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Magistratura Indipendente

PENALE  

Le diverse figure del dichiarante

  Penale 
 giovedì, 22 ottobre 2020

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di Alessandro CENTONZE, Consigliere della Corte di cassazione

 
 

Le diverse figure del dichiarante:
uno sguardo d’insieme *

 

Alessandro Centonze, Consigliere della Corte di cassazione

Sommario: 1. Il dichiarante-vittima, la rilevanza probatoria delle accuse rese dalla offesa dal reato e la regola probatoria dell’art. 192, comma 3, c.p.p. – 2. Il dichiarante-interessato, le garanzie difensive previste dall’art. 63 c.p.p. e la rilevanza probatoria delle dichiarazioni auto-indizianti. – 3. Il dichiarante-propalante e le dichiarazioni accusatorie rese dai chiamanti in correità e dai chiamanti in reità. – 4. Il dichiarante-incerto e la rilevanza probatoria delle dichiarazioni auto-accusatorie ed etero-accusatorie oggetto di ritrattazione. – 5. Il dichiarante-irreperibile, la rilevanza probatoria delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio e il principio del “giusto processo” affermato dall’art. 111 Cost. – 6. Il dichiarante-esperto, l’esame dibattimentale del perito e la questione dell’assimilazione tra perito e testimone.

 

1. Il dichiarante-vittima, la rilevanza probatoria delle accuse rese dalla offesa dal reato e la regola probatoria dell’art. 192, comma 3, c.p.p.

 

In questa breve rassegna sulle figure dichiarative del nostro sistema penale ritengo opportuno prendere le mosse dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato, sulla cui rilevanza probatoria spesso si riscontrano equivoci ermeneutici, dovuti all’improprio inquadramento di questo soggetto processuale da parte dei giudici di merito.

Deve, infatti, rilevarsi che le dichiarazioni della persona offesa dal reato, pur dovendo essere valutate con le opportune cautele processuali, dovute al suo interesse all’esito del procedimento penale, costituiscono un elemento probatorio idoneo e sufficiente a consentire, nel corso delle indagini preliminari, l’applicazione di un provvedimento cautelare e, nel giudizio di merito, la condanna dell’imputato.

D’altra parte, pur dovendosi riscontrare occasionali incertezze applicative da parte della giurisprudenza di merito, non sussistono oscillazioni interpretative tali da indurre a ritenere modificato il quadro ermeneutico di riferimento in tema di valutazione della prova, secondo cui la deposizione della persona offesa, anche se rappresenta l’unica prova del fatto da accertare e manchino riscontri esterni, può legittimare l’adozione di un provvedimento restrittivo – e la successiva emissione di una sentenza di condanna dell’imputato –, conformemente a quanto statuito dalla Suprema Corte, secondo cui: «In tema di misure cautelari personali, le dichiarazioni accusatorie della persona offesa possono integrare i gravi indizi di colpevolezza richiesti per l’applicazione della misura, senza necessità di acquisire riscontri oggettivi esterni ai fini della valutazione di attendibilità estrinseca»[1].

In tale ambito, occorre ulteriormente considerare la giurisprudenza di legittimità, consolidatasi a seguito dell’intervento chiarificatore delle Sezioni unite, che esclude l’applicazione della regola generale prevista dall’art. 192, comma 3, c.p.p. alle dichiarazioni delle persone offese dal reato, secondo la quale: «Le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone»[2].

Ne discende che la deposizione della persona offesa dal reato, anche se non può essere equiparata tout court a quella del testimone estraneo ai fatti di reato, può tuttavia essere assunta, anche da sola, come fonte di prova, laddove sia sottoposta a un controllo rigoroso sulla credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendo neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità[3].

 

2. Il dichiarante-interessato, le garanzie difensive previste dall’art. 63 c.p.p. e la rilevanza probatoria delle dichiarazioni auto-indizianti.

 

Una delle figure più problematiche di dichiarante – le cui dichiarazioni possiedono una valenza probatoria particolarmente controversa – è quella del soggetto che rende dichiarazioni auto-indizianti, per le quali si pone il problema dell’applicazione delle garanzie difensive previste dall’art. 63 c.p.p., su cui si impone una ricognizione preliminare, che, laddove correttamente eseguita dal giudice di merito, si sottrae al sindacato di legittimità[4].

