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martedì, 13 febbraio 2024 18:55
Magistratura Indipendente

Le “correnti” della Magistratura Italiana: centri di potere? Espressione politica? Strumenti di dibattito ideale?– il ruolo di Magistratura Indipendente[1].

Mario Cicala, Direttore della Rivista Il diritto vivente

 
 

 

 

Entro subito nell'argomento,  che è vasto e complesso: coinvolge    sessant'anni e più  di un'istituzione   tutt'altro che abulica e tranquilla ; di un'istituzione dove si è dibattuto intensamente sulla natura e la portata delle funzioni esercitate; con   discussioni che si sono riflesse  nelle modalità di gestione della Giustizia,  cioè  di un Potere che  -da “Mani Pulite” in poi -    è stato -o forse soltanto è apparso -     il motore principale delle trasformazioni del Paese.

A comporre questo motore sono state donne ed uomini  spesso  di spiccata personalità, con un forte sentimento di indipendenza, non  agevolmente inquadrabili  in schemi rigidi e precostituiti. Perciò le indispensabili semplificazioni  proprie di ogni ricostruzione storica   non consentiranno mai di dare una visione completa ed esaustiva di questi anni di vita della magistratura. Ed è ovvio che le testimonianze di coloro che -come  me-  hanno operato all’interno del “continente giustizia”   siano impregnate della visione soggettiva da cui ciascuno di noi prende le mosse.

Con queste doverose premesse, entro in medias res ed osservo che, posto che MI è una corrente all’interno della  Associazione Nazionale Magistrati,  viene spontaneo domandarsi   cosa siano quelle aggregazioni    comunemente denominate “correnti”.

Nel titolo del  mio intervento  ho prospettato  tre  qualificazioni delle correnti:  centri di potere;  espressione politica;  strumenti di dibattito ideale. Ed io ritengo le correnti abbiano corrisposto,    in misura variabile nel corso degli anni, a tutte e tre queste qualificazioni.

Inizio dalla terza: tutte le correnti si propongono come punti di riferimento per un dibattito ideale  circa la natura, la portata, la funzione del potere giudiziario; e prospettano   delle risposte.  

Per MI direi, semplificando molto, che i poli ideali sono la apoliticità[2] e la moderazione[3].

Il  dibattito interno alla ANM, in particolare quello fra MD ed MI -a volte acceso a volte più pacato-  ha contrassegnato e condizionato la vita della magistratura italiana, con consistenti riflessi sulla stessa  giurisprudenza. Perciò  la ANM in cui le correnti si collocano non è mai stata una istituzione di mero dibattito culturale, e neppure esclusivamente  sindacale; anche le battaglie apparentemente più sindacali e corporative hanno coinvolto -e in qualche misura condizionato- il modo di essere della giurisdizione.

Dunque il dibattito ideale   è   sfociato in   dibattito politico, che attraverso lo strumento del Consiglio Superiore della Magistratura ha attribuito alle correnti un potere,   a volte utilizzato per fini che poco hanno a che vedere con il dibattito ideale, o con quello politico.

 Ciò emerge evidente fin dalle prime battaglie della ANM ed in particolare da quella -pienamente riuscita- per una “cancellazione della carriera”, che ha radicalmente modificato i rapporti di forza all’interno dell’ordine giudiziario; ed indubbiamente favorito lo sviluppo del dibattito politico all’interno della magistratura.

Al momento della entrata in vigore della Costituzione repubblicana l’ordinamento giudiziario (e il potere che tale ordinamento gestisce) poggiava su una precisa giustificazione logico-politica:  nel 1948 si riteneva ancora che primaria  fonte del diritto sia esclusivamente  la legge dello Stato, interpretata da una  corporazione con al vertice la Cassazione: prevaleva quindi   la tesi secondo cui l’interpretazione della legge è essenzialmente un’attività tecnica in cui ci si affina con la riflessione, sia pratica sia di studio. Una concezione che esprime una realtà, ma è stata successivamente integrata dallo sviluppo dei fatti;  ma che comunque   ha consentito alla magistratura di mantenere una certa indipendenza nel periodo fascista.

In questo quadro, è logico che, a somiglianza di quanto accade nelle università, vi sia un’elite  costituita da coloro   che si ritiene possiedano in grado sommo la capacità tecnica, e che costoro   facciano  parte della elite in quanto cooptati   attraverso esami scritti, concorsi, scrutini. E’ poi altrettanto logico che  i “promossi”  governino  il corpo giudiziario ed occupino i posti apicali compresa la Cassazione.   

Questa visione è stata messa in crisi da un mutamento delle fonti del diritto, nonché   da una evoluzione sociale che si  è riflessa anche nella magistratura, nel cui corpo è nata una prima aggregazione originariamente sopra tutto  sindacale, detta “corrente”.

Prima e originaria “corrente” fu “Terzo Potere”  che raccoglieva quasi tutta  la “bassa magistratura” (pretori, giudici di tribunale, sostituti procuratori) e che conquistò fra il 1957 e il 1959  la guida della Associazione Nazionale Magistrati, strappandola all’ “alta magistratura” (capi degli uffici, Consiglieri di Cassazione).

Sotto la spinta di "Terzo Potere" l' ANM assunse, a partire dal congresso di Napoli dell'aprile 1957, a suo fondamento ideale e primo punto programmatico la realizzazione del principio della pari dignità di tutte le funzioni giudiziarie e perciò rivendicò la cancellazione della carriera. In altre parole, la destinazione a funzioni "superiori" (corte d'appello, Cassazione) non doveva costituire più  una "promozione", non  doveva determinare  l'acquisizione di uno status superiore e meno ancora di un migliore stipendio.  

  Il 7 gennaio 1961 l' "alta magistratura" -che non condivideva questa impostazione ed intendeva difendere le promozioni -  uscì dall’ANM fondando l’Unione dei Magistrati Italiani[4], cui aderì  anche  un certo numero di giovani magistrati tradizionalisti;   a  favore della carriera si pronunciò due volte la assemblea della Corte di Cassazione riunita il 26 aprile 1957 e il 26 aprile 1962 su convocazione del Primo Presidente (nel 1962 Silvio Tavolaro, che aveva redatto il documento del 1957).

