ultimo aggiornamento
martedì, 13 febbraio 2024 18:55
Magistratura Indipendente

TRIBUTARIO  

PRIME OSSERVAZIONI SULLA RIFORMA DEL PROCESSO DI CASSAZIONE

  Tributario 
 lunedì, 12 luglio 2021

Print Friendly and PDF

di Mario CICALA, Direttore della Rivista il Diritto vivente

 
 

accrescere il numero dei processi definiti e ridurre il numero dei ricorsi proposti

Dopo un primo esame delle proposte di riforma del processo di Cassazione enunciate nel Piano nazionale ripresa e resilienza (PNRR) e esplicitate nel “maxiemendamento “ governativo al disegno di legge 1662/S (Delega al Governo per l'efficienza del processo civile); ed una veloce lettura della complessa, ed articolata Relazione approvata dalla “Commissione della Cananea” (e specificamente dedicata alle problematiche della Giustizia Tributaria), appare necessario domandarsi se dall’insieme delle disposizioni non emerga implicita l’esigenza di una giurisprudenza della Corte di Cassazione, oserei dire, più “compatta”; cioè che maggiormente risponda alla funzione nomofilattica della Corte. Sia pure con qualche rinuncia sul piano della sua altra essenziale funzione: dare una motivata e specifica risposta a tutte le domande di giustizia che in cassazione approdano e si concludono.

Una valanga di processi tributari ed -in genere- di ricorsi ha costretto la Cassazione ad emettere un gran numero di provvedimenti ben meditati dal relatore (secondo l’impressione che si ricava dalla lettura sul CED); ma a causa del loro enorme numero forse troppo poco discussi e rielaborati in camera di consiglio e negli scambi di opinione fra i magistrati; organizzati od occasionali, istituzionali o informali che siano. Cioè senza che i singoli abbiano acquisito una piena consapevolezza degli indirizzi espressi da loro colleghi.

In questa complessa e tormentata realtà, le proposte del “maxiemendamento” richiamano principi ritenuti utili per accrescere il numero dei processi definiti (anche senza una valutazione collegiale delle pratiche) e nel contempo ridurre il numero dei ricorsi proposti.

Sul punto, il PNRR così si esprime:

“Con riferimento al giudizio di Cassazione il Piano valorizza i principi di sinteticità e autosufficienza che devono contraddistinguere il contenuto degli atti; uniforma le concrete modalità di svolgimento del procedimento; e semplifica la definizione mediante pronuncia in camera di consiglio. Dal punto di vista generale si rendono effettivi il principio di sinteticità degli atti e il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti (e i loro difensori) mediante strumenti premiali e l’individuazione di apposite sanzioni per l’ipotesi di non osservanza”.

Ci domandiamo: quali proposte di riforma siano scaturite dalle parole forti e pesanti, ma anche generiche, utilizzate dagli estensori del PNRR: “leale collaborazione”, “sinteticità”, “autosufficienza”, “strumenti premiali”, “apposite sanzioni”. In che misura tali parole possono incidere sulle prassi giurisprudenziali relative ai ricorsi per Cassazione confermandole o ponendosi in posizione critica rispetto a tali prassi?.
 

Il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti: nel processo tributario

Sappiamo tutti che il dovere della “leale collaborazione” è un principio di carattere generale che deve (o dovrebbe) incidere in tutti i rapporti intersoggettivi di natura pubblica, ma anche di natura privata. Vincolando gli operatori economici e sociali a forme di collaborazione per il raggiungimento e il rispetto di valori comuni, che sono presenti anche nella contesa giudiziaria [1].

Si tratta ovviamente di un principio che deve essere coordinato con altri principi e valori, in grado di limitarlo; e ciò vale anche quando si affrontano gli argomenti oggetto di questa breve riflessione.

Espongo, in primo luogo, qualche sommario spunto riferito alla tematica del processo tributario.

Nel processo tributario vi è , a mio avviso, una radicale differenza fra la posizione dell’ente impositore e quella dei contribuenti e dei loro difensori.

L’ente impositore ha (o dovrebbe avere) come scopo istituzionale l’esatta applicazione dei carichi tributari, e non la massimizzazione delle entrate. Il contribuente ben può invece avere come proprio scopo il ridurre al minimo gli esborsi (accrescendo così la propria ricchezza); perciò gode ad esempio del c.d. “diritto al silenzio”[2] cioè di non fornire a controparte quelle informazioni che possono determinare l ’applicazione di misure punitive. amministrative o penali che siano (nemo tenetur se detegere). Dunque il contribuente non è tenuto a riversare nel giudizio anche i documenti che possono nuocergli, mentre a ciò è tenuto l’impositore, e chi lo tutela, in primis la Avvocatura di Stato[3].
 

Segue- nel giudizio di cassazione: la inammissibilità del ricorso

 Per quanto riguarda il giudizio di cassazione, la leale collaborazione si riflette (o dovrebbe riflettersi) anche nella elaborazione da parte di ogni soggetto processuale di atti sintetici ed autosufficienti dunque chiari e comprensibili; tali da consentire a chiunque di acquisirne agevolmente il significato.

E’ chiaro come simile obbiettivo impegno gravi soprattutto sui difensori delle parti che dovrebbero redigere ricorsi tali da offrire al giudice puntuali e sintetici quesiti cui rispondere[4].

L’aspirazione ad un clima di “leale collaborazione”, pur nella ovvia diversità di ruolo delle parti processuali, ha dato luogo ad un moltiplicarsi di iniziative, di incontri da cui sono scaturiti “protocolli”, “ convenzioni”, ed anche “direttive dei capi degli uffici giudiziari” concordate nel contenuto con le rappresentanze dei difensori.

