubblico Ministero) in termini di convenienza processuale e del giudice (in termini di congruità della pena)>.

Nei casi di cui si ci occupa, il tema della validità dell'accordo ex articolo 444 c.p.p. si è posto a seguito di "fatti sopravvenuti" che hanno reso illegale una parte del suo oggetto.

A questo riguardo la Corte si è posta il problema sul se l'accordo (che abbia originariamente fatto riferimento, quanto al suo oggetto, ad una pena legale), resti o meno valido a seguito di un fatto sopravvenuto, quale la dichiarazione di illegittimità costituzionale, che renda il suo oggetto non più, almeno in parte, legale, e - sul presupposto che il negozio processuale tra imputato e pubblico ministero è assimilabile a un rapporto bilaterale a prestazioni corrispettive, al quesito in questione ha risposto nel senso che, proprio seguendo una prospettiva civilistica,[35] la lettura degli articoli 444 e seguenti c.p.p. deve essere improntata alla garanzia del trattamento premiale per l'imputato, sotteso all'istituto, e, dunque, alla tutela del suo interesse ad ottenere la più mite delle sanzioni, nell'ambito ovviamente di quella congruità che colui che ratifica l'accordo, ovvero il giudice, ha il compito di verificare e che nel caso in cui la mitigazione del trattamento sanzionatorio subentri come frutto dell'accertamento di una illegittimità costituzionale, non può ritenersi conforme alla concessione della facoltà di patteggiamento della sanzione una scelta interpretativa che opti per una cristallizzazione anteriore al giudicato dell'accordo negoziale, quanto meno se l'imputato manifesta la volontà di fruire del sopravvenuto quadro normativo, cioè di un trattamento che gli era stato negato da una norma incostituzionale.[36]

In definitiva, l'indirizzo assolutamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità giunge a ritenere che, nel caso di pena divenuta illegale, l'accordo è nullo.

Ma se l’accordo, anche nell’interpretazione della giurisprudenza delle sezioni unite, deve ritenersi radicalmente nullo, chi scrive non vede comprovate motivazioni per negare fondatezza alla tesi, qui sostenuta, secondo cui - pur nell’impossibilità di procedere ad una rinnovata valutazione degli atti del giudizio - tutti quegli elementi che hanno concorso all’apprezzamento valutativo della pena [e non solo ed esclusivamente la pena base alla luce della nuova cornice edittale] possono essere oggetto di un rinnovato apprezzamento valutativo.

In definitiva, chi scrive ha ragione di ritenere che la presenza di una cornice edittale significativamente aggravata nel minimo edittale [quale quella conseguente alla declaratoria di incostituzionalità resa con la sentenza nr. 32 del 2014] e l’ampiezza dell’allora vigente divario sanzionatorio [tra il primo e il quinto comma dell’articolo 73, comma 1, d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309] abbia, di frequente, condizionato la valutazione degli elementi che concorrono all’apprezzamento valutativo della pena [come esemplificatamente la valutazione in ordine alla sussistenza della recidiva, al riconoscimento delle eventuali circostanze generiche e, soprattutto, al giudizio di comparazione delle circostanze medesime] ed abbia conseguentemente comportato, in concreto, la forzatura di tali elementi allo scopo di determinare un doppio abbattimento della pena rispetto alla scelta, già effettuata, di riti premiali [come esemplificatamente nei casi in cui (senza alcuna motivazione se non quella, dichiarata, di adeguare la pena al disvalore penale del fatto) siano state riconosciute circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza rispetto alla contestata recidiva], dando luogo ad un’irragionevole difformità applicativa di istituti che, nell’esperienza concreta maturata nella giurisprudenza di merito, sono stati forzati allo scopo di adeguare la pena [dichiarata illegale] al disvalore penale del fatto.

6.                      CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Chi scrive è perfettamente consapevole che la tesi, qui sostenuta, è certamente minoritaria e che, al momento, non risulta aver trovato avallo né nella giurisprudenza di merito né in quella di legittimità.