 L'UMI non riuscì però a impedire la evoluzione in senso egualitario delle leggi sull'ordinamento giudiziario avvenuta attraverso le "famose" leggi "Breganze" (25 luglio 1966, n. 570 sulla nomina a magistrato di Corte d'Appello) e "Breganzone" (20 dicembre 1973, n. 831, sulla nomina a Magistrato di Cassazione) che hanno abolito esami e scrutini prevedendo promozioni  (ad essere precisi,  aumenti di stipendio) “a ruolo aperto”, cioè in numero eccedente rispetto ai posti effettivamente disponibili.

Ne è conseguita una  riforma anche del sistema di composizione e di elezione  del Consiglio Superiore,  fondata sul principio del pari valore di ogni voto e perciò sulla prevalenza nel Consiglio dei componenti eletti dai (ben più numerosi) giudici di merito[5].  E questo trasferimento di potere si è riflesso anche all’interno degli uffici.

Il mutamento dei rapporti di forza e dello stesso “clima”  all’interno della magistratura ordinaria avvenne sotto la spinta di molteplici fattori; ci fu certo una spinta sindacale: il desiderio dei giovani magistrati ad  avere assicurata una progressione economica senza patemi, di svincolarsi dal quel poco di  metus che suscitavano allora   i superiori. Ma anche e forse soprattutto giocò  il mutare profondo nella concezione della applicazione della legge  e nello sviluppo del diritto vivente cagionato dalla nascita della Corte Costituzionale.  La Cassazione tentò di resistere a questo mutamento e prese a dichiarare manifestamente infondate la gran parte delle eccezioni di legittimità costituzionale che invece i pretori accoglievano, si creò così un “ponte”  fra Corte Costituzionale e “giovane magistratura”, che travolse  la Corte di Cassazione.

Il ricorso ai principii contenuti nella Costituzione, della Carta Europea dei Diritti dell’ Uomo, ed ora della Carta Europea dei Diritti, rende sempre più “apicale” l’operato dei singoli magistrati anche di merito, anche di primo grado…    E dunque è sempre più vero che tutte le funzioni giudiziarie sono ugualmente importanti; ed il dibattito politico interno della magistratura diviene sempre più incisivo.

Prendiamo ora in esame  la questione del ruolo politico delle correnti. E’ un ruolo che noi di Magistratura Indipendente contestiamo, non condividiamo. Ma… “contra factum non valet argumentum”.

Non può essere del tutto al di fuori della politica un dibattito ideale in cui uno dei partecipi (Magistratura Democratica) rivendica con orgoglio un scelta politica “di campo” affermando che da tale scelta discendono non irrilevanti conseguenze operative.   E naturalmente la natura stessa del dibattito politico nella magistratura muta significato e prospettiva a seconda del contenuto concreto che MD ed oggi Area traggono dalla loro politicità di sinistra.

Sul piano della cronaca, occorre ricordare  Magistratura Democratica è nata nel 1964, come espressione    dell’ala “progressista” o "di sinistra" della magistratura.  E la nascita di questa struttura   ha incoraggiato la costituzione ed il rafforzamento di un contraltare: “Magistratura Indipendente”. Bisogna del resto ricordare -solo di sfuggita per non rinverdire polemiche ormai coperte dei calcinacci  del muro di Berlino- che la sinistra italiana in cui  si collocava MD non era la sinistra dei laburisti inglesi o dei liberal anglosassoni era  una sinistra  in cui  svolgeva un ruolo di primo piano, e secondo molti egemone, un partito comunista solidale con la Russia di Stalin e schierato a favore dei carri armati sovietici che avevano represso la rivolta di Budapest.

Tuttavia fin quando MD si limitò a professarsi genericamente “di sinistra” la lacerazione nel corpo giudiziario rimase  relativamente  “quiescente” ed ancora  nelle elezioni del CSM del 1968   prevalse, sia pur solo per una manciata di voti, una coalizione di cui MD era componente essenziale.  

La frattura emerse invece  clamorosamente con    l’  approvazione, sembra distrattamente, da parte di una assemblea di Magistratura Democratica tenuta il 30 novembre 1969 in Bologna  di un ordine del giorno[6] in cui si criticavano alcune iniziativa giudiziarie per “reati di opinione”. Il documento  scatenò un putiferio, inducendo  l’ala più moderata di MD, guidata da Beria d’Argentine ad uscire dalla corrente fondando il movimento “Impegno Costituzionale” , che raccolse nelle elezioni del 1970 del CDC della ANM  circa la metà dei consensi precedentemente  di MD, cioè il 15%.  Un ulteriore effetto di queste polemiche fu un netto aumento dei consensi della corrente “moderata”  Magistratura Indipendente che nelle medesime elezioni raccolse circa il 45% dei suffragi, mentre solo il 25% andò alla più antica delle “correnti”, Terzo Potere. E nelle elezioni del CSM del 1972 Magistratura Indipendente alleata con una parte di Terzo Potere conquisto la totalità dei seggi in palio.

Il documento di Bologna, cui seguirono altri di analogo contenuto,  ebbe effetti dirompenti all’interno della ANM  perché  prospettava la nascita, in consonanza con atteggiamenti di forte critica nei confronti della giurisdizione assunti dalla sinistra “intellettuale”[7].  di una vera e propria “sinistra giudiziaria” punto di riferimento ideologico per una  “giurisprudenza di sinistra”. Si poteva dunque ritenere che i     giudici di sinistra assumessero un certo impegno a propugnare  nelle camere di consiglio la ripulsa delle tesi ritenute  “reazionarie” e l’affermazione delle tesi “progressiste”. E molti ritengono che  anche il solo sospetto di una incidenza  delle correnti negli atti giudiziari  svuoterebbe di significato la stessa distinzione  e separazione tra azione politica ed attività giudiziaria.

Non ho il tempo di  esporre  le complesse  polemiche cui hanno dato luogo  , all’interno ed all’esterno del corpo giudiziario,   le prese di posizione di MD e successivamente MD-Area  su questioni  politiche con rilevanti risvolti giudiziari.

Mi limito a osservare come in un primo momento le posizioni in concreto assunte da MD abbiano suscitato ed alimentato  scontri aspri e contrapposizioni frontali[8]; e sia   consentito a me, che allora ero giovane, di sottolineare   il ruolo  numericamente e ideologicamente di primo piano che nello scontro avemmo noi giovani aderenti ad MI (spesso in polemica con gli anziani che ci apparivano tiepidi nella contrapposizione ad MD).