Questi documenti preparano il terreno per una vera e propria disciplina giuridica che si forma o quando alcune delle “prassi virtuose” sono recepite in norme di legge o quando -come accaduto per la giustizia Amministrativa- la legge attribuisce rilevanza giuridica alle disposizioni organizzative emanate dal Presidente del Consiglio di Stato. Così come previsto dall'art. 13-ter (Criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte) dell'allegato II al Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. La norma, inserita dall’art. 7-bis, comma 1, lett. b), n. 2), D.L. n. 168/2016, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 197/2016, detta interessanti prescrizioni al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza di cui all'articolo 3, comma 2, del codice. E prevede che “il giudice e' tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non e' motivo di impugnazione".

Vi è però anche un’ ulteriore via attraverso cui la magistratura chiede la leale collaborazione dei difensori delle parti. Ed è la valorizzazione di indicazioni che la legge enuncia ma senza collegare esplicitamente alla loro violazione sanzioni procedimentali; accade cioè che siano emessi provvedimenti in cui si “puniscono” queste violazioni con la “pena” della inammissibilità della istanza o del ricorso, assai temuta dai difensori sia per la lesione di immagine che essa comporta sia per la possibilità che l’assistito promuova una causa di risarcimento del danno. Vi sono dunque decisioni che dichiarano “inammissibile” un ricorso per cassazione in cui non vi è l'esposizione dei fatti della causa[5], oppure c’è ma non è sommaria bensì estremamente prolissa e magari affidata al “copia incolla” di innumerevoli ed inutili documenti (con violazione del n. 3 dell’art. 366 c.p.c) [6]; o un ricorso in cui i motivi non sono articolati in separati capoversi uno per ogni motivo, bensì mescolati e confusi (art. 366 n.4); o non sono “autosufficienti” ad una piana lettura, ma rinviano ad una documentazione dispersa negli atti processuali[7].

Non mancano però anche decisioni “meno severe” in cui la motivazione critica la cattiva redazione del ricorso, ma poi benevolmente salva la ammissibilità del ricorso stesso (pur magari disattendendolo nel merito)[8]; oppure accorda un termine per rielaborare l’atto contenendolo nelle dimensioni massime stabilite (nel caso di specie dal regolamento emanato dal Presidente del Consiglio di Stato[9]).
 

Segue: Leale collaborazione e inammissibilità del ricorso per cassazione. Il maxiemendamento

Abbiamo nel precedente paragrafo dato atto di un indirizzo giurisprudenziale che dichiara inammissibili i ricorsi per cassazione che non rispondano ad alcuni requisiti minimi ricavabile dalla legge; abbiamo altresì sottolineato come appaia difficil2e inquadrare queste pronunce in una linea coerente; posto che è dato reperire un filone di pronunce più benevole nei confronti dei professionisti meno abili o meno fortunati.

Assume dunque un considerevole rilievo l’esame delle proposte maturate nella “Commissione Luiso” e solo parzialmente recepite nel “maxiemendamento”.

La “commissione Luiso” ha infatti imboccato una linea sostanzialista e contraria ad ogni formalismo.

Nella relazione finale approvata dalla Commissione si legge:

“All’obiettivo di rendere più celere ed efficiente lo svolgimento dell’attività processuale risponde anche la prevista introduzione nel codice di procedura civile e con portata generale del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali di parte e dei provvedimenti giudiziali. Peraltro, si è ritenuto opportuno, anche alla luce della giurisprudenza sovranazionale e costituzionale interna, inserire nella legge delega la previsione secondo cui, per quanto riguarda gli atti di parte, la violazione di tale principio non possa comportare sanzioni di invalidità o di inammissibilità dell’atto, ma possa essere presa in considerazione dal giudice solo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali” Perciò la Commissione propone di “prevedere l’introduzione, in via generale, del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e dei provvedimenti del giudice e, con riferimento alla sua applicazione agli atti di parte, prevedere che la sua violazione: 1) non comporti sanzioni di invalidità o di inammissibilità degli stessi; 2) rilevi [solo] ai fini della liquidazione delle spese giudiziali;

Ed all’art. 12 della proposta “Luiso” si legge: Articolo 12 (Disposizioni per l’efficienza dei procedimenti civili); nell’ ’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il decreto o i decreti legislativi recanti disposizioni per i procedimenti civili, dirette a rendere i predetti procedimenti più celeri ed efficienti, sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: g-quater) prevedere l’introduzione, in via generale, del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e dei provvedimenti del giudice e, con riferimento alla sua applicazione agli atti di parte, prevedere che la sua violazione: 1) non comporti sanzioni di invalidità o di inammissibilità degli stessi; 2) rilevi ai fini della liquidazione delle spese giudiziali”.

Nel maximendamento governativo si propone però soltanto:

12. all’articolo 12, comma 1,

a. sostituire le lettere d) ed e) con le seguenti:

«d) prevedere che i provvedimenti del giudice e gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate, possano essere compiuti nella forma più̀ idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, stabilendo che sia assicurata la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense;

e) prevedere il divieto di sanzioni sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo, e che della violazione delle specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali, si possa tener conto nella disciplina delle spese»;

“La proposta imporrà al legislatore delegato di introdurre nuove disposizioni che recepiscono e attuano i canoni della chiarezza e della sinteticità stabilendo che sia assicurata la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense. Alla lettera e) è fatto divieto di prevedere sanzioni sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo, e che della violazione delle specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali, si possa tener conto nella disciplina delle spese”.

La spinosa questione viene così posta nelle mani del legislatore delegato e , in conclusione, del giudice (e quindi della Cassazione stessa) cui competerà cogliere la portata di formule legislative che mi paiono contorte e di dubbia interpretazione.

Mi sembra infatti che il “divieto di sanzioni sulla validità degli atti” coinvolga di per sè solo le violazione “dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentito il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense”. Quindi per tutta la ampia residua casistica saranno gli interpreti a dover valutare se nelle aree non coperte dal divieto di incidere sulla validità degli atti ,le sanzioni che coinvolgono tale invalidità debbano trovare ed entro quali limiti obbligatoriamente applicazione.
 

