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Magistratura Indipendente

TRIBUTARIO  

Il processo tributario in Cassazione: spunti critici e proposte per il futuro

  Tributario 
 mercoledì, 24 novembre 2021

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 di Mario CICALA[1] , Direttore della Rivista il Diritto vivente

 

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti: nel processo tributario. - 3. Segue: nel giudizio di cassazione: i criteri per  la redazione del ricorso; la autodisciplina delle istituzioni giudiziarie. - 4. Segue: leale collaborazione e inammissibilità del ricorso per cassazione. Dalla “relazione Luiso” al  “maxiemendamento” approvato dal Senato. - 5. Segue: leale collaborazione nella redazione del ricorso per Cassazione nel “maxiemendamento” approvato dal Senato. - 6. Le misure che incidono sulle spese di causa - 7. La leale collaborazione tra giudici e avvocati - 8. La più  rilevante novità: verso la Cassazione monocratica? - 9. Le semplificazioni procedurali nel giudizio di cassazione. - 10. Funzione nomofilattica della Cassazione e certezza del diritto. - 11. La riflessione all’interno della Corte di Cassazione: verso uno “stare decisis” attenuato? Governo della Magistratura e Corte di Cassazione. - 12. lnammissibilità  nel ricorso per Cassazione e Carta Europea dei Diritti  dell’Uomo: il Giudice di Strasburgo dice la sua. - 13. Proposte relative alla sezione tributaria della Cassazione.

 

 

1.Premessa.

Queste poche considerazioni segnano l’abbandono di un impegno assunto con me stesso: non occuparmi delle proposte di legge  pendenti avanti al Parlamento ed attendere  il momento in cui possiamo leggere un testo definitivo, pubblicato sulla nobile carta della Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Perché ora vengo meno a questo saggio proposito?  Perché, come sottolineato da  Giuliano Scarselli  su “Giustizia insieme” viviamo una fase storica  in cui l’asse del potere legislativo si è spostato dal Parlamento al Governo. Uno spostamento dovuto a molte ragioni, non ultima la necessità di adempiere ad impegni assunti nei confronti della Unione Europea e cui è, almeno formalmente, subordinato l’aiuto economico promesso dalla Unione stessa al nostro Paese.

Dunque il Governo forza il Parlamento alla sollecita approvazione di leggi delega su cui pone la questione di fiducia, e lo studio dei testi sostanzialmente elaborati dal Governo (che emanerà la legislazione delegata) ci prepara ad un probabile (o solo possibile?) flusso di riforme di un certo peso. Si tratterà di vedere se questa situazione si protrarrà solo qualche mese o fino alla scadenza del 2023. Quindi l’esame delle proposte finora emerse potrebbe non costituire un “parlar delle nuvole”¸ma piuttosto un prepararsi a riforme imminenti in quanto  il  testo    votato dal Senato è già all’esame del plenum della Camera dei Deputati.

E’ poi ovvio che non mi è possibile esaminare tutti  i profili del testo approvato dal Senato, che si propone una vera e propria globale rimeditazione del processo civile e mi limiterò quindi a “dir qualcosa” dei profili processuali delle procedure tributarie e del processo di Cassazione (tributario e non).

Questa riflessione si snoda su vari fili conduttori ed il primo di essi mi pare sia costituito dall’esigenza di perseguire (o magari imporre)  una “leale collaborazione” fra le parti del processo.

Una “leale collaborazione” che, sul piano pratico, non può che tradursi in maggiori oneri per gli Avvocati, almeno per quelli del “libero foro”.

 

 2. Il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti: nel processo tributario

Sappiamo tutti che il dovere della “leale collaborazione” è un principio di carattere generale che deve (o dovrebbe) incidere in tutti i rapporti intersoggettivi di natura pubblica, ma anche -sia pure con differenti modalità- di natura privata. Vincolando gli operatori economici e sociali a forme di collaborazione per il raggiungimento e il rispetto di valori comuni, che sono presenti anche nella contesa giudiziaria.

Si tratta ovviamente di un principio che deve essere coordinato con altri principi e valori, in grado di limitarlo; e ciò vale anche quando si affrontano gli argomenti oggetto di questa breve riflessione.

Espongo, in primo luogo, qualche sommario spunto riferito alla tematica tributaria.

Nel rapporto  tributario, ed in particolare nel rapporto processuale vi è , a mio avviso, una radicale differenza fra la posizione dell’ente impositore e quella dei contribuenti e dei loro difensori.

L’ente impositore ha (o dovrebbe avere) come scopo istituzionale l’esatta applicazione dei carichi tributari, e non la massimizzazione delle entrate. Il contribuente ben può invece avere come proprio scopo il ridurre al minimo gli esborsi (accrescendo così la propria ricchezza); perciò gode , ad esempio, del c.d. “diritto al silenzio” cioè di non fornire a controparte quelle informazioni che possono determinare l ’applicazione di misure punitive, amministrative o penali che siano (nemo tenetur se detegere) [2].  Dunque il contribuente non è tenuto a riversare nel giudizio anche i documenti che possono nuocergli, mentre a ciò è tenuto l’ente impositore, e chi lo tutela, in primis la Avvocatura di Stato[3].

Si deve però considerare che nella giurisprudenza della Cassazione si manifesta un indirizzo che sottolinea i vincoli che il principio della leale collaborazione arreca anche alla attività del difensore del contribuente.

Nella ordinanza della sesta sezione (articolazione tributaria)   n.   29667  del 22 ottobre    2021 (Presidente Mocci, Relatore Delli Priscoli) si legge: “si ritiene che nel caso di specie ricorrano i presupposti per la condanna del ricorrente ex art. 96, comma 3, c.p.c., rinvenendosi nella condotta della parte ricorrente un abuso dello strumento processuale consistente nella inconsistenza dell'interesse ad agire in capo alla parte in relazione alla esiguità del valore economico della causa e ai doveri di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. che impongono ai difensori di riflettere circa le conseguenze del ricorso sul diritto fondamentale della collettività ad una ragionevole durata dei processi di cui all'art. 111 Cost., tanto più in relazione all'omesso adempimento dell'onere di completezza del ricorso, carente come già detto quanto al principio di autosufficienza”[4].

A sua volta, l’ ordinanza n. 13334 del  9 giugno 2021 afferma che  «i principi di collaborazione e buona fede cui deve essere improntato ai sensi del comma 1 dell'art. 10 della legge n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente) anche il comportamento del contribuente nei confronti dell'Amministrazione - da tenersi in modo non collidente con il dovere sancito dall'art. 53, comma 1, Cost. e con un generale dovere di correttezza - impongono che, in tema di accertamento tributario standardizzato, nell'ipotesi di invito al contraddittorio preventivo spedito dall'Ufficio con un congruo anticipo rispetto alla notifica dell'avviso di accertamento e recante una data di convocazione manifestamente erronea (in quanto, ad esempio, già decorsa alla data di spedizione dello stesso) ricada sul contribuente l'onere di farsi parte diligente          nel       coltivare          il contraddittorio, segnalando all'Amministrazione l'indicazione errata della data di comparizione».

3. Segue- nel giudizio di cassazione: i criteri per  la redazione del ricorso- la autodisciplina delle istituzioni giudiziarie.

 Per quanto riguarda il giudizio di cassazione (tributario o non), la leale collaborazione   dovrebbe indurre ogni soggetto processuale  ad elaborare   atti sintetici ed autosufficienti dunque chiari e comprensibili; questo onere incide soprattutto sulla redazione dei ricorsi e  grava sui difensori delle parti che dovrebbero redigere ricorsi tali da offrire al giudice puntuali e sintetici quesiti cui rispondere.

L’ordinanza della Cassazione n.29548 del 27 ottobre 2021 (pres. Mocci, rel. Conti) così si esprime: “giova ricordare che i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza non possono essere affidati a deduzioni generali e ad affermazioni apodittiche, con le quali la parte non prenda concreta posizione, articolando specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa. Invero, il ricorrente - sia incidentale che principale - ha l'onere di indicare con precisione gli assenti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il "devolutum" della sentenza impugnata”[5].

 Mentre l’ordinanza     n.   29689  del 22 ottobre    2021censura il ricorrente che ha proposto un ricorso manifestamente irrispettoso dei criteri di redazione imposti dall'art. 366, nn. 3 e 4 c.p.c.: e già tale condotta sarebbe di per sé indice di colpa grave, ai sensi dell'art. 96, comma terzo, c.p.c., dal momento che scrivere correttamente un ricorso per cassazione è una prestazione esigibile e dovuta dall'avvocato cassazionista medio, di cui all'art. 1176, comma secondo, c.c..

L’aspirazione ad un clima di “leale collaborazione”, pur nella ovvia diversità di ruolo delle parti processuali, ha dato luogo ad un moltiplicarsi di iniziative, di incontri da cui sono scaturiti “protocolli”, “ convenzioni”, ed anche “direttive dei capi degli uffici giudiziari” concordate nel contenuto con le rappresentanze dei difensori.