Queste contrapposizioni si sono poi  andate attenuando quando nella prassi di MD sono entrate   "direttrici di marcia"   che coincidevano con spinte meno radicali, presenti in tutto il mondo occidentale[9].

Una  vera e propria svolta si concretò poi quando  colleghi di Magistratura Democratica o comunque “di sinistra” si schierarono risolutamente  nella lotta ai  terroristi anche rossi e pagarono a questa scelta un alto contributo di sangue [10].

Mentre all’interno del corpo giudiziario si aprivano  discussioni di grande rilievo che non   erano inquadrabili negli schemi correntizi; si pensi alle polemiche  relative alla creazione (o meno) di una Direzione Nazionale Antimafia conforme alle proposte di Giovanni Falcone. Alle tensioni manifestatesi  in occasione della “bocciatura” della candidatura di Giovanni Falcone alla carica di capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo.

Questa  nuova realtà  modificò  la dinamica politica delle correnti tanto da rendere possibile addirittura   una  convergenza fra MI ed MD che giunse fino ad estromettere dal vertice della ANM  la corrente di  “centro”  Unicost costituita dalla confluenza di “Terzo Potere” con coloro che nel 1969 erano usciti da MD[11]. Ciò nonostante fino a pochi anni prima MI  si fosse dichiarata “alternativa” ad MD.

Ma, a ben vedere,     non vi è ragione perché la “apolitica” MI non collabori con la “politica” MD ove questa politicità  si esplichi in un impegno su valori “inclusivi”, quali  il contrasto alla corruzione ed alla criminalità, organizzata e non. Insomma: non importa il colore del gatto, basta acchiappi i topi.

Oggi però   la sinistra giudiziaria   appare  nuovamente instradata ad assumere posizioni “divisive” che rischiano di coinvolgere la magistratura nella frattura che si è creata nel Paese; in particolare sul tema della immigrazione. Ma di questo mi sono occupato in un editoriale pubblicato su “Il diritto vivente”, cui rinvio.

Piuttosto mi par tempo di dir qualcosa sulla   “terza gamba” su cui marciano le correnti: la loro natura di “centri di potere”. E qui rischiamo di sconfinare  non solo nella sociologia, ma addirittura nella teologia morale.

 La saggezza biblica ci insegna che il desiderio  di potere, di essere arbitri del   bene e del male, di essere simili a dei, è la tentazione del serpente, il peccato originale; e la saggezza  greca  esprime questa realtà in termini che direi “laici” constatando che le società umane  si formano su tre inscindibili spinte (tre “demoni”): il desiderio di  potere, l'amore, la sottomissione. E  se vogliamo procedere su questa via possiamo ricordare che la società umana è fondata sul sangue  di Remo e di Abele.

Venendo a considerazioni più terra terra è agevole constatare come le  organizzazioni umane creino potere al proprio interno e come il potere abbia due facce contrapposte: può rivelarsi  utile per migliorare la vita umana, ma  può anche tormentarla con le sue prevaricazioni.

Si può  tentare la terza via: abolire il potere. E’ una ipotesi che nella sua versione estrema ed anarchica  si è rivelata irrealizzabile. Ma che entro certi limiti può funzionare.

Ad esempio, in materia di conferimento ai magistrati degli incarichi più graditi e richiesti  si può ricorrere al criterio della anzianità “senza demerito” ed alla elezione dei “capi” da parte dei componenti l’ufficio; due strumenti che a me  son sembrati la logica conclusione della pari dignità di tutti i magistrati; posto che  anche dopo le leggi “Breganze” e “Breganzone” sono rimaste delle forme di carriera.  Abbiamo un bel dire che in magistratura siamo tutti uguali; quanto meno nella opinione sociale  conta  eccome! essere il sig. Presidente del Tribunale, e molti -me compreso- si dimostrano sensibili a questa lusinga.

Le mie istanze “egualitarie” sono però state sonoramente sconfitte da vere o presunte speranze di efficienza; ed è nata sulle ceneri della “vecchia carriera” una “nuova carriera” priva però degli strumenti meritocratici propri della vecchia[12] e quindi ancor più esposta alle tentazioni dell’abuso del potere, e più esplicitamente  collegata attraverso il CSM alle strutture di corrente.

Tutti i tentativi del legislatore di ridurre, cancellare, ignorare la presenza delle correnti nel CSM sono clamorosamente falliti, anzi hanno accresciuto rilevanza e poteri delle correnti[13]. Nonostante i magistrati vadano  dimostrando  una certa insofferenza verso i “poteri interni” che possono condizionarli ed abbiano studiato e proposto strumenti per limitare questi poteri.  Ma,   come nota Einaudi[14], è impensabile che le elezioni si svolgano  senza campagna elettorale, che non si tenti di organizzare il voto per renderlo più efficace… che dunque le correnti mirino ad entrane nel CSM.

Dunque chi vuole opporsi alle correnti sembra non abbia altra via efficace che fondarne a sua volta una.

Si è pensato allora ad una misura radicale: la estrazione a sorte dei componenti del CSM, una misura che – lo confesso- non mi scandalizza ma che non elimina il potere, ne rende casuale l’assegnazione[15].

Del resto,  ogni misura che tenta di scalzare una forma di  potere rischia di crearne un’ altra che non è detto sia migliore. Così la  temporaneità degli incarichi direttivi che doveva costituire  un segno della pari dignità di tutti i magistrati  e ridurre  il potere dei capi, ha  accresciuto il potere del CSM che può rifiutare al “capo” il rinnovo dell’incarico, e soprattutto, allo scadere del secondo mandato, è chiamato a decidere se assegnare al collega un ulteriore più prestigioso ufficio, se trasferirlo in un posto di pari rilievo, o invece farlo “rientrare nei ranghi”  con funzioni non direttive, con una “degradazione” che molti ritengono umiliante. Dunque il  “capo” viene incoraggiato (si capisce in nome del buon funzionamento della Giustizia) ad adeguarsi alle direttive ed agli umori dominanti nel CSM.  

Con questa constatazione, che qualcuno forse giudicherà amara, ma  a me par solo realistica, concludo il mio intervento.


 

APPENDICE: IL DOVERE DEL DUBBIO

 

 

Quale visione delle vicende e dei compiti della magistratura associata mi sento di sommessamente proporre?.

 

Certo , è ovvio, non quella sostenuta in vari modi e con diverse tonalità dalla sinistra politico-giudiziaria.