Segue: Le misure che incidono sulle spese di causa

Nel sistema sanzionatorio per le violazioni del principio della “leale collaborazione” di cui il PNRR auspica il rafforzamento, ben possono anche rientrare la condanna alle spese di lite[10], il raddoppio del contributo unificato.

Notevoli potenzialità presenta anche l’art. 96 c.p.c. secondo cui se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza. Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziaria , o iscritta ipoteca giudiziale , oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”[11].

Il PNRR sembrava preannunciare un “giro di vite” del sistema sanzionatorio qui richiamato laddove ove afferma che con il Piano “si renderanno effettivi il principio di sinteticità degli atti e il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti (e i loro difensori) mediante strumenti premiali e l’individuazione di apposite sanzioni per l’ipotesi di non osservanza”.

Ma nel maxiemendamento è solo stabilito: 1) la condanna di cui all’articolo 96, terzo comma, del codice di procedura civile sia pronunciata nei confronti della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave;

2) con la medesima condanna possa essere disposto dal giudice, anche d’ufficio, a favore della controparte, il pagamento di una somma equitativamente determinata, non superiore al doppio delle spese liquidate e, a favore della cassa ammende, il pagamento di una somma in misura non superiore a cinque volte il contributo unificato o, in caso di esenzione di quest’ultimo, non superiore nel massimo a cinque volte il contributo dovuto per le cause di valore indeterminabile.»

 

La leale collaborazione tra giudici e avvocati

Concludo queste brevi considerazioni ricordando che forme di “leale collaborazione” possono ben coinvolgere la figura del giudice, come appar ovvio nella fase di merito; per la Cassazione sottolineo l’esistenza di forme di anticipazione del pensiero del relatore che offrono ai difensori la possibilità di redigere note critiche “mirate”, più efficaci proprio per via della loro specificità.

Nella procedura camerale presso la Sesta sezione (che in base al maxiemendameto dovrebbe essere soppressa), il relatore deve formulare una proposta indirizzata al coordinatore della sua sottosezione. L’abrogato testo dell’art. 380-bis – anteriore alla riforma di cui alla legge n. 197 del 2016 – prevedeva che il consigliere relatore dovesse depositare in cancelleria una «relazione» contenente la «concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia»; tale relazione doveva poi essere notificata agli avvocati delle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio. E’ però a molti, ma non a me[12], parsa illogica la previsione normativa che imponeva al relatore di anticipare “monocraticamente” una decisione che sarebbe stata poi comunque “collegiale”. Con la riforma del rito operata dalla novella del 2016, l’art. 380-bis è stato interamente sostituito: ora il relatore deve limitarsi a formulare una «proposta» di fissazione dell’adunanza camerale indirizzata al coordinatore della sottosezione. Quest’ultimo, sulla base di tale proposta, emette decreto, che, oltre a fissare l'adunanza camerale presso la sottosezione, deve indicare «se è stata ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso». È oggetto di discussione se la proposta del relatore debba limitarsi – come sembrerebbe, stando alla lettera della norma – ad indicare l'esito del giudizio (“inammissibilità”, “manifesta fondatezza” o “manifesta infondatezza”) o debba spiegare anche le ragioni di tale esito. Il punto n. 5 del Protocollo tra la Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l'Avvocatura generale dello Stato, sottoscritto il 15 dicembre 2016, ha previsto che la proposta di declaratoria di “inammissibilità” menzioni la norma di riferimento e che le proposte di accoglimento o di rigetto, rispettivamente per “manifesta fondatezza” o “manifesta infondatezza”, richiamino i pertinenti riferimenti giurisprudenziali. Il decreto presidenziale deve essere notificato almeno venti giorni prima dell'adunanza ai difensori delle parti, i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima (così il nuovo testo del 2° comma dell'art. 380 bis cod. proc. civ.). Secondo la norma, la proposta del relatore forse non dovrebbe essere notificata alle parti, essendo un atto interno al rapporto relatore-presidente. Nella prassi, tuttavia la proposta del relatore viene notificata unitamente al decreto presidenziale. E mi pare che la conoscenza di questa proposta costituisca una sia pur ridotta forma di collaborazione fra le parti.
 

Funzione nomofilattica della Cassazione e certezza del diritto

Dopo la riforma del 2016, la camera di consiglio è venuta ad essere una riunione di giudici destinata esclusivamente alla deliberazione. E il contraddittorio tra le parti è assicurato, quando si utilizza tale procedura, attraverso le memorie che i difensori possono presentare sino a cinque giorni prima dell'adunanza[13]. Per cui il confronto diretto fra le parti avanti al giudice sopravvive in cassazione solo più in caso di pubblica udienza[14]; che mi pare sia obbligatoria esclusivamente ove il resistente non costituito rivendichi il diritto garantitogli all’art. 370 cpc a partecipare alla “discussione orale”.

A loro volta, le riforme proposte con il “maxiemendamento” sono volte -sotto un primo profilo- a ridurre il flusso degli accessi attraverso più rigide formalità dei ricorsi, tali da facilitare il lavoro del giudice e dia liberarlo dall’onere di esaminare i ricorsi mal impostati; sotto un ulteriore profilo, tendono ad accrescere il numero dei processi definiti, vuoi attraverso proposte monocratiche che chiudono il processo se nessuno le contesta, vuoi con decisioni prese al termine della camera di consiglio, con ordinanze, “succintamente motivate e immediatamente depositate in cancelleria” (dunque già sostanzialmente preparate prima della udienza); ed infine, addirittura, tagliando i tempi del confronto dialettico fra le parti e limitando la celebrazione dell’udienza pubblica, rinunciando cioè alla più elevata manifestazione della dialettica processuale salvo i soli casi in cui vi sia da decidere una “questione di diritto di particolare rilevanza”.