Tale vaglio preliminare, dunque, deve essere fondato su una corretta applicazione dell’art. 63 c.p.p. e postula un accertamento sulla posizione del dichiarante e sul suo interesse personale alla ricostruzione dei fatti di reato su cui viene chiamato a deporre davanti all’autorità giudiziaria. Dall’esito di tale accertamento discende la possibilità di applicare la disciplina dell’art. 63 c.p.p., conformemente alla giurisprudenza di legittimità consolidatasi con l’intervento chiarificatore delle Sezioni unite, secondo cui: «Le dichiarazioni “indizianti” di cui all’art. 63, comma primo, cod. proc. pen. sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, non invece quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato quale il favoreggiamento personale, la calunnia o la falsa testimonianza, in quanto la predetta norma di garanzia è ispirata al principio “nemo tenetur se detegere”, che salvaguarda la persona che abbia commesso un reato, e non quella che debba ancora commetterlo»[5].

Ne discende che, ai fini della verifica della rilevanza probatoria della testimonianza, il sistema introdotto dal codice di rito vigente separa nettamente la valutazione della testimonianza ai fini della decisione del processo in cui è stata resa e la persecuzione penale del testimone che abbia eventualmente deposto il falso, attribuendo al giudice il solo compito di informare il pubblico ministero della notizia di reato, qualora ne ravvisi gli estremi in sede di valutazione del materiale probatorio[6]. Di conseguenza, la deposizione del testimone, pur se falsa, rimane parte integrante del processo penale in cui è stata resa e costituisce prova utilizzabile e valutabile in relazione al compendio probatorio legittimamente acquisito, consentendo la condanna dell’imputato[7].

Questa posizione ermeneutica, del resto, si impone alla luce dell’orientamento precedentemente consolidatasi in senso alle Sezioni unite in tema di attribuibilità della qualità di soggetto indagato al testimone, nel cui contesto veniva affermato il seguente principio di diritto: «In tema di prova dichiarativa, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e quindi al di là del riscontro di indici formali, l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità»[8].

 

3. Il dichiarante-propalante e le dichiarazioni accusatorie rese dai chiamanti in correità e dai chiamanti in reità.

 

Per inquadrare questa figura dichiarativa è necessario richiamare preliminarmente l’orientamento ermeneutico consolidatosi a seguito dell’intervento chiarificatore delle Sezioni unite, secondo cui: «Nella valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di accertare l’esistenza di riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale»[9].

Questo orientamento ermeneutico, com’è noto, si inserisce in un filone giurisprudenziale risalente a un decennio prima dell’intervento chiarificatore delle Sezioni unite, sopra citato, cui ci si deve riferire richiamando il seguente principio di diritto: «In tema di chiamata in reità, poiché la valutazione della credibilità soggettiva del dichiarante e quella della attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni non si muovono lungo linee separate, posto che l’uno aspetto influenza necessariamente l’altro, al giudice è imposta una considerazione unitaria dei due aspetti, pur logicamente scomponibili; sicché, in presenza di elementi incerti in ordine all’attendibilità del racconto, egli non può esimersi dal vagliarne la tenuta probatoria alla luce delle complessive emergenze processuali, in quanto – salvo il caso estremo di una sicura inattendibilità del dichiarato – il suo convincimento deve formarsi sulla base di un vaglio globale di tutti gli elementi di informazione legittimamente raccolti nel processo»[10].

In questa stratificata cornice ermeneutica, deve rilevarsi che, ai fini della corretta valutazione del mezzo di prova di cui si sta discutendo, la metodologia a cui il giudice di merito deve conformarsi non può che essere quella trifasica, fondata sulla valutazione della credibilità del dichiarante, desunta dalla sua personalità, dalle sue condizioni socio-economiche e familiari, dal suo passato, dai rapporti con l’accusato, dalla genesi remota e prossima delle ragioni che lo hanno indotto all’accusa nei confronti del chiamato; dalla valutazione dell’attendibilità intrinseca della chiamata effettuata dal propalante, che deve essere fondata sui criteri della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; dalla verifica esterna dell’attendibilità della dichiarazione accusatoria resa dal propalante, effettuata attraverso l’esame di elementi estrinseci di riscontro alla stessa chiamata, idonei ad attestarne la veridicità[11].