E’ indubbio merito della sinistra italiana aver dedicato  sistematica attenzione ai problemi della giustizia, ed in particolare al dibattito  all’interno del corpo giudiziario.  E, come logico, questa attenzione è stata concentrata sulle componenti della magistratura che si autoqualificano “di sinistra”, o per lo meno “progressiste”.

Così nelle dense pagine che nel libro sull’organizzazione della giustizia in Italia,  Pizzorusso dedica alle “vicende associative dei magistrati”[16] ,  è efficacemente descritta l’evoluzione avvenuta nell’ambito della sinistra giudiziaria. Dell’esistenza di una rilevante, e maggioritaria, parte della magistratura che ha rifiutato e rifiuta ogni qualificazione politica  si da’ correttamente notizia; ma solo per sottolineare il ruolo egemone esercitato per vari anni nella Associazione Nazionale Magistrati e nel CSM dal gruppo   di “Magistratura Indipendente”, in cui si  “raccolsero i magistrati che non condividevano le iniziative sviluppate dai loro colleghi per dare attuazione ai contenuti innovatori della Costituzione repubblicana” ed i cui aderenti erano “per lo più caratterizzati dal loro anonimato politico e culturale”; mentre dell’altro raggruppamento “non di sinistra”  “Terzo Potere” si sottolinea che si “dedicava prevalentemente alla cura degli interessi economici e pratici della categoria”[17].

La magistratura “non di sinistra” viene quindi  considerata soprattutto come una linea di confine, un contrappeso, un freno al progresso  rappresentato dalla sinistra.

Secondo questa visione, il progresso è un treno la cui locomotiva sono le avanguardie rivoluzionarie, che si trascinano dietro  molteplici carrozze su cui viaggiano via via progressisti, riformisti, conservatori illuminati. L’ultimo vagone, carico della zavorra reazionaria, rallenta la corsa del treno; svolgendo un ruolo meramente  passivo, che secondo i più, ad esempio secondo Palombarini[18],  merita solo una connotazione negativa; mentre, secondo i progressisti moderati, è in fondo utile perché impedisce troppo rapide fughe in avanti, foriere di deragliamento[19].

Ho già riconosciuto che sarebbe ingeneroso e soprattutto inattuale ricordare analiticamente quale fosse la “sinistra” in cui MD si collocò alla sua nascita nel 1964; e anche, dal mio limitato punto di vista, non necessario.  

Noto, del resto, che pure chi  ritiene l’umanità nel suo insieme progredisca di anno in anno, deve ammettere che  questa  traiettoria positiva conosce lacune, cadute, eclissi,    e che eclissi!.

Certo se veniamo ricoverati in un  ospedale di oggi non possiamo che rallegrarci di non essere curati con i mezzi ed i metodi di cento anni or sono; cognizioni e strumenti medici si sono altamente perfezionati; ed anche se passeggiamo in grande magazzino possiamo compiacersi della abbondanza di beni (pur magari non di prima qualità) che la rivoluzione industriale ha riversato sulle nostre tavole; sconfiggendo lo spettro della fame.

Ma non minori  perfezionamenti hanno subito  gli ordigni bellici: è stato detto “come dubitare del progresso? Ad ogni guerra ci ammazziamo  con strumenti sempre più efficaci”. E forse dobbiamo la relativa pace di cui godiamo in Europa   da alcuni decenni  più a questa crescente efficienza distruttiva che avrebbe trasformato una terza guerra mondiale in un suicidio collettivo  che ad un miglioramento dell’umanità.

La mia critica rivolta a coloro che  ritengono di  di avere in mano la verità  e di essere  chiamati  a guidare il treno delle sorti italiche sulla via luminosa del progresso, rimarrebbe però  incompleta e sterile se, a mia volta, non ritenessi di poter trarre dal patrimonio culturale di Magistratura Indipendente una differente chiave di approccio alla nostra professione, bella, difficile e terribile.

Sono in proposito  convinto che il dovere del dubbio sia l’asse portante della nostra professionalità la solida radice su cui poggia il nostro moderatismo.

Per chiarire meglio il mio pensiero desidero sottolineare che non mi annovero fra  coloro che  lodano il dubbio come unica ragionevole chiave di volta del pensiero umano e della vita civile;  al contrario, io credo nelle verità assolute, credo nel bello, nel buono e nel vero. Ammiro coloro che sentendosi sicuri portatori di una Verità hanno navigato oceani, fondato imperi, tracciato i confini della conoscenza e del potere; di più,  hanno vinto i campionati di calcio…

Nella vita politica mi piacciono i faziosi, i risoluti, coloro che attaccano frontalmente l’avversario. Ritengo siano un antidoto al cinico convergere della classe politica dominante in una marmellata ideologica priva di nettezze e di ideali.

Tuttavia sono convinto che invece per il giudice e per il pubblico ministero il dubbio sia  un  dovere professionale.

Certo la grandezza e la bellezza della  nostra professione risiede anche (e forse soprattutto) nel fatto che non ci è consentito adagiarci sul dubbio.   Anche quando nei nostri provvedimenti usiamo la prudente proposizione “questo giudice ritiene” , il  dispositivo trasforma il “ritenere” in certezza quanto meno in certezza operativa. Ma  abbiamo il dovere di sapere che anche questa certezza è -appunto – meramente operativa, e dobbiamo noi per primi esser  consapevoli del  dubbio che alla sentenza sopravvive.

A fondamento di questo “dovere del dubbio” si possono porre molteplici considerazioni ed argomenti; anche filosofici.  Ne accennerò sommariamente  due.    

Su un piano strettamente normativo-letterale si colloca il richiamo al “nuovo” art. 111 Cost secondo cui non è più sufficiente che il giudice sia imparziale; imparziale deve del resto essere tutta la pubblica Amministrazione (art. 97 Cost). Il giudice deve essere terzo all’interno di un contraddittorio che si svolge su un piano di parità. E’ divenuta cioè norma costituzionale la definizione  di Bulgaro, riportata da Satta  secondo cui il giudizio “est actus trium personarum, actoris, rei, judicis”.Ed il contraddittorio è effettivo   solo se il giudice dubita o almeno è disposto a dubitare.

Di fronte ad un giudice pieno di certezze, il contraddittorio diviene un rito vuoto;  anche se il giudice –consapevole delle regole della buona educazione- lascia parlare a lungo la parte che già ha perso, la tratta con particolare dolcezza e comprensione[20]

Ci sono però anche ragioni più profonde  ed    istituzionali del “dovere del dubbio”, che poggiano sulla intrinseca natura, almeno oggi in Italia, della funzione giurisdizionale, che  appare  al contempo autoreferenziata  ed  impregnata   di problematiche e valori che la avvicinano alla  politica.