Queste misure sembra richiedano, per produrre risultati adeguati, il rafforzamento di una “comune cultura” dei consiglieri che eviti imbarazzanti contraddizioni non meditate e verificate da una riflessione collettiva (qualche volta il consapevole dissenso sopravvive anche ad un aperto e chiarificatore confronto).

Tanto per fare un esempio, immaginiamo il subbuglio che potrebbe verificarsi se contribuenti che abbiano accettato la proposta sfavorevole del Giudice (possiamo qualificarlo relatore?; o non invece “decisore”) venissero successivamente a sapere che altri nella loro stessa situazione hanno vinto. E questi contrasti non fossero eccezionali e sporadici, ma frequenti (come sarebbe agevole esemplificare citando attuali casi concreti). Non è del resto concepibile che i magistrati destinati a svolgere la funzione di filtro non si incontrino e consultino fra di loro per giungere ad una visione comune (anche se non del tutto uniforme) circa le ipotesi di inammissibilità, manifesta fondatezza, manifesta infondatezza dei ricorsi.

Lo stesso “interpello” della Cassazione da parte dei giudici di merito, proposto sia dalla “Commissione Luiso”, sia dalla “Commissione della Cananea” costituirebbe una poco utile complicazione se non accadesse che, almeno d’ordinario, la decisione anticipata delle Sezioni Unite della Corte fosse la ragionevole premessa di un futuro indirizzo. E similmente non avrebbero alcuna utile portata e assumerebbero un significato quasi derisorio le sentenze emesse in materia tributaria dalla Cassazione (a Sezioni Unite!) “nell’interesse della legge” d’ufficio o su ricorso del Procuratore Generale della Corte di Cassazione in base all’art. 363 bis c.p.c. proposto dalla “Commissione della Cananea”[15].
 

La riflessione all’interno della Corte di Cassazione: verso uno “stare decisis”?. Governo della Magistratura e Corte di Cassazione.

Sia ben chiaro, non si auspica l’avvento di un giuridico “stare decisis” (che del resto è fuori dalle ipotesi della riforma), ma una convergenza spontanea frutto del “discutere insieme” del sondare criteri di ragionamento comuni che rendano possibile una convergenza fra mentalità diverse, fra differenti culture di partenza, fra (perché no?) ideologie politiche contrastanti.

Simile aspirazione ad una collettiva elaborazione degli indirizzi giurisprudenziali è già oggi presente nella consapevolezza dei magistrati; ancorchè sia frenata dalle esigenze pratiche della realtà di un flusso imponente di ricorsi. E costituisce un profilo tutt’ora valido dell’art. art. 65, comma 1, T.U. sull’Ordinamento giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 secondo cui la Corte di Cassazione assicura “l’uniforme interpretazione della legge” da parte della giustizia ordinaria e della giustizia tributaria, ancorchè la Cassazione non possa più dirsi “organo supremo della giustizia”, a fronte del ruolo attribuiti dai successivi assetti ordinamentali alla Corte Costituzionale, alla Corte Europea di Giustizia, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Mentre le riforme dell’ordinamento giudiziario determinate dalle leggi "Breganze" (25 luglio 1966, n. 570 sulla nomina a magistrato di Corte d'Appello) e "Breganzone" (20 dicembre 1973, n. 831, sulla nomina a Magistrato di Cassazione) hanno abolito esami e scrutini gestiti da commissioni composte da magistrati di Cassazione, ed hanno previsto promozioni (ad essere precisi, aumenti di stipendio) “a ruolo aperto”, cioè in numero eccedente rispetto ai posti effettivamente disponibili. Ne è conseguita una riforma anche del sistema di composizione e di elezione del Consiglio Superiore, fondata sul principio del pari valore di ogni voto e perciò sulla prevalenza nel Consiglio dei componenti eletti dai (ben più numerosi) giudici di merito[16].

Queste radicali modifiche ordinamentali non hanno però cancellato quella funzione nomofilattica della Corte di Cassazione che determina l’esistenza di uno strumento tecnico da utilizzare nell’ argomentazione giuridica: richiamare una “massima” favorevole della Corte Suprema, è ancor oggi (pur se certo meno che nel 1941) un ottimo argomento a favore di chi lo invoca nella discussione.

Inoltre, il legislatore ha mostrato di voler ribadire il ruolo della Corte di Cassazione nel perseguire la certezza del diritto, sia attribuendo un valore particolare ai principi affermati dalle Sezioni Unite, come disposto nell’art. 1 della legge 80/2005 di conversione del D. L. 35/2006 in cui si prevede: “il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite vincola le sezioni semplici. Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio, rimette alle sezioni unite, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. Sia e soprattutto confermando e ribadendo la possibilità,di cui già abbiamo parlato, che la Corte, su sollecitazione del Procuratore Generale[17] o anche d’ufficio enunci il principio di diritto che regolerebbe il caso concreto “quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile e la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza”. Una possibilità che la Cassazione nella articolazione delle Sezioni Unite ha utilizzato anche prescindendo dal requisito secondo cui le questioni debbono aver formato oggetto di un ricorso ancorchè inammissibile[18] emanando sentenze che tengono il luogo di leggi organiche (ad esempio in tema di litisconsorzio nel processo tributario con la fondamentale sentenza n. 14815 del 4 giugno 2008 Pres. Carbone Rel. Merone) ; il che poi non è tanto strano posto che, a sua volta, il legislatore ama emanare norme che per ristrettezza del loro oggetto tengono le veci di sentenze.

Resta fermo che “l’affermazione della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”, e proprio la irrilevanza pratica della pronuncia della Corte ne sottolinea l’importanza nomofilattica; posto che non viene intaccato il principio costituzionale della soggezione “solo alla legge” del singolo giudice.

Dunque si evidenzia che le indicazioni della Cassazione vengono accettate (se lo sono) auctoritate rationis e non ratione auctoritatis.