Deve, tuttavia, evidenziarsi, in linea con quanto opportunamente precisato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, che tale sequenza trifasica non deve svilupparsi rigidamente, nel senso che il percorso valutativo dei vari passaggi non deve muoversi lungo linee separate, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente, allo stesso modo di quanto accade per ogni altra fonte dichiarativa, deve essere valutata unitariamente, conformemente ai criteri epistemologici generali e non prevedendo, per converso, la disposizione dell’art. 192, comma 3, c.p.p., alcuna deroga[12].

Quanto, infine, alla tipologia e all’oggetto dei riscontri probatori, la genericità del riferimento agli elementi di prova da parte dell’art. 192, comma 3, c.p.p. legittima l’interpretazione secondo cui, in questo ambito, vige il principio della libertà degli elementi di riscontro estrinseco, nel senso che questi, non essendo predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura, ricomprendendo non soltanto le prove storiche dirette, ma ogni altro elemento probatorio, anche indiretto, legittimamente acquisito al processo penale e idoneo, sul piano della mera consequenzialità logica, a corroborare, nell’ambito di una valutazione probatoria unitaria, il mezzo di prova ritenuto bisognoso di conferma giurisdizionale[13].

Ne discende che il riscontro estrinseco alla chiamata in correità o in reità di un propalante può essere offerto anche dalle dichiarazioni di analoga natura rese da uno o più degli altri soggetti indicati nella richiamata disposizione, atteso che qualunque elemento probatorio, diretto o indiretto che sia, purché estraneo alle dichiarazioni che devono essere riscontrate, può essere legittimamente utilizzato a conferma della loro attendibilità[14].

 

4. Il dichiarante-incerto e la rilevanza probatoria delle dichiarazioni auto-accusatorie ed etero-accusatorie oggetto di ritrattazione.

 

Non è infrequente che, dopo l’acquisizione di dichiarazioni auto-accusatorie o etero-accusatorie, il dichiarante operi la ritrattazione delle precedenti accuse, ponendo il problema della rilevanza da attribuire alle originarie propalazioni e alla successiva ritrattazione processuale.

Per risolvere questo problema occorre richiamare la giurisprudenza di legittimità che afferma l’ininfluenza di una ritrattazione di cui sia accertata l’inattendibilità e l’incoerenza con gli altri dati processuali, relativi alla credibilità intrinseca del dichiarante e alla valenza probatoria delle sue dichiarazioni, rilevanti sia nei confronti dell’imputato sia nei confronti di eventuali soggetti accusati[15]

Si tratta, allora, di ribadire che l’eventuale ritrattazione, in quanto tale, non assume un rilievo idoneo a escludere la rilevanza delle precedenti dichiarazioni, confessorie o eteroaccusatorie, conformemente alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui tale comportamento processuale non costituisce un elemento in grado di escludere ex se l’attendibilità del dichiarante, purché il giudice di merito, con una motivazione adeguata, dia conto del mutamento della posizione dichiarativa e dell’assoluta inattendibilità delle dichiarazioni testimoniali attraverso le quali si è concretizzata la ritrattazione. Di conseguenza, la ritrattazione del propalante non rappresenta un elemento in grado di escludere l’attendibilità intrinseca del chiamante, come costantemente affermato dalla Suprema Corte, a condizione che «il giudice di merito, con congrua motivazione, dia conto delle ragioni del mutamento della posizione del dichiarante ovvero ponga in rilievo l’assoluta inattendibilità delle controdichiarazioni»[16].