Il richiamo alla autoreferenzialità è in fondo banale: essa è una conseguenza della indipendenza.  Tutte le possibili impugnazioni contro gli atti posti in essere dai giudici sono decise da altri giudici, tutti i provvedimenti che riguardano la professionalità dei magistrati sono di competenza di un organismo composto per 2/3 da magistrati eletti dai magistrati.

Maggiori  difficoltà suscita la circostanza che oggi in Italia le magistrature svolgono almeno di fatto  un ruolo attivo  nella formazione del “diritto vivente”; non si pongono come mere esecutrici delle leggi [21]. A mio credere oggi la giurisdizione    è   una componente della dinamica anche politica della società, in quanto attinge spesso la  soluzione del caso concreto dai “sommi” principii  contenuti nelle varie carte costituzionali (Costituzione, CEDU, Carta Europea dei diritti…); principii che per loro natura si prestano a molteplici interpretazioni[22]. Inoltre la giurisdizione   deve dipanare le   incertezze proprie della odierna legislazione italiana quali emergono dalla atecnicità del linguaggio legislativo, dalla coesistenza di norme diverse che mal si intersecano,  dal definitivo abbandono della “codificazione” (intesa come creazione di organici testi legislativi fondati su un linguaggio coerente ed uniforme)   dalle opinabilità  circa la individuazione delle “presunzioni” e degli “indizi”.  E mi par ovvio che , nella rielaborazione di un quadro legislativo frammentato e complesso, il giudice venga fatalmente ad esercitare un spiccata discrezionalità. Tanto che in altri Paesi si riconosce l’esistenza due forme di democrazia: quella parlamentare, ove i cittadini costituiti in corpo elettorale esercitano un ruolo primario e tendenzialmente assoluto,  e quella giudiziaria in cui i cittadini non svolgono direttamente un ruolo attivo ma soltanto stimolano, con ricorsi, azioni collettive e quant’altro, i giudici  a procedere sulla via del progresso (rectius di ciò che il ceto ideologico dominante chiama progresso).

Questa affermazione  costituisce un vero e proprio paradosso, posto che    in una società democratica ogni potere politico dovrebbe fare immediato riferimento alla volontà popolare espressa dalle elezioni.

Non intendo qui affrontare questo complesso nodo “di pricipio”. Mi limito ad osservare che i regimi liberi si caratterizzano per l’esistenza di un articolato insieme di poteri che non fanno capo ad un’unica fonte. Persino le monarchie che chiamiamo “assolute”  possedevano ampi spazi di libertà nella misura in cui il potere del Re (formalmente illimitato e di origine divina) trovava freno e si componeva con le “libertà” dei corpi sociali (Comuni, corporazioni, Chiese…). E così, del pari, nella nostra società moderna, che definiamo democratica, le elezioni  pongono in palio solo una parte (certo la più appariscente ma forse neppure la più importante) del potere politico. Ciò è evidente per quanto attiene a quei poteri che scaturiscono da istituzioni di diritto privato (quali la proprietà, l’associazionismo…), ma è vero anche in riferimento a molteplici poteri pubblicistici. Il potere “democratico” del Parlamento e del Governo trova   temperamento e limite in poteri di natura sostanzialmente aristocratica. Di essi alcuni (come la burocrazia, le Autorities) sono formalmente subordinati e sotto qualche profilo coordinati con il potere “democratico”, altri ne sono del tutto svincolati, come appunto le magistrature.  

Possiamo dunque   prender atto che la magistratura (rectius “le magistrature”) concorrono alla formazione del sistema giuridico con un apporto largamente discrezionale e creativo, combinando i dati normativi con valori   provenienti dalla realtà sociale, e che –come già sottolineato- non possiamo che definire come “politici”, diversi ma pericolosamente affini ai valori che animano, o dovrebbero animare, la “politica dei partiti”.

Mentre cioè la discrezionalità del medico si nutre di scelte –almeno  nella grande maggioranza dei casi- estranee alla dialettica ideale politica, la discrezionalità del magistrato si radica invece proprio in tale dialettica.

La modifica di un indirizzo giurisprudenziale[23]; l’abbandono di una presunzione prima utilizzata come pacifica; l’accettazione di una diversa presunzione, l’apertura di nuovi “filoni di indagine”, scandiscono le tappe di  trasformazione di una società talvolta più di una riforma legislativa.

 Si tratta di una realtà che si manifesta in ogni settore dell’ordinamento ed assume d’ordinario profili non  drammatici.

La politica giudiziaria e la politica dei partiti si differenziano certo per il loro oggetto (più volta all’evoluzione complessiva del sociale la politica giudiziaria più attenta al contingente la politica dei partiti), ma anche  per il metodo.

Nella politica dei partiti la elaborazione degli indirizzi avviene in forma pubblica nel dibattito collegiale, nella contrapposizione esplicita di visioni diversi. Nella politica giudiziaria la dialettica dei collegi non riflette proporzionalmente le ideologie presenti nel Paese, e la gran parte delle decisioni è monocratica. Tocca dunque al singolo giudice spogliarsi delle sue (legittime) convinzioni in ordine alla politica dei partiti e tentare di cogliere il complesso gioco di valori presenti nella legislazione e nelle aspirazioni sociali; ciascuno di noi deve dunque essere insieme maggioranza e opposizione. E il dubbio è lo scandaglio per esplorare la complessità del reale e dei suoi valori. Non solo è anche il presupposto ideale che ci deve spingere a riconoscere i limiti propri della  nostra discrezionalità a prender atto che vi sono disposizioni talmente chiare da sfuggire alla “ortopedia giudiziaria”,  pur se   esercitata con gli strumenti della “interpretazione evolutiva”, della “interpretazione costituzionalmente orientata”, etc…

Solo il dubbio, frutto di una vera umiltà,   legittima questo corpo di funzionari che hanno come unici titoli la vincita di un concorso per esami spesso lontano nel tempo, ed una serie di valutazioni positive   formulate da loro stessi, a determinare la vita dei loro simili  (ad affermare ad esempio che la tal  presunzione è grave e  precisa  e può giustificare un pepato accertamento dei redditi).  