Questi documenti preparano il terreno per una vera e propria disciplina giuridica che si forma o quando alcune delle “prassi virtuose” sono recepite in norme di legge o quando -come accaduto per la giustizia Amministrativa- la legge attribuisce rilevanza giuridica alle disposizioni organizzative emanate dal Presidente del Consiglio di Stato. Così come previsto dall'art. 13-ter (Criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte) dell'allegato II al Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. La norma, inserita dall’art. 7-bis, comma 1, lett. b), n. 2), D.L. n. 168/2016, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 197/2016, detta interessanti prescrizioni al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza di cui all'articolo 3, comma 2, del codice. E prevede che “il giudice e' tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non e' motivo di impugnazione".

Vi è però anche un’ ulteriore via  (più drastica e spiacevole)  attraverso cui la magistratura sollecita la leale collaborazione dei difensori delle parti. Ed è la valorizzazione di indicazioni che la legge enuncia ma senza collegare esplicitamente alla loro violazione sanzioni procedimentali; accade cioè che siano emessi provvedimenti in cui si “puniscono” queste violazioni con la “pena” della inammissibilità della istanza o del ricorso, assai temuta dai difensori sia per la lesione di immagine che essa comporta sia per la possibilità che l’assistito promuova una causa di risarcimento del danno. Vi sono dunque decisioni che dichiarano “inammissibile” un ricorso per cassazione in cui non vi è l'esposizione dei fatti della causa[6], oppure c’è ma non è sommaria bensì estremamente prolissa e magari affidata al “copia incolla” di innumerevoli ed inutili documenti (con violazione del n. 3 dell’art. 366 c.p.c) [7]; o un ricorso in cui i motivi non sono articolati in separati capoversi uno per ogni motivo, bensì mescolati e confusi (art. 366 n.4); o non sono “autosufficienti” ad una piana lettura, ma rinviano ad una documentazione dispersa negli atti processuali[8]. Con la pretesa da parte del professionista che il giudice scartabelli una massa di documenti con dispendio di tempo e di energie.

Non mancano però anche decisioni “meno severe” in cui la motivazione critica la cattiva redazione del ricorso, ma poi benevolmente salva la ammissibilità del ricorso stesso (pur magari disattendendolo nel merito)[9]; oppure accorda un termine per rielaborare l’atto contenendolo nelle dimensioni massime stabilite (nel caso di specie dal regolamento emanato dal Presidente del Consiglio di Stato[10]).

4. Segue: leale collaborazione e inammissibilità del ricorso per cassazione. Dalla “relazione Luiso” al  “maxiemendamento” approvato dal Senato.

Abbiamo nel precedente paragrafo dato atto di un indirizzo giurisprudenziale che dichiara inammissibili i ricorsi per cassazione che non rispondano ad alcuni requisiti minimi ricavabile dalla legge; abbiamo altresì sottolineato come appaia difficile inquadrare queste pronunce in una linea coerente; posto che è dato reperire un filone di pronunce più benevole nei confronti dei professionisti meno abili o meno fortunati[11].

Assume dunque intesse un cenno delle proposte maturate nella “Commissione Luiso” ed al loro confronto con quanto scritto nel “maxiemendamento”.

La “commissione Luiso” ha infatti imboccato una linea sostanzialista e contraria ad ogni formalismo.

Nella relazione finale approvata dalla Commissione si legge:

All’obiettivo di rendere più celere ed efficiente lo svolgimento dell’attività processuale risponde anche la prevista introduzione nel codice di procedura civile e con portata generale del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali di parte e dei provvedimenti giudiziali. Peraltro, si è ritenuto opportuno, anche alla luce della giurisprudenza sovranazionale e costituzionale interna, inserire nella legge delega la previsione secondo cui, per quanto riguarda gli atti di parte, la violazione di tale principio non possa comportare sanzioni di invalidità o di inammissibilità dell’atto, ma possa essere presa in considerazione dal giudice solo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali” Perciò la Commissione propone di “prevedere l’introduzione, in via generale, del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e dei provvedimenti del giudice e, con riferimento alla sua applicazione agli atti di parte, prevedere che la sua violazione: 1) non comporti sanzioni di invalidità o di inammissibilità degli stessi; 2) rilevi [solo] ai fini della liquidazione delle spese giudiziali”;

Nel maxiemendamento governativo  e nel testo approvato dal Senato in riferimento alle disposizioni relative ad ogni articolazione del processo  si legge però soltanto (punto  17) l’obbligo di:

«d) prevedere che i provvedimenti del giudice e gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate, possano essere compiuti nella forma più̀ idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, stabilendo che sia assicurata la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense;

e) prevedere il divieto di sanzioni sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo, e che della violazione delle specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali, si possa tener conto nella disciplina delle spese»;

E nella relazione ministeriale si legge “La proposta imporrà al legislatore delegato di introdurre nuove disposizioni che recepiscono e attuano i canoni della chiarezza e della sinteticità stabilendo che sia assicurata la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense. Alla lettera e) è fatto divieto di prevedere sanzioni sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo, e che della violazione delle specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali, si possa tener conto nella disciplina delle spese”.

La spinosa questione veniva  così posta nelle mani del legislatore delegato e , in conclusione, del giudice (e quindi della Cassazione stessa)[12].

5. Segue: leale collaborazione nella redazione del ricorso per Cassazione nel “maxiemendamento” approvato dal Senato

Il testo    specificamente rivolto al giudizio di Cassazione, approvato dal Senato,  si discosta dalla  linea tracciata dalla  “relazione Luiso”.

Del resto, il PNRR così si era espresso:

“Con riferimento al giudizio di Cassazione il Piano valorizza i principi di sinteticità e autosufficienza che devono contraddistinguere il contenuto degli atti; uniforma le concrete modalità di svolgimento del procedimento; e semplifica la definizione mediante pronuncia in camera di consiglio. Dal punto di vista generale si rendono effettivi il principio di sinteticità degli atti e il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti (e i loro difensori) mediante strumenti premiali e l’individuazione di apposite sanzioni per l’ipotesi di non osservanza”.         

 

Il    “Maxiemendamento” si colloca sulla linea del PNRR e così prescrive:

 Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura civile in materia di giudizio di cassazione sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) prevedere che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione.

Sono parole pesanti che mi sembrano più incisive rispetto al vigente codice di procedura civile che    all’  art. 366   vuole “a pena di inammissibilità”, solo  “l’  esposizione sommaria dei fatti della causa; e la indicazione dei  motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”.

Mentre l’art. 132  chiede   che la sentenza contenga “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto  della decisione”; e l’art. 118 delle disposizioni di attuazione prescrive che “la motivazione della sentenza di cui all'articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”.

Certo il testo del Senato non  parla di inammissibilità del ricorso ma la sanzione (esplicitamente prevista nel testo vigente) può essere dedotta  dal sistema (e dal mancato accoglimento della “proposta Luiso” .

6.Le misure che incidono sulle spese di causa

Nel sistema sanzionatorio per le violazioni del principio della “leale collaborazione” di cui il PNRR auspica il rafforzamento, ben possono rientrare la condanna alle spese di lite[13], il raddoppio del contributo unificato.

Notevoli potenzialità presenta anche l’art. 96 c.p.c. secondo cui “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza. Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziaria , o iscritta ipoteca giudiziale , oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”[14].

Applicando questa norma  l’ ordinanza della sesta sezione della Cassazione,  n.   32021 del 5 novembre    2021 ha così deciso:  la società ricorrente deve, altresì, essere ritenuta responsabile ai sensi dell'art. 96 comma 3, cod. proc. civ, in considerazione della temerarietà dell'iniziativa giudiziaria intentata, risultante dalla pretestuosità dei motivi, tutti inammissibili, di ricorso (Cass. n. 18512 del 04/09/2020 Rv. 658997 - 01: «In tema di responsabilità aggravata, ex art. 96, comma 1 c.p. c., costituisce abuso del diritto di impugnazione, integrante colpa grave, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, in ordine a ragioni già formulate nell'atto di appello, espresse attraverso motivi inammissibili, poiché pone in evidenza il mancato impiego della doverosa diligenza ed accuratezza nel reiterare il gravame». A detto titolo il Collegio reputa equo comminare condanna al pagamento della somma di euro tremila € 3.000,00), pari a quella inflitta a titolo di spese di lite (sull'entità della condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, cod. proc. civ. si veda Cass. n. 21570 del 30/11/2012 Rv. 624394- 01).

A sua volta, il  PNRR ha preannunciato un “giro di vite” del sistema sanzionatorio qui richiamato laddove  afferma che con il Piano “si renderanno effettivi il principio di sinteticità degli atti e il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti (e i loro difensori) mediante strumenti premiali e l’individuazione di apposite sanzioni per l’ipotesi di non osservanza”.

Nel testo approvato dal Senato è stata perciò inserita una rilevante novità:

21. Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura civile dirette a rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti e dei terzi sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) prevedere il riconoscimento dell'Amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato[15] nei casi di responsabilità aggravata e, conseguentemente, specifiche sanzioni a favore della cassa delle ammende[16];

b) prevedere conseguenze processuali e sanzioni pecuniarie nei casi di rifiuto non giustificato di consentire l'ispezione prevista dall'articolo 118 del codice di procedura civile e nei casi di rifiuto o inadempimento non giustificati dell'ordine di esibizione previsto dall'articolo 210 del medesimo codice;

c) prevedere la fissazione di un termine non superiore a sessanta giorni entro il quale la pubblica amministrazione, cui sono state richieste informazioni ai sensi dell'articolo 213 del codice di procedura civile, deve trasmetterle o deve comunicare le ragioni del diniego.