E soprattutto, chi scrive, è altrettanto consapevole che tale impostazione ridimensiona significativamente la pretesa dei condannati tesa ad ottenere importanti riduzioni delle pene detentive inflitte, dal momento che – come si diceva – sino ad ora la sentenza della Corte Costituzionale pare, nel comune sentire, prestarsi all’interpretazione secondo cui la rideterminazione della pena in senso più favorevole al condannato sia un’operazione che discende in modo automatico dalla declaratoria di incostituzionalità, con la conseguente pretesa, da parte dei condannati, ad un abbattimento altrettanto automatico, in sede esecutiva, di tutte le pene in misura ‘secca’ di due anni.

E però nella realtà giudiziaria la sentenza della Corte Costituzionale ha comportato significative problematiche operative, l’aumento del contenzioso in sede esecutiva e l’implementazione dei carichi di lavoro per il Pubblico Ministero deputato all’esecuzione delle pene detentive, per il giudici dell’esecuzione e per la stessa Corte di Cassazione, che non avrebbero dovuto sfuggire alla medesima Corte Costituzionale, pur nella funzione - cui è istituzionalmente preposta - di occuparsi della costituzionalità delle leggi.

Quindi, per l’appunto alla luce del precedente della medesima Corte[37] - allorquando questa, nel dichiarare inammissibile analoga questione di costituzionalità, aveva motivato la propria decisione sul rilievo che la soluzione proposta non potesse trovare accoglimento perché non costituzionalmente obbligata, dovendo piuttosto trovare risposta nel discrezionale apprezzamento del legislatore – forse si sarebbe potuto attendere l’intervento del legislatore medesimo, proprio in un momento in cui – sia pure con colpevole e grave ritardo – il Governo aveva già anticipato l’intenzione di procedere ad una rivisitazione complessiva del testo unico delle leggi in materia di sostanze stupefacenti e/o psicotrope.

Come altri Autori[38] hanno evidenziato <forse una maggiore pazienza avrebbe impedito l’ennesimo strappo tra il giudice delle leggi ed il legislatore in una materia che già ne ha vissuti tanti in questi anni> e <forse una attesa ulteriore sarebbe stata la soluzione migliore, per evitare soprattutto che un intervento legislativo che dovesse infine intervenire e che, improvvidamente, si limitasse alle sanzioni del fatto di lieve entità, possa finire con il riproporre il tema di uno squilibrio sanzionatorio irrazionale>.

Quindi pur nel dovuto rispetto della sentenza della Corte Costituzionale, l’articolato tessuto storico e normativo in cui è intervenuta e l’invasione così incisiva dei poteri del legislatore <avvenuta con la ‘creazione’ di una nuova dimensione quantitativa della pena affatto ‘obbligata’>,[39] dovrebbe poter legittimare, a maggior ragione, la tesi tesa a contenere significativamente l’impostazione secondo cui la rideterminazione della pena in senso più favorevole al condannato sia un’operazione che discende in modo automatico dalla sentenza della Corte medesima, in favore della diversa tesi, qui sostenuta, secondo cui – sul presupposto della radicale nullità dell’accordo – impregiudicata la valutazione degli atti del giudizio, tutti quegli elementi che hanno concorso alla determinazione della pena potranno essere oggetto di un rinnovato apprezzamento valutativo.



[1] L’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 - nel testo licenziato con la novella del ‘90 [c.d. legge Jervolino-Vassalli] così recitava:

1. Chiunque senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dall'articolo 75 e76, sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall'articolo 14, è punito con la reclusione da otto a venti anni e con la multa da euro 25.822 (lire cinquanta milioni) a euro 258.228 (lire cinquecento milioni).

2. Chiunque, essendo munito dell'autorizzazione di cui all'articolo 17, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nel comma 1, è punito con la reclusione da otto a ventidue anni e con la multa da euro 25.822 (lire cinquanta milioni) a euro 309.874 (lire seicento milioni).

3. Le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione.

4. Se taluno dei fatti previsti dai commi 1, 2 e 3 riguarda sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle II e IV previste dall'articolo 14, si applicano la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 5.164 (lire dieci milioni) a euro 77.468 (lire centocinquanta milioni).

5. Quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 2.582 (lire cinque milioni) a euro 25.822 (lire cinquanta milioni) se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall'articolo 14, ovvero le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 (lire due milioni) a euro 10.329 (lire venti milioni) se si tratta di sostanze di cui alle tabelle II e IV.

6. Se il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro, la pena è aumentata.

7. Le pene previste dai commi da 1 a 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti.

[2] L’articolo 73 d.P.R. del 9-10-1990 nr. 309 - nel testo successivo alle modifiche apportate dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 – così recitava:

1. Chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall'articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.