La dialettica che nella politica dei partiti dà – o può legittimamente dar luogo- ad un aspro e pubblico confronto fra soggetti diversi, nutrito se necessario  di sana faziosità, nel giudice deve essere dialettica interiore, capacità di scorgere le ragioni di valori apparentemente contrapposti, coscienza della relatività delle proprie scelte. In altre parole, diviene dubbio, intendendo per dubbio non la scettica indifferenza, ma la coscienza che il vero e il giusto non sono privilegio ed appannaggio di nessuno, la consapevolezza che raramente il giudizio è frutto di una solare affermazione di verità, più spesso è laica composizione di legittimi valori contrapposti. Il magistrato anche del pubblico ministero deve cioè riassumere in sé maggioranza e opposizione. O per usare il paragone di Calamandrei avere in sé due avvocati in contraddittorio. Del resto la stessa terzietà  del giudice viene meno nella sostanza se non nella forma quando il giudice non dubita, e quindi non incarna  la parità delle parti.

 Proprio il dovere del dubbio rende a mio avviso a dir poco  inopportuno che le correnti della magistratura  emanino documenti   in cui si  prende posizione sulla  interpretazione  ed applicazione della normativa vigente. Gli ordini del giorno,  le delibere congressuali sono infatti strumenti per   fugare i dubbi e dare certezze e dunque vengono a sovrapporsi agli atti giurisdizionali; ingenerando negli utenti della giustizia il naturale timore di un difetto di terzietà  dei giudici; che non è cancellato dagli attestati di solidarietà rilasciati dal CSM o dalla ANM.

Concludo il mio appunto acquisendo   un pensiero di  Albert Camus che mi pare coerente con ciò che finora ho detto.

Camus ha sottolineato come attraverso il  mito di Sisifo i greci abbiano colto e rappresentato una costante della realtà umana.

Invero la spinta che tutti avvertiamo a “progredire” a spingere il masso verso l’alto, viene costantemente frustrata dalla ricaduta del masso stesso.

Così accade  nella esperienza personale di quasi tutti  noi, e così accade nella nostra  “realtà collettiva”. Quindi, conclude  Camus: bisogna immaginare Sisifo felice.

Ma felice perché? Come suggerisce Camus,  gli ideali, e forse anche il puro piacere del confronto,  possono dare  significato allo “spingere il masso” al tentativo  di costruire un mondo che ci appaia migliore;  non rendono l’uomo-sisifo   “felice” nel senso proprio del termine, ma  per lo meno possono salvarlo dalla disperazione.

Si tratta probabilmente   di un’ illusione, ma di un’illusione benefica; ancorchè gli ideali che riempiono il cuore di alcuni  “Sisifo”  ben possano apparirci non condivisibili o addirittura negativi. Ma le convinzioni che ho esposto mi impongono di riconoscere loro quel “beneficio del dubbio” che spero anche loro vorranno concedermi.



[1] Relazione al convegno: Storia, valori e personaggi di Magistratura Indipendente nell'associazionismo giudiziario, nei rapporti con i Poteri dello Stato e con l'Avvocatura. Roma 19 ottobre 2018

[2] Tratterò meglio l’argomento più avanti qui desidero solo ribadire la  mia opinione secondo cui oggi la giurisdizione    è   una componente primaria della dinamica politica della società, in quanto attinge spesso la  soluzione del caso concreto dai “sommi” principii  contenuti nelle varie carte costituzionali (Costituzione, CEDU, Carta Europea dei diritti…); principii che per loro natura si prestano a molteplici interpretazioni, di guisa che, come dirò più avanti,  non mi par dubbio che oggi il diritto non sia esclusivamente  una scienza  ma anche un’ arte. Pertanto riferisco l’attributo della “apoliticità” alla corrente denominata MI e non alla giurisdizione.

[3] Qui sottolineo  solo che  per moderazione intendo non la mera pacatezza o l’indifferenza, bensì   la consapevolezza del fatto che le società poggiano su una molteplicità di valori  fra loro non coincidenti e talora addirittura contrapposti;  e quindi la consapevolezza del relativismo insito in ogni scelta di carattere non religioso. Dunque -come meglio dirò più avanti- il dubbio  è a mio avviso l’asse portante di una attività giudiziaria che sia veramente tale.  

 

[4] Paradossalmente l’uscita dell’ “alta magistratura”, entrata nell’UMI,  invece di indebolire la componente tradizionalista dell’ANM, la rafforzò. Liberati dal sospetto di essere “succubi dei capi” i giovani tradizionalisti fondarono nel 1962-1963 “Magistratura Indipendente” , che divenne in breve tempo l'antagonista naturale  di  Magistratura Democratica, e via via il gruppo di maggioranza relativa dell’ANM, mantenendo  questo primato fino al 1981, quando fu “sorpassata” da  Unità per la Costituzione.  Nelle elezioni del 1964 raggiunse circa il 30% dei voti (e 12 seggi contro16 di Terzo potere e 8 di Magistratura Democratica); nel gennaio 1966, a seguito di ordine del giorno "tradizionalista" approvato dalla sezione di Lecce, due componenti del CDC eletti con Terzo Potere passarono ad MI.  Nel 1966 MI  ricevette  anche l’apporto di una organizzazione spontaneamente nata a Torino, e guidata da Franco Marzachì, ed  ottenne il 42% dei suffragi, con  15 seggi (contro il 31% e 11 seggi di Terzo Potere, il 25% di Magistratura Democratica con 9 seggi, il 3,5% con un seggio di un lista minore); questi risultati furono “grosso modo” confermati nel 1969 (MI 40% e 14 seggi, MD 27% e 10 seggi, Terzo Potere 33% e 12 seggi). Il leggero calo di MI è attribuito dal Ricciotti (La giustizia in  castigo) alla strenua opposizione di MI alla proposta di indire uno sciopero dei magistrati per ragioni economiche (è curioso notare come pochi anni dopo le parti si invertirono e fu MI a propugnare scioperi per motivi economici, MD ad opporsi).