Dunque la responsabilità  aggravata di cui ci andiamo occupando non si gioca più solo nel rapporto fra le parti processuali con l’acquisizione a favore di una di esse di un diritto patrimoniale (che potrebbe anche non aver chiesto[17]); entra in campo l’ “Amministrazione della giustizia quale “soggetto danneggiato” e dunque si muove un ulteriore passo verso l’affermazione di un “diritto punitivo” che non coincide con il diritto penale. Mi domando poi se il Ministero della giustizia diventi in qualche misura parte del processo e quindi possa intervenire nel giudizio  a sostegno della sanzione inflitta dal giudice di prima o seconda istanza.

In sostanza si prospetta una ampliamento ed un rafforzamento del già vigente terzo comma dell’art. 96 cpc che “configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, cod. proc. civ. e con queste cumulabile, volta - con finalità deflattive del contenzioso - alla repressione dell'abuso dello strumento processuale”[18].

7.La leale collaborazione tra giudici e avvocati

Concludo queste brevi considerazioni ricordando che forme di “leale collaborazione” possono ben coinvolgere la figura del giudice, come appar ovvio nella fase di merito; per la Cassazione sottolineo l’esistenza di forme di anticipazione del pensiero del relatore che offrono ai difensori la possibilità di redigere note critiche “mirate”, più efficaci proprio per via della loro specificità.

Nella procedura camerale presso la Sesta sezione (che in base al teso approvato dal Senato dovrebbe essere soppressa), il relatore deve formulare una proposta indirizzata al coordinatore della sua sottosezione. L’abrogato testo dell’art. 380-bis – anteriore alla riforma di cui alla legge n. 197 del 2016 – prevedeva che il consigliere relatore dovesse depositare in cancelleria una «relazione» contenente la «concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia»; tale relazione doveva poi essere notificata agli avvocati delle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio.

A molti[19], è parsa illogica la previsione normativa che imponeva al relatore di anticipare “monocraticamente” una decisione che sarebbe stata poi comunque “collegiale”. Con la riforma del rito operata dalla novella del 2016, l’art. 380-bis è stato interamente sostituito: ora il relatore deve limitarsi a formulare una «proposta» di fissazione dell’adunanza camerale indirizzata al coordinatore della sottosezione. Quest’ultimo, sulla base di tale proposta, emette decreto, che, oltre a fissare l'adunanza camerale presso la sottosezione, deve indicare «se è stata ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso». È oggetto di discussione se la proposta del relatore debba limitarsi – come sembrerebbe, stando alla lettera della norma – ad indicare l'esito del giudizio (“inammissibilità”, “manifesta fondatezza” o “manifesta infondatezza”) o debba spiegare anche le ragioni di tale esito. Il punto n. 5 del Protocollo tra la Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l'Avvocatura generale dello Stato, sottoscritto il 15 dicembre 2016, ha previsto che la proposta di declaratoria di “inammissibilità” menzioni la norma di riferimento e che le proposte di accoglimento o di rigetto, rispettivamente per “manifesta fondatezza” o “manifesta infondatezza”, richiamino i pertinenti riferimenti giurisprudenziali. Il decreto presidenziale deve essere notificato almeno venti giorni prima dell'adunanza ai difensori delle parti, i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima (così il nuovo testo del 2° comma dell'art. 380 bis cod. proc. civ.). Secondo la norma, la proposta del relatore forse non dovrebbe essere notificata alle parti, essendo un atto interno al rapporto relatore-presidente. Nella prassi, tuttavia la proposta del relatore viene notificata unitamente al decreto presidenziale. E mi pare che la conoscenza di questa proposta costituisca una sia pur ridotta forma di collaborazione fra i soggetti processuali.

8.La più  rilevante novità: verso la Cassazione monocratica?

La maggiore innovazione relativa al processo di cassazione enunciata nel “maxiemendamento” seguito alla “relazione Luiso” (sostanzialmente condivisa sul punto dalla relazione “della Cananea” sulla giustizia Tributaria) mi pare scolpita nell’art. 6bis che introduceva

 “un procedimento accelerato, rispetto alla ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente fondati o infondati, prevedendo:

1) che il giudice della Corte formuli una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta fondatezza o infondatezza ravvisata;

2) che la proposta sia comunicata agli avvocati delle parti;

3) che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato e il giudice pronunci decreto di estinzione, liquidando le spese, con esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1-quater, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.

La disposizione conteneva  una evidente disarmonia tra la previsione che il procedimento accelerato coinvolgesse anche i casi di “manifesta fondatezza del ricorso” e la affermazione secondo cui in caso di mancata richiesta di fissazione della camera di consiglio “il giudice pronuncia (sempre e soltanto) decreto di estinzione”. Infatti in caso di “manifesta fondatezza del ricorso” il decreto di estinzione (della mera fase di cassazione) avrebbe dovuto quasi sempre contenere un qualcos’altro cioè il rinvio al giudice di merito o la decisione nel merito (384, 2° comma c.p.c.). Si sarebbe dovuto inoltre chiarire che in caso di rinvio il giudice di merito sarebbe stato vincolato   ad attenersi alla motivazione del Giudice unico di Cassazione; anche se sembra ovvia la risposta positiva.

Il maxiemendamento approvato dal Senato ha sciolto il problema eliminando il riferimento alla fondatezza del ricorso; ma ha però così ridotto notevolmente la portata della norma.

Sul piano pratico, un ulteriore non piccolo problema nasce quando ci domandiamo in quale rapporto si pongano questi decreti di estinzione con il “diritto vivente”, che trova nella Corte di Cassazione una delle sue fonti più autorevole,

Il quesito ha in primo luogo un profilo teorico, ma solleva  anche rilevanti problemi concreti; all’ avvocato preme sapere quale è l’orientamento della Corte in tema di inammissibilità del ricorso, nella interpretazione delle leggi, e quindi avrà un rilevante interesse a conoscere l’indirizzo sotteso ad ogni decreto di estinzione; si dovrà procedere ad una massimazione delle proposte di definizione andate buon fine? Direi di sì . L’interesse degli Avvocati esprime una richiesta di trasparenza e conoscibilità che è comune alle esigenze della “società civile”

Emerge qui un ulteriore nodo; siamo tutti portati a dar poco peso, a trascurare le pronunce emesse con procedure semplificate in quanto di soluzione “evidente” cioè “pacifica”, ma in realtà queste decisioni meritano sovente un secondo sguardo e magari una massimazione (come oggi accade per le ordinanze della sezione sesta civile, che verrà soppressa e sostanzialmente sostituita dalla procedura di cui ci andiamo occupando) perché attestano l’esistenza di un indirizzo consolidato, svolgono il ruolo in antico proprio dalle “massime consolidate” tali attestate dal Direttore del Massimario.

Quanto specificamente alle difficoltà della classe forense, che teme una lesione  del diritto delle parti ad un giudizio completo e collegiale; non si può nascondere il timore che il collegio   si appiattisca sulla proposta del giudice unico e magari calchi la mano nella liquidazione delle spese o nella applicazione dell’art. 96 c.c.. In fondo se la riforma non produrrà il giustamente agognato effetto deflattivo la “colpa” sarà addebitata ai giudici della Corte di Cassazione.

Del resto, mi pare che la riforma renda opportune iniziative del presidente della sezione tributaria della Cassazione (e delle altre sezioni) per promuovere incontri fra i colleghi per elaborare (pur nella ovvia totale autonomia dei giudicanti) in qualche misura delle linee condivise che incanalino la gestione di questo rilevante potere; insomma qualcosa di simile alle note “tabelle” per la liquidazione dei danni alle persone nei più importanti uffici giudiziari.

9. Le  semplificazioni procedurali nel giudizio di cassazione

Il testo approvato dal Senato  (punto 9) prevede che:

9. Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura civile in materia di giudizio di cassazione sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) prevedere che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione;

b) uniformare i riti camerali disciplinati dall'articolo 380-bis[20] e dall'articolo 380-bis.1[21]  del codice di procedura civile, prevedendo:

1) la soppressione della sezione prevista dall'articolo 376 del codice di procedura civile e lo spostamento della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici;

2) la soppressione del procedimento disciplinato dall'articolo 380-bis del codice di procedura civile;

c) estendere la pronuncia in camera di consiglio all'ipotesi in cui la Corte riconosca di dover dichiarare l'improcedibilità del ricorso;

d) prevedere, quanto alla fase decisoria del procedimento in camera di consiglio disciplinato dagli articoli 380-bis.1 e 380-ter[22] del codice di procedura civile, che, al termine della camera di consiglio, l'ordinanza, succintamente motivata, possa essere immediatamente depositata in cancelleria, rimanendo ferma la possibilità per il collegio di riservare la redazione e la pubblicazione della stessa entro sessanta giorni dalla deliberazione.

Già ho evidenziato come la lettera a) del punto 9 tenda a ridurre   il flusso degli accessi attraverso più rigide formalità dei ricorsi[23], tali da facilitare il lavoro del giudice e da liberarlo dall’onere di esaminare i ricorsi mal impostati; sotto un ulteriore profilo, si tende ad accrescere il numero dei processi definiti, vuoi attraverso proposte monocratiche che chiudono il processo se nessuno le contesta, vuoi con decisioni prese al termine della camera di consiglio, con ordinanze, “succintamente motivate e immediatamente depositate in cancelleria” (dunque già sostanzialmente preparate prima della udienza).