Si muove, a ben vedere, in questa direzione anche l’opzione ermeneutica che non stabilisce una presunzione assoluta di inattendibilità della ritrattazione delle precedenti dichiarazioni, in linea con il seguente principio di diritto: «In tema di valutazione delle prove, la ritrattazione, da parte di un collaboratore di giustizia, di dichiarazioni accusatorie in precedenza rese non costituisce elemento in grado di escluderne l’attendibilità, potendo il giudice legittimamente riconoscere valore probatorio alle stesse, a condizione che eserciti su di esse un controllo più incisivo, esteso ai motivi della variazione del dichiarato, potendo anche ritenere che la ritrattazione si traduca in un ulteriore elemento di conferma delle originarie accuse»[17].

La ritrattazione delle precedenti dichiarazioni, pertanto, non è indefettibilmente idonea a svalutare le accuse precedentemente rese da un dichiarante davanti all’autorità giudiziaria, non potendo attribuirsi a tale scelta processuale alcuna connotazione presuntiva che non sia superabile aliunde. Ne consegue che il giudice di merito può legittimamente riconoscere valore probatorio alle dichiarazioni testimoniali che sono state ritrattate, a condizione che eserciti su di esse un controllo incisivo, possibilmente esteso ai motivi della loro variazione, potendo persino ritenere che la ritrattazione inattendibile o mendace si traduca, in quanto tale, in un ulteriore elemento di conferma delle accuse originarie[18].

 

5. Il dichiarante-irreperibile, la rilevanza probatoria delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio e il principio del “giusto processo” affermato dall’art. 111 Cost.

 

Proseguendo in questa rassegna delle diverse figure di dichiarante del sistema processuale, occorre fare riferimento alla figura del dichiarante-irreperibile, per l’inquadramento della quale occorre richiamare l’art. 526, comma 1-bis, c.p.p.

Si consideri che l’art. 526, comma-1 bis, c.p.p. pone un limite all’utilizzazione probatoria delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio, richiamando la previsione dell’art. 111, comma 4, Cost., affermando: «La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore».

In questa cornice ermeneutica, si inserisce il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite, secondo cui: «Le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono – conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza europea, in applicazione dell’art. 6 della CEDU – fondare in modo esclusivo o significativo l’affermazione della responsabilità penale»[19].

Si tenga ulteriormente presente che il comma 1-bis dell’art. 526 c.p.p. è stato introdotto dall’art. 19 della legge 10 marzo 2001, n. 63, in linea con la previsione dell’art. 111, comma 4, Cost., che ha reso espliciti a livello costituzionale i principi enunciati dall’art. 6 CEDU, così come elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale. Sarebbe, quindi, incongruo ritenere che il legislatore italiano, nel momento in cui ha operato una revisione sistematica dell’art. 111 Cost., allo scopo di introdurvi i principi convenzionali sul giusto processo, abbia invece mantenuto in vigore una norma incompatibile con quella convenzionale, consentendo l’utilizzazione di prove acquisite in assenza di contraddittorio.

Ne deriva che la differenza di formulazione rispetto alla norma dell’art. 6 CEDU non può essere intesa nel senso di una volontà del legislatore italiano di impedire l’applicazione della regola convenzionale in materia di garanzie del contraddittorio. La diversità di articolazione delle disposizioni richiamate, del resto, non esclude che le stesse rappresentino l’applicazione di un identico o di un analogo principio generale, finalizzato ad affermare un rigoroso criterio di valutazione delle dichiarazioni dei soggetti che la difesa non ha mai avuto la possibilità di esaminare e a eliminare o a limitare le statuizioni di condanna fondate sulle dichiarazioni di un dichiarante irreperibile[20].

Il criterio di valutazione affermato dall’art. 6 CEDU, pertanto, si deve necessariamente integrare con gli altri criteri di valutazione elaborati dall’ordinamento, imponendo un’interpretazione sistematica del principio del contraddittorio nella formazione della prova e della regola di giudizio consacrata nell’art. 533, comma 1, c.p.p. e costituzionalizzata dall’art. 111, comma quarto, Cost.

 

6. Il dichiarante-esperto, l’esame dibattimentale del perito e la questione dell’assimilazione tra perito e testimone.

 

Per inquadrare questa figura di dichiarante occorre muovere dalla disposizione dell’art. 220 c.p.p., che disciplina la perizia, che può essere disposta per effettuare indagini, acquisire dati, compiere valutazioni, che richiedano specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche.