 

CENNI SULLE PROPOSTE RELATIVE ALLA SEZIONE TRIBUTARIA DELLA CASSAZIONE

 

Come noto, in Cassazione è costituita, con decreto del Primo Presidente Zucconi Galli Fonseca del 19 giugno 1999, n. 61, emesso in attuazione di un voto dell’Assemblea Generale del 1999[19], la Sezione tributaria, o quinta Sezione civile. Ci si è resi conto che con la attuazione del D. Lgs. 545/1992, e la conseguente soppressione della Commissione Tributaria Centrale nonché la introduzione del ricorso per cassazione contro le decisioni rese dalle Commissioni tributarie regionali, la Corte di Cassazione sarebbe stata investita (come in effetti è avvenuto) di un flusso di ricorsi tributari tale da rendere impossibile la loro gestione all’interno della prima sezione civile.

Ora da più parti si auspica un intervento legislativo simile a quello realizzato nel 1973 con la creazione della sezione lavoro.

Simile ratifica legislativa potrebbe poi essere l’occasione per emanare disposizioni che pongano un qualche rimedio agli inconvenienti che nascono dallo scarso gradimento che la sezione tributaria raccoglie presso i magistrati di cassazione e dal conseguente rapido turn over fra i magistrati della “quinta sezione”; favorendo con questa maggiore stabilità la formazione di indirizzi giurisprudenziali più omogenei[20].

Problemi più complessi ed incisivi nascono (o meglio sorgerebbero) ove venisse accolta ed attuata la proposta di costituire una vera e propria “quinta giurisdizione” composta di magistrati di carriera dediti esclusivamente alle controverse tributarie.                     

Quale rapporto è possibili ipotizzare fra la “quinta giurisdizione” e la Corte di Cassazione?; è una difficoltà talmente insormontabile da impedire la stessa creazione della “quinta giurisdizione” o comunque da condizionarne la nascita?

Noi ci troveremmo infatti ad avere due strutture difficilmente coordinabili: un corpo di qualificati magistrati tributari di merito le cui sentenze sarebbero ricorribili avanti ad una Corte di legittimità composta da magistrati ordinari, che nei primi decenni della loro carriera non si sono occupati (o si sono occupati solo marginalmente ove sopravvivano i giudici part time) di questioni tributarie. In verità la soluzione più coerente con il disegno costituzionale mi parrebbe il conferimento della materia tributaria a sezioni specializzate dei Tribunali e delle Corti d’Appello Civili; ma questa prospettiva è stata unanimemente respinta in quanto rischierebbe di aggravare ulteriormente la crisi della giustizia civile.

Non resta quindi che la soluzione di prevedere che i giudici tributari “di carriera” possano in qualche modo ed in qualche misura entrare a far parte, aver voce in capitolo, nella sezione tributaria della Cassazione[21].

Soluzione apparentemente semplice ma che rischia di pregiudicare la unitarietà della Corte di Cassazione in cui tutti i magistrati addetti possono esercitare il loro magistero in qualunque articolazione della Corte, mentre i “consiglieri tributari” opererebbero in una sola sezione specializzata. Del resto, la sezione tributaria della Corte è - e resterebbe- giudice dell’intero rapporto sostanziale e processuale con funzione nomofilattica anche sulle questioni non tributarie.

Il problema si aggraverebbe ove la disciplina speciale per la Sezione Tributaria ne facesse un corpo sostanzialmente separato rispetto al resto della Corte creando una sorta di “nuova giurisdizione” o comunque spezzando la unitarietà nomofilattica della Cassazione.

Pericolo che mi pare evidente ove si approvasse il PDL Savino del 2014[22] che, come sottolinea la "Relazione della Cananea"  seguendo una indicazione del prof. Cesare Glendi specifica: “un’apposita sezione tributaria della Corte di Cassazione, composta da trenta giudici, ripartiti in cinque sottosezioni in ragione della materia, di cui la prima presieduta dal presidente della sezione tributaria e le altre da uno dei loro componenti, con l’espressa previsione che il presidente della sezione tributaria della Corte di cassazione può disporre che i ricorsi che presentano questioni di diritto già decise in senso difforme dalle sottosezioni e quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza siano decisi da un collegio unitariamente composto dai presidenti delle cinque sottosezioni o, in loro vece, da un componente di ciascuna sottosezione designato dal rispettivo presidente. Una nuova disciplina del procedimento davanti alla sezione tributaria della Corte di cassazione mantenendo solo alcune delle disposizioni previste dal codice di procedura civile e adeguando quelle conservate, in modo da garantire una ragionevolmente contenuta diversità del terzo grado del processo tributario rispetto a quello interamente disciplinato dal codice di procedura civile, privilegiando in ogni caso il ruolo nomofilattico della sezione tributaria della Corte di cassazione quale organo apicale della giurisdizione tributaria.”

Ma non ritengo opportuno addentrarmi in tutta la complessa casistica ipotizzabile; mi pare cioè logico attendere, su un tema tanto importante e sicuramente non esclusivamente tecnico, le decisioni del potere politico. E trarne le conseguenze.

Soltanto sottolineo come l’ipotesi di creare nelle Commissioni Tributarie Regionali sezioni composte di magistrati ordinari (oltre che amministrativi e contabili) fuori ruolo ed incaricati di decidere le controversie di maggior valore (nonché presumibilmente presiedere la Commissione), risolverebbe, almeno provvisoriamente, il nodo consentendo di attingere da questa sezione di merito consiglieri destinati alla sezione tributaria della Cassazione

 

LA PIU’ RILEVANTE NOVITA’: VERSO LA CASSAZIONE MONOCRATICA?

 

La maggiore innovazione relativa al processo di cassazione enunciata nel “maxiemendamento” seguito alla “relazione Luiso” (sostanzialmente condivisa dalla relazione “della Cananea” sulla giustizia Tributaria) mi pare scolpita nella lettera e dell’art. 6bis che introduce

 “un procedimento accelerato, rispetto alla ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente fondati o infondati, prevedendo:

1) che il giudice della Corte formuli una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta fondatezza o infondatezza ravvisata;

2) che la proposta sia comunicata agli avvocati delle parti;

3) che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato e il giudice pronunci decreto di estinzione, liquidando le spese, con esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1-quater, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.