Inoltre, il testo elaborato dal Senato ha ribadito la scelta operata con la  riforma del 2016, secondo cui la camera di consiglio è venuta ad essere una riunione di giudici destinata esclusivamente alla deliberazione. E il contraddittorio  tra le parti è di regola   assicurato solo attraverso lo scambio di “memorie scritte”  memorie che i difensori possono presentare sino a cinque giorni prima dell'adunanza. Per cui il confronto diretto fra le parti, in pubblica udienza, sopravvive in Cassazione solo quando la Corte stessa ritenga, a sua discrezione[24], che vi sia da decidere una “questione di diritto di particolare rilevanza”, magari tale da giustificare,  a giudizio del Primo Presidente, l’intervento della Corte a seguito di “interpello del giudice di merito” . A queste ipotesi    riterrei di affiancare, le ipotesi in cui il resistente non tempestivamente costituito rivendichi il diritto garantitogli all’art. 370 cpc a partecipare alla “discussione orale”.

10. Funzione nomofilattica della Cassazione e certezza del diritto

 Le riforme processuali contenute nel testo approvato dal Senato mi pare richiedano, per produrre risultati adeguati, il rafforzamento di una “comune cultura” dei consiglieri che eviti imbarazzanti contraddizioni non meditate e verificate da una riflessione collettiva (qualche volta il consapevole dissenso sopravvive anche ad un aperto e chiarificatore confronto).

Tanto per fare un esempio, immaginiamo lo sconcerto  che potrebbe verificarsi se i contribuenti che abbiano accettato la proposta sfavorevole del Giudice (possiamo qualificarlo relatore?; o non invece “decisore”[25]) venissero successivamente a sapere che altri nella loro stessa situazione hanno vinto. E questi contrasti non fossero eccezionali e sporadici, ma frequenti (come sarebbe agevole esemplificare citando attuali casi concreti). Non è del resto concepibile che i magistrati destinati a svolgere la funzione di filtro non si incontrino e consultino fra di loro per giungere ad una visione comune (anche se non del tutto uniforme) circa le ipotesi di inammissibilità, manifesta fondatezza, manifesta infondatezza dei ricorsi.

11. La riflessione all’interno della Corte di Cassazione: verso uno “stare decisis” attenuato?. Governo della Magistratura e Corte di Cassazione.

Sia ben chiaro, non si auspica l’avvento di un giuridico “stare decisis” (che del resto è fuori dalle ipotesi della riforma), ma una convergenza spontanea frutto del “discutere insieme” del sondare criteri di ragionamento comuni che rendano possibile una convergenza fra mentalità diverse, fra differenti culture di partenza, fra (perché no?) ideologie politiche contrastanti.

Simile esigenza di una collettiva elaborazione degli indirizzi giurisprudenziali è già oggi presente nella consapevolezza dei magistrati; ancorchè sia frenata dalle esigenze pratiche della realtà di un flusso imponente di ricorsi. E costituisce un profilo tutt’ora valido dell’art. art. 65, comma 1, T.U. sull’Ordinamento giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 secondo cui la Corte di Cassazione assicura “l’uniforme interpretazione della legge” da parte della giustizia ordinaria e della giustizia tributaria, ancorchè la Cassazione non possa più dirsi “organo supremo della giustizia”, a fronte del ruolo attribuiti dai successivi assetti ordinamentali alla Corte Costituzionale, alla Corte Europea di Giustizia, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; l’efficacia delle cui sentenze viene qui rafforzata,  con la previsione della revocazione   delle sentenze passate in giudicato   il cui contenuto sia censurato dalla CEDU [26]. Mentre le riforme dell’ordinamento giudiziario determinate dalle leggi "Breganze" (25 luglio 1966, n. 570 sulla nomina a magistrato di Corte d'Appello) e "Breganzone" (20 dicembre 1973, n. 831, sulla nomina a Magistrato di Cassazione) hanno abolito esami e scrutini gestiti da commissioni composte da magistrati di Cassazione, ed hanno previsto promozioni (ad essere precisi, aumenti di stipendio) “a ruolo aperto”, cioè in numero eccedente rispetto ai posti effettivamente disponibili. Ne è conseguita una riforma anche del sistema di composizione e di elezione del Consiglio Superiore, fondata sul principio del pari valore di ogni voto e perciò sulla prevalenza nel Consiglio dei componenti eletti dai (ben più numerosi) giudici di merito.

Queste radicali modifiche ordinamentali non hanno però cancellato quella funzione nomofilattica della Corte di Cassazione che determina l’esistenza di uno strumento tecnico da utilizzare nell’ argomentazione giuridica: richiamare una “massima” favorevole della Corte Suprema, è ancor oggi (pur se certo meno che nel 1941) un ottimo argomento a favore di chi lo invoca nella discussione. Pur se, come   sottolinea Paola Coppola[27], le peculiarità del diritto tributario richiedono il ricorso  di complessi ed articolati criteri giuridici che rendono particolarmente difficoltosa la valutazione del rapporto fra il caso concreto ed il precedente.

Inoltre, il legislatore ha mostrato di voler ribadire il ruolo della Corte di Cassazione nel perseguire la certezza del diritto, sia attribuendo un valore particolare ai principi affermati dalle Sezioni Unite, come disposto nell’art. 1 della legge 80/2005 di conversione del D. L. 35/2006 in cui si prevede: “il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite vincola le sezioni semplici. Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio, rimette alle sezioni unite, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. Sia e soprattutto confermando e ribadendo la possibilità  che la Corte, su sollecitazione del Procuratore Generale[28] o anche d’ufficio enunci il principio di diritto che regolerebbe il caso concreto “quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile e la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza”. Una possibilità che la Cassazione nella articolazione delle Sezioni Unite ha utilizzato anche prescindendo dal requisito secondo cui le questioni debbono aver formato oggetto di un ricorso ancorchè inammissibile[29] emanando sentenze che tengono il luogo di leggi organiche (ad esempio in tema di litisconsorzio nel processo tributario con la fondamentale sentenza n. 14815 del 4 giugno 2008 Pres. Carbone Rel. Merone) ; il che poi non è tanto strano posto che, a sua volta, il legislatore ama emanare norme che per ristrettezza del loro oggetto tengono le veci di sentenze (e accrescono le incertezze proprie dell’attuale sistema giuridico).

La funzione nomofilattica è evidenziata dalle sentenze emesse in dalla Cassazione su ricorso del Procuratore Generale della Corte di Cassazione in base all’art. 363.1 c.p.c. [30] cui la “Commissione della Cananea” aveva proposto di affiancare una specifica norma relativa ai processi in materia tributaria, scomparsa però dal testo approvato dal Senato[31].

Lo stesso “interpello” della Cassazione da parte dei giudici di merito costituirebbe una poco utile complicazione se non accadesse che, almeno d’ordinario, la decisione anticipata Corte fosse la ragionevole premessa di un futuro indirizzo.  E per converso è facile  dar atto  che, ove si affermi una prassi ispirata da  Sant’Agostino che in tutt’altra materia ha enunciato il famoso  “Roma locuta causa finita” la riforma produrrebbe indubbi effetti positivi almeno sul piano della certezza del diritto posto che “un'interpretazione autorevole e sistematica della Corte resa con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, può svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali”. Così si esprime  la relazione sulla Corte elaborata dai commissari Margherita Cardona Albini, Enrico Manzon, Domenico Pellegrini, Luca Varrone, Glauco Zaccardi.

Resta fermo che in caso di pronuncia  nel (mero ) interesse della legge   “l’affermazione della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”, e proprio la irrilevanza pratica della pronuncia della Corte, ne sottolinea l’importanza nomofilattica; posto che non viene intaccato il principio costituzionale della soggezione “solo alla legge” del singolo giudice.

Si  evidenzia che le indicazioni della Cassazione vengono recepite  (se lo sono) auctoritate rationis e non ratione auctoritatis.

12. lnammissibilità  nel ricorso per Cassazione e Carta Europea dei Diritti  dell’Uomo: il Giudice di Strasburgo dice la sua.

Il timore che la Corte di Cassazione utilizzi a fini deflattivi   il filtro della inammissibilità determinando isole di “negata giustizia”, si è materializzato nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Prima Sezione,  5- 28 ottobre 2021, Succi e altri c. Italia (ricorsi 55064/11, 37781/13 e 26049/14): testo originale francese (di cui si riportano i passaggi essenziali nella traduzione Canestrini[32])

La sentenza ha di per sé una portata pratica che può sembrare modesta, in quanto censura  l’ ordinanza 4977 del 28 febbraio 2011 della sesta sezione (filtro) della Cassazione, e condanna lo Stato Italiano a versare al sig. Succi la   (quasi derisoria) cifra di 9.600 € per “danni morali”. Ma, in una prospettiva più ampia, il provvedimento potrebbe aprire la porta ad un riesame da parte del giudice Europeo di tutte le pronunce di inammissibilità, con un attento (e severo)  sindacato di merito sulla valutazione dei motivi del ricorso espresso dalla Corte di Cassazione (certo non più “Suprema”).