1-bis. Con le medesime pene di cui al comma 1 è punito chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:

a) sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale;

b) medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il quantitativo prescritto. In questa ultima ipotesi, le pene suddette sono diminuite da un terzo alla metà.

2. Chiunque, essendo munito dell'autorizzazione di cui all'articolo 17, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nelle tabelle I e II di cui all'articolo 14, è punito con la reclusione da sei a ventidue anni e con la multa da euro 26.000 a euro 300.000.

2-bis. Le pene di cui al comma 2 si applicano anche nel caso di illecita produzione o commercializzazione delle sostanze chimiche di base e dei precursori di cui alle categorie 1, 2 e 3 dell'allegato I al presente testo unico, utilizzabili nella produzione clandestina delle sostanze stupefacenti o psicotrope previste nelle tabelle di cui all'articolo 14.

3. Le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione.

4. Quando le condotte di cui al comma 1 riguardano i medicinali ricompresi nella tabella II, sezioni A, B e C, di cui all'articolo 14 e non ricorrono le condizioni di cui all'articolo 17, si applicano le pene ivi stabilite, diminuite da un terzo alla metà.

5. Quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.

5-bis. Omissis

6. Se il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro, la pena è aumentata.

7. Le pene previste dai commi da 1 a 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti.

[3] Si rammenta che, l'art. 73 co. 5, nella versione della legge Fini Giovanardi (d.l. 272/ 2005, conv. l. 49/2006), in vigore fino al 23 dicembre 2013, data della pubblicazione in G.U. del d.l. 146/2013, il fatto di lieve entità - che si configurava come una circostanza attenuante del reato di cui al co. 1 - era punito con la reclusione da 1 a 6 anni (oltre che con la multa da 3.000 a 26.000 euro).

Per effetto del D.L. 146/2013, l'art. 73 co. 5 è stato modificato nel modo che segue: <salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000,00 a euro 26.000,00>.

[4] Per effetto del D.L. nr. 36/2014, l'art. 73 co. 5 è stato modificato nel modo che segue: <salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329,00>.

 

[5] Nella specie, ci si riferisce alle sentenze della Corte Costituzionale n. 23 e 148 del 2016 e all’ordinanza n. 184 del 2017

[6] Trattasi dell’ordinanza del GUP Rovereto, del 21-1-2016.

[7] Nella specie, ci si riferisce alla sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 2017.

[8] Così Andrea Natale, Quando la legalità costituzionale non può più attendere, in Questione Giustizia

[9] Nella specie sentenze n. 179 del 2017, n. 148 e n. 23 del 2016; ordinanza n. 184 del 2017

[10] Così Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 settembre – 9 novembre 2018, n. 51063

[11] Così sezioni unite della Corte di Cassazione, sentenza nr. 18821 del 24-10-2013, ric. Ercolano, RV 258649-258651

[12] Così sezioni unite della Corte di Cassazione, sentenza nr. 18821 del 24-10-2013, ric. Ercolano, RV 258649-258651

[13] Così Cassazione, sez. 6, sentenza nr. 21982 del 16/05/2013 dep. 22/05/2013 Rv. 255674 – 01: <Nel giudizio di cassazione è rilevabile di ufficio, anche in caso di inammissibilità del ricorso, la nullità sopravvenuta della sentenza impugnata nel punto relativo alla determinazione del trattamento sanzionatorio in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma attinente alla determinazione della pena. (Fattispecie in cui il giudice di merito aveva negato la prevalenza dell'attenuante prevista dall'art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata, in applicazione dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte poi dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. sent. n. 251 del 2012)>.