Sul piano formale la disposizione contiene una evidente disarmonia tra la previsione che il procedimento accelerato coinvolga anche i casi di “manifesta fondatezza del ricorso” e la affermazione secondo cui in caso di mancata richiesta di fissazione della camera di consiglio “il giudice pronuncia (sempre e soltanto) decreto di estinzione”. Infatti in caso di “manifesta fondatezza del ricorso” il decreto di estinzione (della mera fase di cassazione) dovrà quasi sempre contenere un qualcos’altro cioè il rinvio al giudice di merito o la decisione nel merito (384, 2° comma c.p.c.). Si dovrà inoltre chiarire che in caso di rinvio il giudice di merito è vincolato ad attenersi alla motivazione del Giudice unico di Cassazione; anche se sembra ovvia la risposta positiva.

Un ulteriore non piccolo problema nasce quando ci domandiamo in quale rapporto si pongano questi decreti di estinzione con il “diritto vivente”, che trova nella Corte di cassazione la sua fonte più autorevole[23],

Il quesito ha in primo luogo un profilo teorico, ma pone anche rilevanti problemi pratici; all’ avvocato preme sapere quale è l’orientamento della Corte in tema di inammissibilità del ricorso, nella interpretazione delle leggi, e quindi avrà un rilevante interesse a conoscere l’indirizzo sotteso ad ogni decreto di estinzione; si dovrà procedere ad una massimazione delle proposte di definizione andate buon fine? Direi di sì . L’interesse degli Avvocati esprime un richiesta di trasparenza e conoscibilità che è comune alle esigenze della “società civile”

Emerge qui un ulteriore nodo di un certo interesse; siamo tutti portati a dar poco peso, a trascurare le pronunce emesse con procedure semplificate in quanto di soluzione “evidente” cioè “pacifica”, ma in realtà queste decisioni meritano sovente un secondo sguardo e magari una massimazione (come oggi accade per le ordinanze della sezione sesta civile, che verrà soppressa e sostanzialmente sostituita dalla procedura di cui ci andiamo occupando) perché attestano l’esistenza di un indirizzo consolidato, svolgono il ruolo in antico proprio dalle “massime consolidate” tali attestate dal Direttore del Massimario.

Quanto specificamente alle difficoltà della classe forense (e quindi del diritto delle parti ad un giudizio completo e collegiale) non si può nascondere il timore che il collegio cui la parte dissenziente si rivolga si appiattisca sulla proposta del giudice unico e magari calchi la mano nella liquidazione delle spese o nella applicazione dell’art. 96 c.c.. In fondo se la riforma non produrrà il giustamente agognato effetto deflattivo la “colpa” sarà addebitata ai giudici della Corte di Cassazione.

Del resto, mi pare che la riforma renda opportuno iniziative del presidente della sezione tributaria della Cassazione (e delle altre sezioni) per promuovere incontri fra i colleghi per elaborare (pur nella ovvia totale autonomia dei giudicanti) in qualche misura delle linee condivise che incanalino la gestione di questo rilevante potere.


[1] Ord. n. 15001 del 28 maggio 2021 (emessa il 10 novembre 2020) della Corte Cass., Sez. II - Pres. Manna Rel. Picaroni In caso di ricezione di messaggio PEC i cui allegati risultino in tutto o in parte illeggibili «spetta al destinatario, in un'ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all'utilizzo dello strumento telematico» (Cass. 31/10/2017, n. 25819): il ricorso risulta pertanto tardivo e viene dichiarato inammissibile.

[2] Sul difficile rapporto fra dovere di collaborazione con la Pubblica Autorità e diritto al silenzio si vedano le recenti sentenze della Corte Europea di Giustizia (Grande Sezione) del 2 febbraio 2021, DB contro Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte costituzionale italiana, e la sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 30 aprile 2021. Nella giurisprudenza della Cassazione cfr. Cass. 15 febbraio 2021 n. 3841, sul dovere di non ostacolare i controlli anagrafici.

[3] E dunque non è consentito alla Amministrazione negare una agevolazione fiscale adducendo la mancanza di un documento in possesso della P.A. (sentenza n. 19316 del 18 luglio 2019 della Cassazione; o trattenere nell’ufficio non competente una pratica senza trasmetterla a quello competente (Cass. 22 marzo 2019, n. 8178

[4] Il più incisivo accoglimento di questa esigenza si è avuta con la breve vita dell’art. 366bis del codice di procedura civile introdotto dall’art. 6 del d. Lgs 40/2006 cpc e abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69. Secondo tale articolo “nei casi previsti dall'articolo 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4), l'illustrazione di ciascun motivo si doveva concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall'articolo 360, primo comma, n. 5), l'illustrazione di ciascun motivo doveva contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Poiché la l. 69/2009 è entrata in vigore nel luglio 2009 e le disposizioni in essa contenute «si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore della medesima legge» la legge sui “quesiti” ha ancora avuto applicazione ben oltre il luglio del 2009 (si veda la sentenza n. 7732/2014 della Corte di Cassazione).

 Non sembra ulteriormente opportuno indugiare sull’art. 366-bis, che pure si è rivelato assai utile ad agevolare il lavoro dei collegi giudicanti, in quanto -come già sottolineato- la riforma del 2009 ha optato per la sua eliminazione, trasferendone la finalità deflattiva al nuovo art. 360-bis - c.d. filtro di Cassazione; e dalle prime dichiarazioni del Presidente della commissione sul processo civile sembra sia escluso il ricorso massiccio alla misura della inammissibilità.