 In qualche misura, risulta quindi condiviso il timore (espresso da Bruno Capponi[33] ) secondo cui “il problema che abbiamo dinanzi non è certo esclusivo della Corte di Cassazione: va preso atto che essa è l’organo di vertice di una giurisdizione che, di questi tempi, tende a esaltare la funzione deterrente e sanzionatoria delle norme processuali e soprattutto delle loro interpretazioni. E non va trascurato che, nell’avvelenato clima “di sistema”, ogni magistratura ci mette del proprio: proponendo spesso ricostruzioni tendenti a somministrare la lezione più irragionevolmente ostruzionistica delle norme che applica (ad es., inventando decadenze dove non ci sono, strozzando la trattazione dei giudizi e così moltiplicandone il numero). La logica del respingimento è quella della cittadella assediata: un colpo tira l’altro, nella speranza che arrivi, magari casualmente, quello che possa mettere definitivamente in fuga il nemico”.

Per quanto attiene agli effetti pratici del decisum del Giudice Europeo, è fin troppo facile ironizzare sulla pochezza del risarcimento concesso al sig. Succi  e prevedere che , se queste saranno le tariffe, il numero delle controversie sarà modesto con un limitato danno economico per lo Stato italiano.

Bisogna però ricordare che il disegno di legge “Draghi-Cartabia”   contiene il conferimento  al Governo della delega a  “ prevedere che sia esperibile il rimedio della revocazione previsto dall'articolo 395 del codice di procedura civile nel caso in cui, una volta formatosi il giudicato, il contenuto della sentenza sia successivamente dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario, in tutto o in parte, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ovvero a uno dei suoi Protocolli” .

Di conseguenza, la Cassazione potrebbe trovarsi coinvolta in un discreto numero di  ricorsi per revocazione, con un contenzioso assai complesso che introdurrebbe nel nostro sistema giuridico e processuale un ulteriore fattore  di incertezza e di ritardi (la sentenza della CEDU di cui ci andiamo occupando è stata emessa oltre dieci anni dopo la pronuncia della Cassazione che viene censurata).

Ne può dirsi – mi pare- che il Giudice Sovranazionale si sia preoccupato di circoscrivere l’ambito  delle incertezze che suscita la sentenza di cui qui ci occupiamo. Anzi esse vengono      dilatate dalla genericità delle censure espresse dal Giudice di Strasburgo secondo cui “la High Court ha dato prova di un eccessivo formalismo che non può essere giustificato alla luce della finalità propria del principio dell'autonomia del ricorso in cassazione (cfr. paragrafo 75) e quindi dello scopo perseguito, ossia la garanzia della certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia. La Corte ritiene che la lettura del ricorso del ricorrente abbia permesso di comprendere l'oggetto e lo svolgimento del procedimento dinanzi ai giudici di merito”. E quindi (paragrafo 94) “in conclusione, ritiene che nella fattispecie il rigetto del ricorso del ricorrente abbia minato la sostanza del suo diritto a un tribunale”.

Mi sento quindi di aderire a questa perplessa, ma realistica, considerazione di Guido Raimondi[34]:

“sia come sia, crediamo che questa sentenza europea, che pure  non mette in discussione, a nostro sommesso avviso, la giurisprudenza della Corte di cassazione, induce comunque alla riflessione, soprattutto a proposito della esigenza di assoluta chiarezza e prevedibilità delle ragioni poste dalla Corte di legittimità alla base delle sue decisioni di inammissibilità”.

13. Proposte relative alle sezioni relative alla sezione tributaria della Cassazione.

Come noto, in Cassazione è costituita, con decreto del Primo Presidente Zucconi Galli Fonseca del 19 giugno 1999, n. 61, emesso in attuazione di un voto dell’Assemblea Generale del 1999, la Sezione tributaria, o quinta Sezione civile. Ci si è resi conto che con la attuazione del D. Lgs. 545/1992, e la conseguente soppressione della Commissione Tributaria Centrale nonché la introduzione del ricorso per cassazione contro le decisioni rese dalle Commissioni tributarie regionali, la Corte di Cassazione sarebbe stata investita (come in effetti è avvenuto) di un flusso di ricorsi tributari tale da rendere impossibile la loro gestione all’interno della prima sezione civile.

Ora da più parti si auspica un intervento legislativo simile a quello realizzato nel 1973 con la creazione della sezione lavoro.

Simile ratifica legislativa potrebbe poi essere l’occasione per emanare disposizioni che pongano un qualche rimedio agli inconvenienti che nascono dallo scarso gradimento che la sezione tributaria raccoglie presso i magistrati di cassazione e dal conseguente rapido turn over fra i magistrati della “quinta sezione”; favorendo con questa maggiore stabilità la formazione di indirizzi giurisprudenziali più omogenei[35].

Problemi più complessi ed incisivi nascono (o meglio sorgerebbero) ove venisse accolta ed attuata la proposta di costituire una vera e propria “quinta giurisdizione” composta di magistrati di carriera dediti esclusivamente alle controverse tributarie.

   Quale rapporto è possibili ipotizzare fra la “quinta giurisdizione” e la Corte di Cassazione?; è una difficoltà talmente insormontabile da impedire la stessa creazione della “quinta giurisdizione” o comunque da condizionarne la nascita?

Noi ci troveremmo infatti ad avere due strutture difficilmente coordinabili: un corpo di qualificati magistrati tributari di merito le cui sentenze sarebbero ricorribili avanti ad una Corte di legittimità composta da magistrati ordinari, che nei primi decenni della loro carriera non si sono occupati (o si sono occupati solo marginalmente ove sopravvivano i giudici tributari part time) di questioni tributarie. In verità la soluzione più coerente con il disegno costituzionale mi parrebbe il conferimento della materia tributaria a sezioni specializzate dei Tribunali e delle Corti d’Appello Civili; ma questa prospettiva è stata unanimemente respinta in quanto rischierebbe di aggravare ulteriormente la crisi della giustizia civile.

Non resta quindi che la soluzione di prevedere che i giudici tributari “di carriera” possano in qualche modo ed in qualche misura entrare a far parte, aver voce in capitolo, nella sezione tributaria della Cassazione[36]; imitando ed ampliando il modello del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ove siedono magistrati del Consiglio di stato e tecnici..

Soluzione apparentemente semplice ma che rischia di pregiudicare la unitarietà della Corte di Cassazione in cui tutti i magistrati addetti possono esercitare il loro magistero in qualunque articolazione della Corte, mentre i “consiglieri tributari” (che potrebbero non essere laureati in giurisprudenza) opererebbero in una sola sezione specializzata. Nonostante la sezione tributaria della Corte sia - e resterebbe- giudice dell’intero rapporto sostanziale e processuale con funzione nomofilattica anche sulle questioni non tributarie.

Il problema si aggraverebbe ove la disciplina speciale per la Sezione Tributaria ne facesse un corpo sostanzialmente separato rispetto al resto della Corte creando una sorta di “nuova giurisdizione” o comunque spezzando la unitarietà nomofilattica della Cassazione.

Pericolo che mi pare evidente ove si approvasse il DDL Savino del 2014(AC. 1936)[37] che, come sottolinea la “Relazione della Cananea”, segue una indicazione di  Cesare Glendi e prevede: “un’apposita sezione tributaria della Corte di Cassazione, composta da trenta giudici, ripartiti in cinque sottosezioni in ragione della materia, di cui la prima presieduta dal presidente della sezione tributaria e le altre da uno dei loro componenti, con l’espressa previsione che il presidente della sezione tributaria della Corte di cassazione può disporre che i ricorsi che presentano questioni di diritto già decise in senso difforme dalle sottosezioni e quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza siano decisi da un collegio unitariamente composto dai presidenti delle cinque sottosezioni o, in loro vece, da un componente di ciascuna sottosezione designato dal rispettivo presidente. Una nuova disciplina del procedimento davanti alla sezione tributaria della Corte di cassazione mantenendo solo alcune delle disposizioni previste dal codice di procedura civile e adeguando quelle conservate, in modo da garantire una ragionevolmente contenuta diversità del terzo grado del processo tributario rispetto a quello interamente disciplinato dal codice di procedura civile, privilegiando in ogni caso il ruolo nomofilattico della sezione tributaria della Corte di cassazione quale organo apicale della giurisdizione tributaria.”

Ma non ritengo opportuno addentrarmi in tutta la complessa casistica ipotizzabile; mi pare cioè logico attendere, su un tema tanto importante e sicuramente non esclusivamente tecnico, le decisioni del potere politico. E trarne le conseguenze.

Soltanto sottolineo come l’ipotesi di creare nelle Commissioni Tributarie Regionali sezioni composte di magistrati ordinari (oltre che amministrativi e contabili) fuori ruolo ed incaricati di decidere le controversie di maggior valore (nonché presumibilmente presiedere la Commissione), risolverebbe, almeno provvisoriamente, il nodo consentendo di attingere da questa sezione di merito consiglieri destinati alla sezione tributaria della Cassazione

 


[1] Relazione preparata per il Convegno sulla Riforma della Giustizia Tributaria, sulla riforma Fiscale e sulla Riforma del Catasto tenutosi il 12-13 novembre 2021 a Firenze  in Villa del poggio Imperiale.