[14] In realtà la Corte si è pronunziata sulla nota questione degli effetti della sentenza della Corte Costituzionale 251/2012 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 69 c. 4 c.p. nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante dell’art. 73 c. 5 d.P.R. 309/1990 sulla recidiva di cui all’art. 99 c. 4 c.p., affermando che il GE - ai sensi dell’art. 666 c. 1 c.p.p. ed in applicazione dell’art. 30 c. 4 L. cost. 11-3-1953 nr. 87 – può affermare la prevalenza della circostanza attenuante sempre che una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile. Ma chiaramente i principi ivi espressi chiariscono il corretto approccio interpretativo che deve tenersi rispetto alla sentenze definitive pronunziate nella vigenza della legge Fini-Giovanardi (legge 49/2006), dopo la rivoluzione normativa che ha caratterizzato la disciplina degli stupefacenti, dopo la sentenza della Corte Costituzionale nr. 32/2014, e segnatamente allorquando si verta in ipotesi di sentenze di condanna definitive per reato di cui all’art. 73 d.P.R. 309/1990 relative a droghe leggere, aventi ad oggetto un trattamento sanzionatorio successivamente divenuto incostituzionale con conseguente esecuzione di una pena illegale. In definitiva, il tema della vulnerabilità del giudicato si pone allora nella subiecta materia anche al di là della specifica materia affrontata dalla Corte, con la conseguenza che il giudicato può e deve essere vulnerato nel caso in cui ricorrano le condizioni per l’applicabilità retroattiva della disciplina più favorevole introdotta dalla declaratoria di incostituzionalità.

[15] Cassazione, sez. II, sentenza del 18 luglio 2014, imp. RAMON

[16] Così Cassazione, sez. un., sentenza n. 33040 del 26/02/2015 Cc. (dep.28/07/2015) Rv. 264207: <È illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette "leggere", sui limiti edittali dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità>.

[17] In questo senso: Sez. 6, n. 15157 del 20/03/2014, La Rosa, Rv. 259253; Sez. 6, n. 14984 del 05/03/2014, Costanzo, Rv. 259355; Sez. 6, n. 14995 del 26/03/2014, Lampugnano, Rv. 259359; Sez. 4, n. 21064 del 14/05/2014, Napoli, Rv. 259382; Sez. 3, n. 25176 del 21/05/2014, Amato, Rv. 259396; Sez. 3, n. 26340 del 25/03/2014, Di Maggio, Rv. 260058; Sez. 6, n. 39924 del 23/09/2014, Grisorio, Rv. 260711; Sez. 6, n. 21609 del 04/04/2014, Poggi; Sez. 6, n. 21614 del 29/04/2014, Corino; Sez. IV, n. 22282 del 06/05/2014, Guarnieri; Sez. 6, n. 22283 del 06/05/2014, Bishataj; Sez. 6, n. 23009 del 20/03/2014, Reynoso; Sez. 4, n. 27621 del 28/05/2014, Agnello; Sez. 4, n. 49704 del 04/11/2014, El Wali; Sez. 4, n. 49727 del 06/11/2014, Forzanti.

[18] Così Corte Costituzionale, sentenza n. 127 del 1966.

[19] Così Corte Costituzionale, sentenza n. 49 del 1970; n. 139 del 1984.

[20] Così Cassazione, sez. un., sentenza n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260695.

[21] Nell’esperienza pratica degli Uffici milanesi, ad esempio, non risultano allo stato pervenute istanze inammissibili

[22] Chi scrive guarda, allo stato, all’esperienza pratica che si è registrata negli Uffici milanesi.

[23] Così Giuseppe AMATO, Pena sproporzionata non ha più funzione di tipo rieducativo, in Guida al diritto, nr. 14, del 23-3-2019, pag. 61.

[24] Tra gli altri Giuseppe AMATO, Pena sproporzionata non ha più funzione di tipo rieducativo, in Guida al diritto, nr. 14, del 23-3-2019, pag. 61.

[25] Si veda Cassazione, sez. un., sentenza del 26-2-2009, Rizzoli e sez. un., sentenza del 29-5-2014, Gatto.

[26] Chi scrive guarda, allo stato, all’esperienza pratica che si è registrata negli Uffici milanesi.

[27] Ci si riferisce ai casi, sopra citati, in cui circostanze attenuanti generiche sono state concesse e riconosciute equivalenti o addirittura prevalenti alla contestata recidiva ex articolo 99 del codice penale, senza motivazione ulteriore (se non la dichiarata esigenza di adeguare la pena al disvalore penale del fatto), pur in presenza di condotte del reo specificatamente idonee a conferire particolare disvalore penale al fatto (ad esempio come si è registrato in uno dei casi sopra citati, di soggetti arrestati nella flagranza del delitto commesso mentre l’imputato si trovava in espiazione pena nelle forme della detenzione domiciliare in ragione di una pregressa condanna della medesima specie.