[5] Ord. n. 18719 del 1° luglio 2021 (emessa il 27 aprile 2021) della Corte Cass., Sez. VI-3 - Pres. Scrima Rel. Gorgoni

4. Il ricorso è incorso in plurime ragioni di inammissibilità.

Assume carattere assorbente quella di essere stato redatto con una tecnica non rispettosa delle prescrizioni di cui all'art. 366 n. 3 c.p.c. Il ricorso non contiene una parte dedicata all'assolvimento del requisito dell'esposizione del fatto di cui all'art. 366 n. 3 c.p.c., ma procede, dopo l'intestazione e l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata, con l'illustrazione dei motivi. Dalla lettura dei motivi non emerge una percezione del fatto sostanziale e processuale che consenta di reputare osservato il requisito di cui all'art. 366 n. 3 c.p.c., in quanto i riferimenti al fatto sostanziale e processuale contenuti nella loro illustrazione sono del tutto frammentari.

Deve ribadirsi che l'esposizione sommaria dei fatti di causa, essendo considerata dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve essere tale da garantire a questa Corte di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale conseguente, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti purn suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata. Stante tale funzione, per soddisfare il requisito imposto dall'articolo 366 comma primo n. 3 cod. proc. civ. è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l'indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed in fine del tenore della sentenza impugnata (Cass., Sez. Un., n. 11653 del 18/05/2006 e 3/11/2020 n.24432)

Ebbene, nel ricorso si fa riferimento a due contratti di locazione, ma si ignora tutto degli stessi ed in particolare come si pongano l'uno rispetto all'altro, pur essendo, come si evince dall'ultimo motivo, una questione dirimente; non si conosce il contenuto preciso delle domande formulate dall'attore, siccome delle difese del locatore - destinataria del ricorso -; non è riportata la statuizione del Tribunale (a p. 3 si riferisce che il CTU aveva quantificato una riduzione del canone per tutto il periodo locativo di euro 5034,00, a p. 6 si legge che il conduttore avrebbe corrisposto, secondo il CTU, un maggior canone di complessivi euro 8.804,84, avendo ricevuto un immobile inferiore rispetto a quello individuato nei due contratti di locazione, ma non è dato sapere quale sia stato il dispositivo della sentenza); non sono stati riportati i motivi di appello, né la statuizione del giudice di secondo grado.

[6] Sentenza n. 11339 del 29 aprile 2021, che dichiara inammissibile un ricorso di oltre 60 pagine scritte a spazio 1 e pressoché prive di margini), che dopo una prolissa esposizione dell'iter processuale, accompagnata da continui riferimenti a numerosissimi (118) documenti di cui sono menzionate solo talune singolari sigle, solo in una sorta di laconica premessa (pag. 16) espone i sedici motivi di ricorso riferendoli assertivamente ai numeri 3 e 5 dell'art. 360, comma 1, c.p.c., raggruppandoli per sigle (MR1, 2; VP, VA, MP, AP e MI) ciascuna con varie e plurime geminazioni, contenenti continue commistioni di fatto e diritto; indi procede all'esposizione dei vari motivi senza denunciare esattamente ed argomentare adeguatamente in ordine alle norme violate, e sempre con continui riferimenti ad una notevole congerie di fatti e documenti, in sostanza meramente indicati ma non specificati o chiariti nell'esposizione delle doglianze, in cui peraltro sono inestricabilmente contenuti elementi di fatto e di diritto senza alcun iter logico intellegibile. Inoltre la sentenza afferma che , in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall'art. 3, comma 2, del cod. proc. amm. (secondo cui «il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica»), esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, esponendo il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell'intera impugnazione o del singolo motivo di ricorso. Ordinanza n. 26937 del 25 novembre 2020: il ricorso per cassazione redatto mediante la giustapposizione di una serie di documenti integralmente riprodotti è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, il quale postula che l'enunciazione dei motivi e delle relative argomentazioni sia espressa mediante un discorso linguistico organizzato in virtù di un concatenazione sintattica di parole, frasi e periodi, sicché, senza escludere radicalmente che nel contesto dell'atto siano inseriti documenti finalizzati alla migliore comprensione del testo, non può essere demandato all'interprete di ricercarne gli elementi rilevanti all'interno dei menzionati documenti, se del caso ricostruendo una connessione logica tra gli stessi, non esplicitamente affermata dalla parte. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui era stato impugnato il rigetto di un'opposizione agli atti esecutivi proposta avverso l'ordinanza del giudice dell'esecuzione che aveva respinto, per indebita parcellizzazione del credito, un'istanza di assegnazione preceduta da una pluralità di precetti, in quanto dal contenuto argomentativo dell'atto non era possibile trarre la puntuale indicazione delle date di notificazione dei diversi precetti, non potendosi richiedere al giudice di ricostruirle attraverso l'esame del contenuto dei documenti interpolati nel ricorso medesimo).

[7] Cass. civ. [ord.], sez. trib., 13-01-2021, n. 342: l’'onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall'art. 366, 1° comma, n. 4 c.p.c., qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in iudicando) per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata. Si veda anche l’ordinanza n. 13334 del 13 maggio 2021 secondo cui, invece, l'eccezione di inammissibilità del ricorso in quanto di tipo c.d. "farcito" non è fondata, dovendosi ribadire il principio di diritto che «In materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d'inammissibilità dell'impugnazione dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l'esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati» (Cass., Sez. U, n. 9100 del 06/05/2015, Rv. 635452 - 01; successive conformi. Cass., n. 7009 dei 17/03/2017, Rv. 643681 - 01; Cass., n. 20335 del 24/08/2017. Rv. 645601 - 01). Ciò posto, va rilevato che quale censura comune ai tre complessi motivi proposti è la denuncia -ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.- della nullità della sentenza impugnata per vizio motivazionale "assoluto" in relazione ad ogni singolo profilo della materia del contendere (violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. 546/1992, 118, disp. att. Cod. proc. civ., 111, sesto comma, Cost.).Tali censure, da esaminare pregiudizialmente come "ragione più liquida" e congiuntamente per connessione evidente, sono manifestamente fondate.