[2] Sul difficile rapporto fra dovere di collaborazione con la Pubblica Autorità e diritto al silenzio si vedano le recenti sentenze della Corte Europea di Giustizia (Grande Sezione) del 2 febbraio 2021, DB contro Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte costituzionale italiana, e la sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 30 aprile 2021. Nella giurisprudenza della Cassazione cfr. Cass. 15 febbraio 2021 n. 3841, sul dovere di non ostacolare i controlli anagrafici.

[3] E dunque non è consentito alla Amministrazione negare una agevolazione fiscale adducendo la mancanza di un documento già    in possesso della P.A. (sentenza n. 19316 del 18 luglio 2019 della Cassazione; o trattenere nell’ufficio non competente una pratica senza trasmetterla a quello competente (Cass. 22 marzo 2019, n. 8178).

[4] Su questa linea si colloca un obiter della ord. n. 15001 del 28 maggio 2021 (emessa il 10 novembre 2020) della Corte Cass., Sez. II - Pres. Manna Rel. Picaroni secondo cui in caso di ricezione di messaggio PEC i cui allegati risultino in tutto o in parte illeggibili «spetta al destinatario, in un'ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all'utilizzo dello strumento telematico» (Cass. 31/10/2017, n. 25819): ma siccome è onere del destinatario dimostrare che il   è stato vittima di una disfunzione e questa prova non è stata fornita la notifica della sentenza di secondo grado deve esser ritenuta regolare e  il ricorso in Cassazione risulta  tardivo e viene dichiarato inammissibile.

[5] “con la conseguenza che il requisito in esame non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione (principale o incidentale) sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello, una tale modalità di formulazione del motivo rendendo impossibile individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata”.

[6] Ord. n. 18719 del 1° luglio 2021 (emessa il 27 aprile 2021) della Corte Cass., Sez. VI-3 - Pres. Scrima Rel. Gorgoni; Il ricorso è incorso in plurime ragioni di inammissibilità. Assume carattere assorbente quella di essere stato redatto con una tecnica non rispettosa delle prescrizioni di cui all'art. 366 n. 3 c.p.c. Il ricorso non contiene una parte dedicata all'assolvimento del requisito dell'esposizione del fatto di cui all'art. 366 n. 3 c.p.c., ma procede, dopo l'intestazione e l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata, con l'illustrazione dei motivi. Dalla lettura dei motivi non emerge una percezione del fatto sostanziale e processuale che consenta di reputare osservato il requisito di cui all'art. 366 n. 3 c.p.c., in quanto i riferimenti al fatto sostanziale e processuale contenuti nella loro illustrazione sono del tutto frammentari. Deve ribadirsi che l'esposizione sommaria dei fatti di causa, essendo considerata dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve essere tale da garantire a questa Corte di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale conseguente, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti pur in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata. Stante tale funzione, per soddisfare il requisito imposto dall'articolo 366 comma primo n. 3 cod. proc. civ. è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l'indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed in fine del tenore della sentenza impugnata (Cass., Sez. Un., n. 11653 del 18/05/2006 e 3/11/2020 n.24432)Ebbene, nel ricorso si fa riferimento a due contratti di locazione, ma si ignora tutto degli stessi ed in particolare come si pongano l'uno rispetto all'altro, pur essendo, come si evince dall'ultimo motivo, una questione dirimente; non si conosce il contenuto preciso delle domande formulate dall'attore, siccome delle difese del locatore - destinataria del ricorso -; non è riportata la statuizione del Tribunale (a p. 3 si riferisce che il CTU aveva quantificato una riduzione del canone per tutto il periodo locativo di euro 5034,00, a p. 6 si legge che il conduttore avrebbe corrisposto, secondo il CTU, un maggior canone di complessivi euro 8.804,84, avendo ricevuto un immobile inferiore rispetto a quello individuato nei due contratti di locazione, ma non è dato sapere quale sia stato il dispositivo della sentenza); non sono stati riportati i motivi di appello, né la statuizione del giudice di secondo grado.

[7] Sentenza n. 11339 del 29 aprile 2021, che dichiara inammissibile un ricorso di oltre 60 pagine scritte a spazio 1 e pressoché prive di margini), che dopo una prolissa esposizione dell'iter processuale, accompagnata da continui riferimenti a numerosissimi (118) documenti di cui sono menzionate solo talune singolari sigle, solo in una sorta di laconica premessa (pag. 16) espone i sedici motivi di ricorso riferendoli assertivamente ai numeri 3 e 5 dell'art. 360, comma 1, c.p.c., raggruppandoli per sigle (MR1, 2; VP, VA, MP, AP e MI) ciascuna con varie e plurime geminazioni, contenenti continue commistioni di fatto e diritto; indi procede all'esposizione dei vari motivi senza denunciare esattamente ed argomentare adeguatamente in ordine alle norme violate, e sempre con continui riferimenti ad una notevole congerie di fatti e documenti, in sostanza meramente indicati ma non specificati o chiariti nell'esposizione delle doglianze, in cui peraltro sono inestricabilmente contenuti elementi di fatto e di diritto senza alcun iter logico intellegibile. Inoltre la sentenza afferma che , in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall'art. 3, comma 2, del cod. proc. amm. (secondo cui «il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica»), esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, esponendo il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell'intera impugnazione o del singolo motivo di ricorso. Ordinanza n. 26937 del 25 novembre 2020: il ricorso per cassazione redatto mediante la giustapposizione di una serie di documenti integralmente riprodotti è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, il quale postula che l'enunciazione dei motivi e delle relative argomentazioni sia espressa mediante un discorso linguistico organizzato in virtù di un concatenazione sintattica di parole, frasi e periodi, sicché, senza escludere radicalmente che nel contesto dell'atto siano inseriti documenti finalizzati alla migliore comprensione del testo, non può essere demandato all'interprete di ricercarne gli elementi rilevanti all'interno dei menzionati documenti, se del caso ricostruendo una connessione logica tra gli stessi, non esplicitamente affermata dalla parte. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui era stato impugnato il rigetto di un'opposizione agli atti esecutivi proposta avverso l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che aveva respinto, per indebita parcellizzazione del credito, un'istanza di assegnazione preceduta da una pluralità di precetti, in quanto dal contenuto argomentativo dell'atto non era possibile trarre la puntuale indicazione delle date di notificazione dei diversi precetti, non potendosi richiedere al giudice di ricostruirle attraverso l'esame del contenuto dei documenti interpolati nel ricorso medesimo).

[8] Cass. civ. [ord.], sez. trib., 13-01-2021, n. 342: l’'onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall'art. 366, 1° comma, n. 4 c.p.c., qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in iudicando) per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata. Si veda anche l’ordinanza n. 13334 del 13 maggio 2021 secondo cui, invece, l'eccezione di inammissibilità del ricorso in quanto di tipo c.d. "farcito" non è fondata, dovendosi ribadire il principio di diritto che «In materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d'inammissibilità dell'impugnazione dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l'esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati» (Cass., Sez. U, n. 9100 del 06/05/2015, Rv. 635452 - 01; successive conformi. Cass., n. 7009 dei 17/03/2017, Rv. 643681 - 01; Cass., n. 20335 del 24/08/2017. Rv. 645601 - 01). Ciò posto, va rilevato che quale censura comune ai tre complessi motivi proposti è la denuncia -ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.- della nullità della sentenza impugnata per vizio motivazionale "assoluto" in relazione ad ogni singolo profilo della materia del contendere (violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. 546/1992, 118, disp. att. Cod. proc. civ., 111, sesto comma, Cost.).Tali censure, da esaminare pregiudizialmente come "ragione più liquida" e congiuntamente per connessione evidente, sono manifestamente fondate.

[9] Cfr. l’ordinanza del  Consiglio di Stato, Sez. VI,   13.4.2021, n. 3006che al fine di non “sorprendere” le parti in una fase caratterizzata dall’assenza di una applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle suddette conseguenze delle condotte difformi (salvo alcuni sporadici ma significativi precedenti: cfr. Sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636.; Sez. V, 12 giugno 2017, n. 2852), accorda , nel rispetto del principio di leale collaborazione (art. 2, comma 2, del c.p.a.), invita le parti a riformulare le difese nei predetti limiti dimensionali, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuovi rispetto a quelli già dedotti

[10] Così la ordinanza 3006 della sesta sezione del Consiglio di Stato del 13 aprile 2021

[11] Nei massimari emergono quasi soltanto le sentenze “severe” che ovviamente motivano sul punto. Mentre sovente il giudice che ritiene ammissibile il ricorso non motiva su questo profilo (sovente implicito della sia pronuncia

[12] Il  “divieto di sanzioni sulla validità degli atti” coinvolgeva  di per sè solo le violazione “dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense”. Quindi per tutta la ampia residua casistica sarebbero stati gli interpreti a dover valutare se nelle aree non coperte dal divieto di incidere sulla validità degli atti ,le sanzioni che coinvolgono tale invalidità dovessero trovare ed entro quali limiti obbligatoriamente applicazione

[13] Cfr. la sentenza della Cassazione n. 12856 13 maggio 2021.