[5]Mi sia consentito rinviare al mio scritto sulle leggi elettorali del CSM pubblicato sul Foro italiano. Qui mi limito a ricordare che la legge  istitutiva del Consiglio Superiore conferiva ben 6 seggi (su 14 componenti magistrati) ai giudici di cassazione (circa il 6% del corpo elettorale) che assieme al Procuratore Generale ed al Primo Presidente della Corte di Cassazione (componenti di diritto) svolgevano un ruolo determinante all’interno dell’organo. Inoltre i giudici della Cassazione componevano le commissioni giudicanti dei concorsi e degli scrutini per la promozione.  I mutamenti della legge elettorale ispirati al principio “un uomo un voto” tolsero il primato alla Cassazione e la ragion d’essere all’UMI che nel 1972 non elesse alcun componente del CSM. Quindi, pur avendo ancora nel 1976 - con il sistema proporzionale- conquistato  509 voti e un seggio al CSM,  si sciolse e rifluì nella ANM, prima delle elezioni per il CSM del 1981.

 

[6] Ritengo utile riportare l’ordine del giorno (che è pubblicato anche sul sito di MD con la copia del manoscritto originale): 

"L'Assemblea Nazionale di M.D. riunita a Bologna il  30 novembre 1969, di fronte a ripetuti recenti casi che hanno messo in pericolo in vari modi le libertà costituzionali di manifestazione e diffusione del pensiero, e provocato allarme e apprensione nell'opinione pubblica e nella stampa (la quale ha rilevato che i provvedimenti adottati hanno creato un clima di intimidazione particolarmente pesante verso determinati settori politici ai quali non può essere negata quella libertà);

esprime la propria profonda preoccupazione di fronte a quello che può apparire come disegno sistematico, operante con vari strumenti ed a diversi livelli, teso ad impedire a taluni la libertà di opinione, e come grave sintomo di arretramento della società civile:

chiede che i poteri dello Stato, ciascuno nell'ambito delle proprie attribuzioni, si impegnino con decisione per rimuovere le origini di tale fenomeno, mediante riforme legislative (abrogazione dei reati politici di opinione) e cambiamento di indirizzo nell'azione svolta, con particolare riguardo all'attività di p.s. di vigilanza sull'esercizio delle tipografie;

[7] Ad esempio, nei primi mesi del 1971 "L'Espresso" si fece promotore di un appello, sottoscritto da molti intellettuali e uomini politici anche del PSI (allora al governo), in cui si chiedeva la "rimozione dai loro uffici" di due magistrati di Milano (Giovanni Caizzi e Carlo Amati) qualificati come "indegni persecutori"  per aver archiviato l'inchiesta relativa alla morte dell'anarchico Pinelli che veniva da tali intellettuali addebitata al commissario Calabresi (le conclusioni di Caizzi ed Amati  furono poi confermati anche da successivi accertamenti condotti da Gerardo D'Ambrosio). E forse non è fuor di luogo ricordare che il CSM di allora (composta in maggioranza di esponenti di Impegno Costituzionale e Terzo Potere) archiviò l'esposto dei due colleghi senza dir verbo a loro difesa  "perchè trattasi di critiche rivolte a singoli magistrati in relazione alla loro attività giurisdizionale"  (delibera 16 giugno 1971, in Rassegna del CSM n. 5 pag. 116).

 

[8] I momenti di scontro più aspro fra "apolitici" e "politici di sinistra" coincisero con l’inizio del terrorismo. L’omicidio Calabresi (17 maggio 1972),  il rapimento di Mario Sossi (18 aprile 1974), ed il conseguente omicidio (8 giugno 1976) del procuratore generale di Genova Francesco Coco, che si era virilmente opposto allo “scambio” fra Sossi e alcuni brigatisti detenuti, attizzarono il clima di sospetto e di frattura . A molti di noi, magistrati “non di sinistra”, sembrò che gli attacchi di Magistratura Democratica a Calabresi, Sossi e Coco avessero, certo involontariamente, concorso a formare  un clima culturale prodromico di violenze; dopo l’omicidio di Francesco Coco, Magistratura Indipendente denunciò “la responsabilità morale di quanti, a qualsiasi livello e, purtroppo, anche all’interno dell’ordine giudiziario, hanno contribuito con faziose e distorte polemiche a fornire una sorta di ‘alibi psicologico’ ai barbari uccisori”.

 

[9] E', ad esempio, molto difficile sceverare quale parte della giurisprudenza che ha via superato il concetto di "spettacolo osceno"  abbia rispecchiato un'adesione alla "rivoluzione sessuale rossa"; e quale invece sia semplicemente frutto della trasformazione edonistica e libertaria della nostra società; gradita anche ai reazionari. Certo i giudici che condannarono per oltraggio al pudore il regista del  film "Ultimo tango a Parigi" erano di orientamento tradizionalista; ma non è vero il contrario, cioè che coloro che ritengono leciti i film di Bertolucci o di Pasolini siano tutti sovversivi rossi     Oggi nessuno si scandalizzerebbe più leggendo le interviste     che pubblicate nel 1966 sul giornalino del Liceo "Parini" di Milano scatenarono un terremoto, le cui ripercussioni travolsero il Presidente della Associazione Nazionale Magistrati (che aveva preso le distanze dal sostituto che istruiva il relativo processo penale). Per altro verso, accadeva   - per fortuna-  che specie nelle procedure ove era decisivo l'accertamento dei fatti,  giudici comunemente indicati come "di sinistra"  ricostruissero gli eventi in termini non graditi alla sinistra politica.   Né sta scritto da nessuna parte che chi riconosce i diritti dei lavoratori in fabbrica sia necessariamente un eversore.  

[10] La coesione interna e la capacità di dialogo con la società diedero alla ANM  la forza di contrapporsi nello sciopero del 3 dicembre 1991 al Ministro della Giustizia Martelli, e al Presidente della Repubblica. L'alto numero di adesioni sconfessò  la tesi di Cossiga secondo cui la maggioranza dei magistrati era sulle sue posizioni e la magistratura riuscì a superare il difficile frangente senza troppi danni. Gli avvocati delle Camere  Penali si schierarono però con Martelli e posero in crisi il Comitato Avvocati e Giudici per la giustizia, che ridusse l'attività;  anche se ancora il 30 aprile 1993 approvò un documento di critica ai rifiuti di autorizzazione a procedere con cui le Camere tentavano di frenare le inchieste di "mani pulite".