[28] In questo senso: Sez. 6, n. 15157 del 20/03/2014, La Rosa, Rv. 259253; Sez. 6, n. 14984 del 05/03/2014, Costanzo, Rv. 259355; Sez. 6, n. 14995 del 26/03/2014, Lampugnano, Rv. 259359; Sez. 4, n. 21064 del 14/05/2014, Napoli, Rv. 259382; Sez. 3, n. 25176 del 21/05/2014, Amato, Rv. 259396; Sez. 3, n. 26340 del 25/03/2014, Di Maggio, Rv. 260058; Sez. 6, n. 39924 del 23/09/2014, Grisorio, Rv. 260711; Sez. 6, n. 21609 del 04/04/2014, Poggi; Sez. 6, n. 21614 del 29/04/2014, Corino; Sez. IV, n. 22282 del 06/05/2014, Guarnieri; Sez. 6, n. 22283 del 06/05/2014, Bishataj; Sez. 6, n. 23009 del 20/03/2014, Reynoso; Sez. 4, n. 27621 del 28/05/2014, Agnello; Sez. 4, n. 49704 del 04/11/2014, El Wali; Sez. 4, n. 49727 del 06/11/2014, Forzanti.

[29] Così Cassazione, sez. un., sentenza n. 33040 del 26/02/2015 Cc. (dep.28/07/2015) Rv. 264207: <È illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette "leggere", sui limiti edittali dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità>.

[30] Così Cassazione, sez. un., sentenza n. 33040 del 26/02/2015 Cc. (dep.28/07/2015) Rv. 264207: <È illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette "leggere", sui limiti edittali dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità>.

[31] In questo senso: Sez. 6, n. 15157 del 20/03/2014, La Rosa, Rv. 259253; Sez. 6, n. 14984 del 05/03/2014, Costanzo, Rv. 259355; Sez. 6, n. 14995 del 26/03/2014, Lampugnano, Rv. 259359; Sez. 4, n. 21064 del 14/05/2014, Napoli, Rv. 259382; Sez. 3, n. 25176 del 21/05/2014, Amato, Rv. 259396; Sez. 3, n. 26340 del 25/03/2014, Di Maggio, Rv. 260058; Sez. 6, n. 39924 del 23/09/2014, Grisorio, Rv. 260711; Sez. 6, n. 21609 del 04/04/2014, Poggi; Sez. 6, n. 21614 del 29/04/2014, Corino; Sez. IV, n. 22282 del 06/05/2014, Guarnieri; Sez. 6, n. 22283 del 06/05/2014, Bishataj; Sez. 6, n. 23009 del 20/03/2014, Reynoso; Sez. 4, n. 27621 del 28/05/2014, Agnello; Sez. 4, n. 49704 del 04/11/2014, El Wali; Sez. 4, n. 49727 del 06/11/2014, Forzanti.

[32] Così Cassazione, sez. un., sentenza n. 33040 del 26/02/2015 Cc. (dep.28/07/2015) Rv. 264207: <È illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette "leggere", sui limiti edittali dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità>.

[33] Così Cassazione, sez. 1, sentenza n. 16766 del 07/04/2010, Ndyae, Rv. 246930

[34] Così Giuseppe AMATO, Pena sproporzionata non ha più funzione di tipo rieducativo, in Guida al diritto, nr. 14, del 23-3-2019, pag. 55.

[35] Così Cassazione, sez. 3, sentenza n. 21259 del 03/04/2014, Marku Irido, Rv. 259384.

[36] Così Cassazione, sez. un., sentenza n. 33040 del 26/02/2015 Cc. (dep.28/07/2015) Rv. 264207: <È illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette "leggere", sui limiti edittali dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall'originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità>.

[37] Ci si richiama alla ordinanza della Corte Costituzionale nr. 184 del 2017

[38] Così Giuseppe AMATO, Pena sproporzionata non ha più funzione di tipo rieducativo, in Guida al diritto, nr. 14, del 23-3-2019, pag. 61.

[39] Così Giuseppe AMATO, Pena sproporzionata non ha più funzione di tipo rieducativo, in Guida al diritto, nr. 14, del 23-3-2019, pag. 61.

 

 
 
 
 
 
 

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