[14] In giurisprudenza si veda l’ordinanza della Cassazione n. 9951 del  15 aprile 2021 (che applica però l’ art. 385 c.p.c.) L’ordinanza così motiva: “conclamate e manifeste ragioni di inammissibilità del ricorso giustificano la condanna dei ricorrenti principali e di quella incidentale, ai sensi dell'art. 385, comma quarto, cod. proc. civ. (applicabile nella fattispecie ratione temporis), al pagamento di una «somma equitativamente determinata» (come da dispositivo), in funzione sanzionatoria dell'abuso del processo (v. Corte Cost. n. 152 del 2016; Cass. Sez. U. 05/07/2017, n. 16601). Non può a tal fine non attribuirsi rilievo alla prospettazione -peraltro attraverso una pletorica articolazione - di motivi del tutto generici e inconferenti, privi di alcun riferimento critico alla motivazione della sentenza impugnata. Tutto ciò segna l'iniziativa processuale, nel suo complesso, quale frutto di colpa grave, così valutabile - come è stato detto - «in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonché con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illiceità dell'abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali» (v. Cass. 14/10/2016, n. 20732; Cass. 21/07/2016, n. 15017; Cass. 22/02/2016, n. 3376; Cass. 7/10/2013, n. 22812)”. Pertanto il provvedimento oltre che condannare i ricorrenti alle spese li condanna altresì tutti, in solido, al pagamento della somma di Euro 6.000 ai sensi dell'art. 385, comma quarto, cod. proc. civ..

Sentenza 3830 del 15 febbraio 2021: la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva ravvisato un'ipotesi di abuso del processo nella condotta processuale della parte che aveva adito sia il giudice amministrativo che il giudice ordinario per ottenere l'inserimento nelle graduatorie ad esaurimento dei docenti in virtù del possesso del diploma magistrale, senza considerare che, all'epoca della domanda, la questione era controversa non solo nel merito ma anche in relazione alla giurisdizione).

[15] (Art. 74 cpp) l'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all'articolo 185 del codice penale può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno   nei confronti dell'imputato e del responsabile civile.

[16] Nel maxiemendamento (art. 13 punto bis) era stabilito: “1) la condanna di cui all’articolo 96, terzo comma, del codice di procedura civile sia pronunciata nei confronti della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave”;2) con la medesima condanna possa essere disposto dal giudice, anche d’ufficio, a favore della controparte, il pagamento di una somma equitativamente determinata, non superiore al doppio delle spese liquidate e, a favore della cassa ammende, il pagamento di una somma in misura non superiore a cinque volte il contributo unificato o, in caso di esenzione di quest’ultimo, non superiore nel massimo a cinque volte il contributo dovuto per le cause di valore indeterminabile.»

[17] Nella procedura conclusasi con la già citata ordinanza     n.   29667  del 22 ottobre    2021, la Corte ha posto a carico dell’incauto ricorrente la sanzione di 1000 euro da versare alla Agenzia delle Entrate non costituita in giudizio.

[18] Così l’ordinanza della seconda sezione della Corte di Cassazione   n.   34349 del 15 novembre    2021

[19] Nella mia esperienza di giudice in Cassazione, il confronto diretto fra il relatore ed i legali ha più volte determinato l’accoglimento di opinioni diverse rispetto alla a relazione

[20] Nei casi previsti dall’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), su proposta del relatore della sezione indicata nell’articolo 376, primo comma, il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte indicando se è stata ravvisata un’ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso.

Almeno venti giorni prima della data stabilita per l’adunanza, il decreto è notificato agli avvocati delle parti, i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima.

Se ritiene che non ricorrano le ipotesi previste dall’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), la Corte in camera di consiglio rimette la causa alla pubblica udienza della sezione semplice.

[21] Della fissazione del ricorso in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice ai sensi dell'articolo 375, secondo comma, è data comunicazione agli avvocati delle parti e al pubblico ministero almeno quaranta giorni prima. Il pubblico ministero può depositare in cancelleria le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell'adunanza in camera di consiglio. Le parti possono depositare le loro memorie non oltre dieci giorni prima dell'adunanza in camera di consiglio. In camera di consiglio la Corte giudica senza l'intervento del pubblico ministero e delle parti.

[22] Procedimento per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza Nei casi previsti dall’articolo 375, primo comma, numero 4), il presidente richiede al pubblico ministero le sue conclusioni scritte.Le conclusioni e il decreto del presidente che fissa l’adunanza sono notificati, almeno venti giorni prima, agli avvocati delle parti, che hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima della medesima adunanza. In camera di consiglio la Corte giudica senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti. 

[23] Il più incisivo accoglimento di questa esigenza si è avuta con la breve vita dell’art. 366bis del codice di procedura civile introdotto dall’art. 6 del d. Lgs 40/2006 cpc e abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69. Secondo tale articolo “nei casi previsti dall'articolo 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4), l'illustrazione di ciascun motivo si doveva concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall'articolo 360, primo comma, n. 5), l'illustrazione di ciascun motivo doveva contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Poiché la l. 69/2009 è entrata in vigore nel luglio 2009 e le disposizioni in essa contenute «si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore della medesima legge» la legge sui “quesiti” ha ancora avuto applicazione ben oltre il luglio del 2009 (si veda la sentenza n. 7732/2014 della Corte di Cassazione).  Non sembra ulteriormente opportuno indugiare sull’art. 366-bis, che pure si è rivelato assai utile ad agevolare il lavoro dei collegi giudicanti, in quanto -come già sottolineato- la riforma del 2009 ha optato per la sua eliminazione, trasferendone la finalità deflattiva al nuovo art. 360-bis - c.d. filtro di Cassazione

[24] Secondo la ordinanza della Cassazione n. 26480 del 20 novembre 2020, la discussione in pubblica udienza non è un diritto delle parti e quindi viene discrezionalmente concesso o negato dalla Corte. E dunque la Corte ben può affrontare in camera di consiglio anche le questioni nuove (ordinanza n. 8757 del 30 marzo 2021). Invece secondo il Consiglio di Stato il contradditorio cartolare coatto non è conforme ai principi della Costituzione e della Carte Europea dei diritti dell’Uomo (ordinanza n.2539 del 21 aprile 2020)

[25] Chiara Graziosi su Giudicedonna 2/2021 così si esprime: Allora il legislatore cerca per evitare i ritardi con un marchingegno, il più singolare di tutto il novum proposto nella riforma: ed è la monocratizzazione nella Cassazione, un tentativo che però non sembra destinato ad avere successo”.

[26] 10. Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura civile in materia di revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell'uomo sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) prevedere che, ferma restando l'esigenza di evitare duplicità di ristori, sia esperibile il rimedio della revocazione previsto dall'articolo 395 del codice di procedura civile nel caso in cui, una volta formatosi il giudicato, il contenuto della sentenza sia successivamente dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario, in tutto o in parte, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ovvero a uno dei suoi Protocolli e non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente; b) prevedere che, nell'ambito del procedimento per revocazione a seguito di sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, siano fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede che non hanno partecipato al processo svoltosi innanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo;c) prevedere che, nell'ambito del procedimento per revocazione a seguito di sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, la legittimazione attiva a promuovere l'azione di revocazione spetti alle parti del processo svoltosi innanzi a tale Corte, ai loro eredi o aventi causa e al pubblico ministero;d) prevedere, nell'ambito del procedimento per revocazione a seguito di sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, un termine per l'impugnazione non superiore a novanta giorni che decorra dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ai sensi del regolamento della Corte stessa; e) prevedere l'onere per l'Agente del Governo di comunicare a tutte le parti del processo che ha dato luogo alla sentenza sottoposta all'esame della Corte europea dei diritti dell'uomo e al pubblico ministero, la pendenza del procedimento davanti alla Corte stessa, al fine di consentire loro di fornire elementi informativi o, nei limiti consentiti dal regolamento della Corte europea dei diritti dell'uomo, di richiedere di essere autorizzati all'intervento;

Ponendosi sulla scia della sentenza n. 113/2011   della Corte Costituzionale (relativa alla revocazione delle sentenze penali), la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con l’ordinanza 4 marzo 2015 n. 2 ha sollevato eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 c.p.c., in quanto tali norme non inseriscono fra i motivi di revocazione delle sentenze civili ed amministrative il contrasto con la sentenze della CEDU. Ma la Corte Costituzionale con la sentenza n. 123/2017 ha mutato giurisprudenza ed ha rigettato l’eccezione sottolineando che la  ione non costituisce l’unico rimedio possibile per rimuovere gli effetti delle sentenze definitive che contrastino con una pronuncia della CEDU.

[27] Liti fiscali, la prevedibilità si scontra con il caso concreto, in Il Sole 24 ore 28 ottobre 2021,

[28] Si veda ,da ultimo, la sentenza delle Sezioni Unite n. 19427 dell’ 8 luglio 2021

[29] A questi limiti si è autosottoposta la sentenza delle Sezioni Unite n. 98392 del 24 maggio 2021 ( Pres. Curzio Rel. Lombardo) in cui si legge: Osservano le Sezioni Unite come non tutti i quesiti posti dall'ordinanza di rimessione pongano questioni la cui soluzione è necessaria ai fini della decisione del caso sottoposto; essi, pertanto, verranno esaminati dal Collegio nei limiti della loro rilevanza, ossia in quanto rappresentino un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l'enunciazione di principi di diritto utili alla soluzione delle questioni sottoposte con i motivi del ricorso in esame. Questa necessaria delimitazione delle questioni da trattare è legata alle funzioni ordinamentali e alle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, compito delle quali non è l'enunciazione di principi generali e astratti o di tesi teoriche su ogni possibile questione di diritto collegata al caso da decidersi, ma l'enunciazione di quei soli principi di diritto che risultano necessari alla decisione del caso della vita da decidersi (in questo senso già Cass., Sez. Un., n. 12564 del 22/05/2018); basti osservare che lo stesso "principio di diritto nell'interesse della legge", che la Corte di cassazione può essere chiamata ad enunciare ai sensi dell'art. 363 cod. proc. civ., deve comunque corrispondere alla regola giuridica alla quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia. Ciò premesso, può passarsi all'esame delle questioni sottoposte, nei limiti in cui la soluzione di esse rilevi ai fini della decisione del ricorso, secondo il loro ordine logico

[30] Art. 363 cpc 1. Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. 2. La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell'istanza, è rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza. 3. Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza. 4. La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito.