Quanto alle modalità con le quali il perito deve rispondere al quesito rassegnatogli dall’autorità giudiziaria, l’art. 227 c.p.p. prevede, alternativamente, la possibilità di una risposta orale immediata ovvero di una risposta a mezzo di una relazione scritta, nel caso in cui le verifiche peritali comportino accertamenti di “particolare complessità”.

Per quanto riguarda, invece, l’esame del perito, la previsione dell’art. 501 c.p.p. dispone che «si osservano le disposizioni sull’esame dei testimoni in quanto applicabili», comportando l’assimilazione del perito al testimone, che, tra l’altro, appare desumibile dall’impegno che sia il perito – ai sensi dell’art. 226 c.p.p. – sia il testimone – ai sensi dell’art. 497 c.p.p. – devono assumere nei confronti dell’autorità giudiziaria.

Si può, pertanto, affermare che il perito, in ambito processuale, riveste ruoli multifunzionali, potendo essere chiamato a svolgere sia accertamenti sia valutazioni; ragione per cui viene anche chiamato “testimone esperto”, perché, analogamente al testimone, ha l’obbligo di riferire sui fatti sui quali viene esaminato, pur essendo esperto, perché, nel rispondere, si deve avvalere delle sue competenze specialistiche.

Tuttavia, è proprio per la centralità che, generalmente, la perizia assume ai fini della decisione, che il legislatore ha congegnato il suo svolgimento in modo che venga assicurata la garanzia del contraddittorio sia nella fase dello svolgimento dell’incarico peritale, concedendo alle parti la possibilità di nominare propri consulenti, ai sensi dell’art. 225 c.p.p., sia nella fase dell’esposizione degli esiti delle sue verifiche, disponendo che il perito sia sottoposto a esame con le forme previste dall’art. 501 c.p.p. Ne consegue che la garanzia del contraddittorio prevista dall’art. 501 c.p.p. pen. costituisce l’elemento che maggiormente caratterizza, dal punto di vista processuale, l’istituto della perizia e rende destituita di fondamento sistematico l’affermazione secondo cui il perito – esprimendo valutazioni neutre, fondate sulle sue competenze specifiche – non può essere assimilato al testimone.

Questa posizione ermeneutica, da ultimo, è stata ribadita dalle Sezioni unite, che, intervenendo nel più ampio contesto della riforma della sentenza assolutoria di primo grado, affermavano il seguente principio di diritto: «Le dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, costituiscono prove dichiarative, sicché sussiste, per il giudice di appello che, sul diverso apprezzamento di esse, fondi, sempreché decisive, la riforma della sentenza di assoluzione, l’obbligo di procedere alla loro rinnovazione dibattimentale attraverso l’esame del perito o del consulente, mentre analogo obbligo non sussiste ove la relazione scritta del perito o del consulente tecnico sia stata acquisita mediante lettura, ivi difettando la natura dichiarativa della prova»[21].

Questa pronunzia di legittimità, peraltro, non deve essere valutata isolatamente, giungendo a conclusione di un percorso ermeneutico estremamente articolato, che traeva origine dalla nota “Sentenza Dasgupta”, che, nel più ampio contesto del canone di giudizio di cui all’art. 533, comma 1, c.p.p., affermavano il seguente principio di diritto: «È affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art. 533, comma primo, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell’art. 603, comma terzo, cod. proc. pen.; ne deriva che, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata»[22].

Si trattava, probabilmente, di un percorso ermeneutico inevitabile, anche alla luce della successiva introduzione dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p., atteso che, secondo la giurisprudenza sovranazionale consolidata, il perito è equiparabile al testimone. Infatti, la Corte EDU ha costantemente affermato che al perito – pur rivestendo un ruolo diverso da quello del testimone, dovendo qualificarsi come “testimone esperto” – si applicano le regole del giusto processo, che ne comportano l’assimilazione al testimone[23].

Infatti, secondo l’interpretazione costante che la Corte EDU ha fornito dell’art. 6.3, lett. d), CEDU le garanzie previste per i testimoni devono essere applicate anche ai periti, con la conseguenza che, relativamente a tali soggetti processuali, devono essere riconosciute le garanzie difensive previste per i testimoni. Dispone, in particolare, l’art. 6.3, lett. d), CEDU, che «ogni accusato ha diritto di: (a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; (b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; (c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; (d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; (e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza»[24].