[11] Nel 1992 di fronte ad alcune richieste di Unicost ritenute inaccettabili (la elezione  di una giunta esecutiva “monocolore” di Unicost stessa) , gli altri tre gruppi MD,MI ed i Verdi diedero luogo ad una alleanza che portò alla presidenza prima Mario Cicala (MI), e poi Elena Paciotti (MD), alla segreteria generale Franco Ippolito (MD) e Marcello Maddalena (MI); vicepresidente fu Giovanni Tamburino esponente di spicco dei "Verdi". La novità suscitò -come era logico-  polemiche all’interno dei  gruppi che aderivano alla giunta "anomala”

Nel 1994 si ricostituì una Giunta MI-MD-Unicost con la presidenza di Antonio Abate (Unicost)

 

[12] In tale sistema il vero potere era nelle mani delle commissioni di concorso e di scrutinio, ed il CSM sostanzialmente si limitava a recepire le graduatorie di promozione redatte da queste commissioni.

[13] Basterà ricordare che per effetto di una legge che doveva “abolire le correnti” alla ultime elezioni del CSM nella categoria pubblici ministeri di sono presentati quattro candidati (uno per corrente) per  quattro seggi.

[14] Osserva Luigi Einaudi (Prediche inutili, disp. VI, Torino 1959): "il metodo di far votare le teste, che dicesi della sovranità popolare, va contro ad una grossa difficoltà ed è che se le teste non si mettono d'accordo prima, il voto è una farsa; e ciascuno votando a capriccio per se stesso, per il parente, per l'amico, per il compagno di lavoro, i voti necessariamente si disperdono ed il vero elettore è il caso fortuito”.

[15] Prosegue Einaudi (op. loc. cit): il metodo del caso fortuito, che può dirsi anche della estrazione a sorte, non sarebbe privo di pregi; fra i quali segnalato quello di essere imprevedibile e di non poter essere frutto di patteggiamenti e di corruzione.  Nessuno però, salvo parzialmente e in certi tempi e paesi, ha applicato il metodo del caso fortuito nella chiara sua specie di estrazione a sorte.

[16] L'organizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1990.

[17] L’attenzione ai problemi economici ha  caratterizzato le componenti “non di sinistra” della magistratura,  pronte -se del caso- anche a ricorrere addirittura allo strumento dello “sciopero", persino nella forma di dubbia legittimità dello "sciopero bianco”.  Si può ricordare lo sciopero indetto (con pieno successo) il 5-7 febbraio 1975 dal Magistratura Indipendente e Terzo Potere.

Le componenti di sinistra hanno invece “snobbato”  simili problemi, e giunsero a paragonare lo sciopero dei magistrati a quello dei “camioneros” cileni che spianarono la via al “golpe” di Pinochet.

La questione economica della magistratura ha perso mordente dopo l’introduzione del meccanismo  di  "adeguamento automatico" degli stipendi  di cui  alla  legge  19 febbraio   1981,   n.  27,  il  cui  carattere   di   guarentigia dell'assetto  costituzionale della Magistratura    espressamente riconosciuta   dalla   sentenza   n.    238/1990   della    Corte Costituzionale.

 Obbiettivi prevalentemente sindacali perseguiva il “Sindacato dei magistrati”   fondato nel 1980 da esponenti di “Terzo Potere” usciti dalla ANM; il “Sindacato” ha raggiunto il massimo del consenso (circa il 6%) nelle elezioni del CSM del 1986.

 

[18] Giovanni Palombarini, Giudici a sinistra (i 36 anni della storia di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia), ESI Napoli, 2000.

 

[19] Una visione di questo genere è prospettato  anche da  Paolo Borgna (in Paolo Borgna, Margherita Cassano, Il giudice ed il principe - magistratura e potere politico in Italia ed in Europa, Donzelli, Torino, 1997)

Anche  Paolo Borgna nei primi capitoli di questo   volume ci prospetta una visione progressista della magistratura (e della società) italiana. Dalle tenebre del fascismo sarebbe emersa una magistratura impregnata dei (dis)valori del regime, formatasi ai tempi del "consenso" per la guerra d'Etiopia. Una magistratura grigia che  nel 1965 al congresso di Gardone aveva ancora osato "esplodere in tumulto" contro Lelio Basso, una magistratura restia ad accogliere il messaggio della "lettera ad una professoressa" di don Lorenzo Milani, una magistratura  colpevole di aver steso il velo dell'amnistia sui delitti dei miliziani fascisti, di aver tentato di criminalizzare la "rivoluzione sessuale" aperta dal giornalino  "La Zanzara" redatto dagli studenti del prestigioso liceo "Parini".   Su questa palude si sarebbe man mano levato il sole del progresso, sotto la spinta di Magistratura Democratica,  di Marco Ramat, della battaglia di Algeri, della opposizione alla guerra del Vietnam. E questo sole avrebbe via via scaldato anche i cuori dei reazionari: da Marcello Maddalena   ad Edoardo Denaro.

La mia critica alla visione di Paolo Borgna è radicale: personalmente non aderisco alla visione  "progressista" della storia, neppure in versione anglosassone.  L'umanità non migliora, né peggiora. Dice il libro di Qoelet "non domandare: “Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?”/, tale domanda non è ispirata da saggezza/ poiché  ciò che è stato sarà/  e ciò che si è fatto si rifarà; /non c`è niente di nuovo sotto il sole".

[20] Calamadrei insegnava ai giovani che si affacciavano alla professione forense di guardarsi dai giudici sorridenti e cortesi: ti trattano bene perché già hanno deciso di darti torto.

 

[21] Non mi nascondo che la dottrina tradizionale secondo cui la sentenza non è altro che l’esatta attuazione della volontà del legislatore  offre  facili argomenti per la difesa della corporazione giudiziaria. In  fondo, se il  provvedimento giudiziario non è altro che il frutto di automatica applicazione della legge,  criticare una sentenza priva di macroscopici errori è assurdo, è come attaccare un referto chimico.

 

[22] Con il nascere di fonti del diritto superiori alla legge (Costituzione, CEDU, Carta Europea… ) si è invertito il rapporto tradizionale  fra principii e legge. In passato i principii esistevano in quanto recepiti e plasmati dalla legge;  oggi    invece i principii  hanno assunto vita propria e sono i principii a condizionare l’esistenza e l’interpretazione della legge.

[23] Si pensi agli effetti dirompenti che ha avuto l’accoglimento da parte della Corte di Cassazione del “teorema Falcone”, cioè della presunzione secondo cui si ritiene che tutti i delitti di mafia commessi in un’area siano addebitabili al boss di quell’area. In probabile reazione a questo mutamento di giurisprudenza vennero uccisi Lima, Falcone e Borsellino.

 

 
 
 
 
 
 

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