[31] Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione può proporre ricorso per chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge un principio di diritto nella materia tributaria in presenza dei seguenti presupposti: a)  la questione di diritto presenti particolari difficoltà interpretative e vi siano pronunce contrastanti delle Commissioni Tributarie Provinciali o Regionali;   b)   la questione di diritto sia nuova o perché avente ad oggetto una norma di nuova introduzione o perché non trattata in precedenza dalla Corte di Cassazione.c)           la questione di diritto per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.Il ricorso del Procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è depositato presso la cancelleria della Corte ed è rivolto al primo presidente, il quale con proprio decreto lo dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al primo comma.Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del ricorso nell’interesse della legge dinanzi alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto.La pronuncia della Corte non ha effetto diretto sui provvedimenti dei giudici tributari.

[32] α) Domanda n. 55064/11

86. La Corte osserva che il ricorso della ricorrente è stato respinto in prima istanza perché non ha rispettato l'obbligo di indicare, per ogni motivo di ricorso, i casi in cui la sentenza della Corte d'appello era ricorribile per cassazione (cfr. paragrafo 7 sopra). Ai sensi dell'articolo 360 (1-5) del CPC, tuttavia, le possibilità di ricorso per cassazione di una decisione sono limitate a cinque motivi di ricorso (vedi paragrafo 20 sopra).

87. Nella fattispecie, ogni motivo del ricorso del ricorrente (cfr. punto 6) relativo a un errore nel iudicando o a un errore nel procedendo è stato aperto con l'indicazione degli articoli o dei principi di diritto che sarebbero stati violati e ha fatto riferimento all'articolo 360, n. 3 o 4, del CPC, che sono due dei motivi per i quali può essere presentato un ricorso per cassazione.

88. Allo stesso modo, nel criticare la sentenza della Corte d'appello per insufficienza di motivazione, il ricorrente ha fatto riferimento ai motivi di ricorso per cassazione di cui all'articolo 360(5) del CPC.

89. In queste circostanze, la Corte ritiene che l'obbligo di specificare il tipo di critica fatta con riferimento alle ipotesi legislativamente limitate dei casi di inizio previsti dall'articolo 360 del CPC sia stato sufficientemente rispettato nel caso di specie. La Corte di Cassazione ha potuto accertare dall'intestazione di ogni caso quale tipo di apertura veniva sviluppata nel motivo e quali disposizioni, se del caso, venivano invocate.

90. In secondo luogo, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il ricorso del ricorrente non menzionasse gli elementi necessari per identificare i documenti citati a sostegno delle critiche che aveva formulato nei suoi motivi (cfr. paragrafo 7).

91. Una lettura dei motivi d'appello mostra invece che quando il ricorso si riferiva ai punti criticati nella sentenza della Corte d'appello, si riferiva ai motivi della sentenza riprodotti nell'esposizione dei fatti, dove erano riprodotti i passaggi pertinenti. Inoltre, quando ha citato documenti del procedimento principale per sviluppare il suo ragionamento, il ricorrente ha trascritto i brevi passaggi pertinenti e ha fatto riferimento al documento originale, rendendo così possibile la sua identificazione tra i documenti depositati con il ricorso.

92. In queste circostanze, anche supponendo che la sentenza della Corte di Cassazione abbia correttamente fatto riferimento al ricorso del ricorrente, ritenendo che le precisazioni fornite non fossero sufficienti, la High Court ha dato prova di un eccessivo formalismo che non può essere giustificato alla luce della finalità propria del principio dell'autonomia del ricorso in cassazione (cfr. paragrafo 75 sopra) e quindi dello scopo perseguito, ossia la garanzia della certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia.

93. La Corte ritiene che la lettura del ricorso del ricorrente abbia permesso di comprendere l'oggetto e lo svolgimento del procedimento dinanzi ai giudici di merito, nonché la portata dei motivi di ricorso, sia per quanto riguarda il loro fondamento giuridico (il tipo di critica rispetto ai casi previsti dall'articolo 360 del CPC) che il loro contenuto, con l'aiuto dei riferimenti ai passaggi della sentenza del giudice di appello e ai documenti pertinenti citati nel ricorso.

94.   In conclusione, la Corte ritiene che nella fattispecie il rigetto del ricorso del ricorrente abbia minato la sostanza del suo diritto a un tribunale.

95. C'è stata quindi una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.

SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

116. Ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione: "Se la Corte constata che c'è stata una violazione della Convenzione o dei suoi protocolli, e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente permette solo una riparazione parziale delle conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se necessario, una giusta soddisfazione alla parte lesa."

Danno 117. Il ricorrente nel ricorso n. 55064/11 ha chiesto 26.000 euro (EUR) per i danni materiali e un importo pari ad almeno un terzo di tale somma per i danni morali che ritiene di aver subito. 118. Il governo ha ritenuto che questa richiesta fosse sproporzionata ed esorbitante, e ha criticato i parametri utilizzati dal richiedente come arbitrari. 119. La Corte non vede alcun nesso causale tra la violazione riscontrata e il danno materiale denunciato. Non spetta alla Corte speculare su quale sarebbe stato l'esito del procedimento in assenza della violazione riscontrata. Ha quindi respinto la domanda presentata a questo proposito. D'altra parte, riconosce al ricorrente 9.600 euro per il danno morale, più l'eventuale importo dovuto su tale somma a titolo di imposta.

Interesse di default 123. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi di mora sul tasso d'interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea più tre punti percentuali.

All’unanimità dichiara che vi è stata una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione per quanto riguarda il ricorso n. 55064/11;Dichiara che non vi è stata alcuna violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione per quanto riguarda le domande n. 37781/13 e 26049/14;

stabilisce, (a) che lo Stato convenuto paghi al ricorrente nel ricorso n. 55064/11, entro tre mesi dalla data in cui la sentenza diventa definitiva ai sensi dell'articolo 44 § 2 della Convenzione, 9.600 euro (novemila seicento euro), più l'importo eventualmente dovuto su tale somma a titolo di imposta, per il danno morale

[33] I formalismi in Cassazione, in Giustiziainsieme:

[34] Corte di Strasburgo e formalismi in Cassazione, in Giustiziainsieme:

[35] Osserva Maria Casola: “sul tema degli incentivi ai magistrati, quale strumento per indurre e stimolare la permanenza nello svolgimento di alcune particolari funzioni, avvertite come particolarmente onerose o disagevoli, nell’attuale sistema ordinamentale esistono due tipologie di strumenti, quelli di natura economica e quelli di natura curricolare. Gli incentivi economici sono uno strumento largamente impiegato per i magistrati trasferiti a sedi disagiate e di recente riconosciuti anche ai magistrati destinati alla pianta organica flessibile distrettuale. Gli incentivi di natura curricolare hanno rilievo sul piano ordinamentale e tabellare e possono consistere in titoli preferenziali o in punteggi aggiuntivi riconosciuti al magistrato per i suoi futuri percorsi professionali (es. per il conferimento di incarichi di dirigenza giudiziaria o per l’assegnazione alle sezioni della Corte). In entrambi i casi, la fonte di produzione giuridica della norma attributiva dell’incentivo dovrebbe essere di rango ordinario e dovrebbe fondarsi su un adeguato canone di ragionevolezza”. “quanto alla possibilità di incentivazione della permanenza presso la sezione tributaria, può ipotizzarsi il conferimento delle funzioni di presidente di sezione “tributaria” sulla base di requisiti attitudinali specifici quali l’esercizio delle funzioni di legittimità presso tale sezione per un determinato periodo (es. almeno quattro anni)”.

 

[36] Ritengo di condividere l’opinione di Maria Casola secondo cui “la collocazione della Corte di Cassazione quale vertice della giurisdizione e titolare della funzione nomofilattica e la tassatività del sistema di reclutamento dei meriti insigni portano ad escludere che al suo interno possano operare giudici appartenenti a giurisdizioni diverse e, peraltro, soggetti a diverse regole di ordinamento giudiziario e di autogoverno (CSM, CPGA, CPCC). Peraltro, per tutti gli uffici giudiziari vale la possibilità di composizione solo da parte di magistrati ordinari e, nei casi previsti dalla legge, conformi all’art. 106 Cost. di persone estranee alla magistratura che assumono la veste di magistrato onorario uti cives, e non quali giudici o funzionari pubblici (art. 106, comma 2) Cost”.

[37] Si veda anche, ad esempio,  la proposta Pagliari- Glendi DDL 988/S della XVII legislatura

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