Sulla scorta di questi richiami giurisprudenziali sovranazionali, le Sezioni unite si pronunciavano nel senso dell’equiparazione tra la figura del perito e quella del testimone, osservando che le regole del “giusto processo”, così come canonizzate dall’art. 6.3, lett. d), CEDU e recepite dall’art. 111 Cost. devono essere applicate anche ai “testimoni esperti”, laddove costoro, come i testimoni ordinari, a maggior ragione laddove costoro assumono un rilievo determinante ai fini della decisione del giudice di merito[25].



* Questo intervento riproduce fedelmente l’esposizione orale della relazione tenuta il 12 ottobre 2020, durante il Corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, con formazione da remoto, intitolato “La prova dichiarativa nel processo penale”.

[1] Si veda Cass. pen., Sez. V, 20 dicembre 2013, n. 5609, Puente Suarez, in Cass. C.E.D., n. 258870-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme al principio di diritto richiamato nel testo, anche Sez. I, 21 settembre 2018, M., n. 44633, in Cass. C.E.D., n. 273891-01.

[2] Si veda Cass. pen., Sez. un., 18 luglio 2012, Bell’Arte, n. 4161l, in Cass. C.E.D., n. 253214-01; su questa importante pronunzia di legittimità, si veda ulteriormente il commento dottrinario di V. Bosco, Giudizio abbreviato condizionato: ancora irrisolto il problema delle prove di impossibile acquisizione, in Giur. it., 2013, 5, pp. 1191 ss.

[3] Si vedano Cass. pen., Sez. IV, 11 febbraio 2020, C., n. 10513, in Cass. C.E.D., n. 278609-01; Cass. pen., Sez. V, 1 giugno 1999, Mazzella, n. 6910, in Cass. C.E.D., n. 213613-01.

[4] Si vedano Cass. pen., Sez. VI, 19 aprile 2016, n. 20098, in Cass. C.E.D., n. 267129-01; Cass. pen., Sez. II, 16 ottobre 2013, Caterino, n. 51840, in Cass. C.E.D., n. 267129-01.

[5] Si veda Cass. pen., Sez. un., 26 marzo 2015, Lo Presti, n. 33583, in Cass. C.E.D., n. 264481-01; su questa importante pronunzia di legittimità, si veda ulteriormente il commento dottrinario di P. Maggio, Le dichiarazioni rese in assenza dell’avvertimento contemplato nell’art. 64 comma 3 lett. c) sono inutilizzabili anche nei casi di connessione debole, in Proc. pen. giust., 2015, 6, pp. 34 ss.

[6] Si vedano Cass. pen., Sez. III, 3 ottobre 2018, A., n. 53656, in Cass. C.E.D., n. 275452-01; Cass. pen., Sez. VI, 31 marzo 2004, Turturici, n. 21116, in Cass. C.E.D., n. 229024-01.

[7] Si veda Cass. pen., Sez. VI, 23 novembre 2011, Accetta, n. 18065, in Cass. C.E.D., n. 252531-01; Cass. pen., Sez. V, 28 gennaio 2013, Marino, n. 19313, in Cass. C.E.D., n. 255635-01.

[8] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 febbraio 2010, Mills, n. 15208, in Cass. C.E.D., n. 246584-01; su questa importante pronunzia di legittimità, si veda ulteriormente il commento dottrinario di V. Maiello, La corruzione susseguente in atti giudiziari tra testo, contesto e sistema, in Dir. pen. proc., 2010, 8, pp. 995 ss.

[9] Si veda Cass. pen., Sez. un., 29 novembre 2012, Aquilina, n. 20804, in Cass. C.E.D., n. 255145-01; su questa importante pronunzia di legittimità, si veda ulteriormente il commento dottrinario di G. Barrocu, Chiamata in correità de relato: il libero convincimento del giudice come “cavallo di Troia” per il recupero del sapere investigativo, in Dir. pen. proc., 2013, 12, pp. 1437 ss.

[10] Si vedano Cass. pen., Sez. VI, 13 marzo 2007, Pelaggi, n. 11599, in Cass. C.E.D., n. 236151-01; Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2006, n. 21599, Emmanuello, in Cass. C.E.D., n. 244541-01.

[11] Si veda Cass. pen., Sez. un., 21 ottobre 1992, Marino, n. 1653, in Cass. C.E.D., n. 192465-01.

[12] Si vedano Cass. pen., Sez. I, 2 dicembre 2016, Aracu, n. 13844, in Cass. C.E.D., n. 270367-01; Cass. pen., Sez. I, 5 febbraio Pagnozzi 2014, n. 22633, in Cass. C.E.D., n. 262348-01.

[13] Si veda Cass. pen., Sez. un., 29 novembre 2012, Aquilina, n. 20804, cit.

[14] Si veda Cass. pen., Sez. un., 29 novembre 2012, Aquilina, n. 20804, cit.

[15] Si vedano Cass. pen., Sez. I, 13 Maggio 2015, Tornicchio, n. 43681, in Cass. C.E.D., n. 264476-01; Cass. pen., Sez. I, 4 marzo 2008, Abbrescia, n. 14623, in Cass. C.E.D., n. 240114-01.

[16] Si veda Cass. pen., Sez. I, 20 giugno 2011, Maggi, in Cass. C.E.D., n. 271252-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme al principio di diritto richiamato nel testo, anche Cass. pen., Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo, n. 7627, in Cass. C.E.D., n. 206583-01.

[17] Si veda Cass. pen., Sez. VI, 30 maggio 2019, Caggiano, n. 35680, in Cass. C.E.D., n. 276693-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme al principio di diritto richiamato nel testo, anche Cass. pen., Sez. III, 4 novembre 2009, Preka, n. 49579, in Cass. C.E.D., n. 271252-01.

[18] Si veda Cass. pen., Sez. I, 20 giugno 2011, Maggi, cit.

[19] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 novembre 2010, D.F., n. 27918, in Cass. C.E.D., n. 250199-01; su questa importante pronunzia di legittimità, si veda ulteriormente il commento dottrinario di P. Silvestri, Le Sezioni Unite impongono rigore per l’acquisizione e l’utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali rese senza contraddittorio da persona residente all’estero, in Cass. pen., 2012, 3, pp. 858 ss.

[20] Si vedano Cass. pen., Sez. V, 18 gennaio 2017, S., n. 13522, in Cass. C.E.D., n. 269397-01; Cass. pen., Sez. II, 18 ottobre 2007, Poltronieri, n. 43331, in Cass. C.E.D., n. 238198-01.

[21] Si veda Cass. pen., Sez. un., 28 gennaio 2019, Pavan, n. 14426, in Cass. C.E.D., n. 275112-01; su questa importante pronunzia di legittimità, si vedano ulteriormente i commenti dottrinari di S. Recchione, Il processo a statuto probatorio variabile: la rinnovazione in appello della prova scientifica, in www.sistemapenale, 23 giugno 2020; G. Galluccio Mezio, Riflessione a margine delle Sezioni unite nel caso Pavan: la rinnovazione della “prova tecnica” in appello tra luci e ombre, in Cass. pen., 2019, 11, pp. 3859 ss.

[22] Si veda Cass. pen., Sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, n. 2760, in Cass. C.E.D., n. 267486-01; su questa pronunzia di legittimità, si veda ulteriormente il commento dottrinario di V. Aiuti, Poteri d’ufficio della Cassazione e diritto all’equo processo, in Cass. pen., 2016, 9, pp. 3214 ss.

[23] Si vedano Corte EDU, 12 maggio 2016, Poletan e Azirovik c. Macedonia; Corte EDU, 27 marzo 2014, Matytsina c. Russia.

[24] Si veda Cass. pen., Sez. un., 28 gennaio 2019, Pavan, n. 14426, cit.

[25] Si veda Cass. pen., Sez. un., 28 gennaio 2019, Pavan, n. 14426, cit.

 

 
 
 
 
 
 

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RIVISTA ISSN 2532 - 4853 Il Diritto Vivente [on line]

 

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