[8] Cfr. la sentenza della Cassazione n. 6965 del 12 marzo 2021 che al fine di non “sorprendere” le parti in una fase caratterizzata dall’assenza di una applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle suddette conseguenze delle condotte difformi (salvo alcuni sporadici ma significativi precedenti: cfr. Sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636.; Sez. V, 12 giugno 2017, n. 2852), accorda , nel rispetto del principio di leale collaborazione (art. 2, comma 2, del c.p.a.), invitare le parti a riformulare le difese nei predetti limiti dimensionali, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuovi rispetto a quelli già dedotti.

[9] Così la ordinanza 3006 della sesta sezione del Consiglio di Stato del 13 aprile 2021

[10] Cfr, la sentenza della Cassazione n. 12856 13 maggio 2021.

[11] In giurisprudenza si veda da ultimo l’ordinanza della Cassazione n. 9951 15 aprile 2021 (che applica però l’allora vigente art. 385 c.p.c. L’ordinanza così motiva: “conclamate e manifeste ragioni di inammissibilità del ricorso giustificano la condanna dei ricorrenti principali e di quella incidentale, ai sensi dell'art. 385, comma quarto, cod. proc. civ. (applicabile nella fattispecie ratione temporis), al pagamento di una «somma equitativamente determinata» (come da dispositivo), in funzione sanzionatoria dell'abuso del processo (v. Corte Cost. n. 152 del 2016; Cass. Sez. U. 05/07/2017, n. 16601). Non può a tal fine non attribuirsi rilievo alla prospettazione -peraltro attraverso una pletorica articolazione - di motivi del tutto generici e inconferenti, privi di alcun riferimento critico alla motivazione della sentenza impugnata. Tutto ciò segna l'iniziativa processuale, nel suo complesso, quale frutto di colpa grave, così valutabile - come è stato detto - «in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonché con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illiceità dell'abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali» (v. Cass. 14/10/2016, n. 20732; Cass. 21/07/2016, n. 15017; Cass. 22/02/2016, n. 3376; Cass. 7/10/2013, n. 22812)”. Pertanto il provvedimento oltre che condannare i ricorrenti alle spese li condanna altresì tutti, in solido, al pagamento della somma di Euro 6.000 ai sensi dell'art. 385, comma quarto, cod. proc. civ..

Sentenza 3830 del 15 febbraio 2021: la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva ravvisato un'ipotesi di abuso del processo nella condotta processuale della parte che aveva adito sia il giudice amministrativo che il giudice ordinario per ottenere l'inserimento nelle graduatorie ad esaurimento dei docenti in virtù del possesso del diploma magistrale, senza considerare che, all'epoca della domanda, la questione era controversa non solo nel merito ma anche in relazione alla giurisdizione).

[12] Nella mia esperienza di giudice in Cassazione, il confronto diretto fra il relatore ed i legali ha dato più volte risultati positivi inducendomi a modificare l’opinione espressa nella relazione

[13] Ulteriore innovazione della riforma è stata l’esclusione del pubblico ministero dal procedimento dinanzi alla Sesta sezione

[14] Secondo la ordinanza della Cassazione n. 26480 del 20 novembre 2020, la discussione in pubblica udienza non è un diritto delle parti e quindi viene discrezionalmente concesso o negato dalla Corte. E dunque la Corte ben può affrontare in camera di consiglio anche le questioni nuove (ordinanza n. 8757 del 30 marzo 2021). Invece secondo il Consiglio di Stato il contradditorio cartolare coatto non è conforme ai principi della Costituzione e della Carte Europea dei diritti dell’Uomo (ordinanza n.2539 del 21 aprile 2020)

[15] Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione può proporre ricorso per chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge un principio di diritto nella materia tributaria in presenza dei seguenti presupposti:

a)           la questione di diritto presenti particolari difficoltà interpretative e vi siano pronunce contrastanti delle Commissioni Tributarie Provinciali o Regionali;

b)           la questione di diritto sia nuova o perché avente ad oggetto una norma di nuova introduzione o perché non trattata in precedenza dalla Corte di Cassazione.

c)           la questione di diritto per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.

Il ricorso del Procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è depositato presso la cancelleria della Corte ed è rivolto al primo presidente, il quale con proprio decreto lo dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al primo comma.

Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del ricorso nell’interesse della legge dinanzi alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto.

La pronuncia della Corte non ha effetto diretto sui provvedimenti dei giudici tributari.

[16]Mi sia consentito rinviare al mio scritto sulle leggi elettorali del CSM pubblicato sul Foro italiano. Qui mi limito a ricordare che la legge istitutiva del Consiglio Superiore conferiva ben 6 seggi (su 14 componenti magistrati) ai giudici di cassazione (circa il 6% del corpo elettorale) che assieme al Procuratore Generale ed al Primo Presidente della Corte di Cassazione (componenti di diritto) svolgevano un ruolo determinante all’interno dell’organo. Inoltre i giudici della Cassazione componevano le commissioni giudicanti dei concorsi e degli scrutini per la promozione. I mutamenti della legge elettorale ispirati al principio “un uomo un voto” tolsero il primato alla Cassazione e la ragion d’essere all’UMI che nel 1972 non elesse alcun componente del CSM. Quindi, pur avendo ancora nel 1976 - con il sistema proporzionale- conquistato 509 voti e un seggio al CSM, si sciolse e rifluì nella ANM, prima delle elezioni per il CSM del 1981.

[17] Si veda ,da ultimo, la sentenza delle Sezioni Unite n. 19427 dell’ 8 luglio 2021

[18] A questi limiti si è autosottoposta la sentenza delle Sezioni Unite n. 98392 del 24 maggio 2021 ( Pres. Curzio Rel. Lombardo) in cui si legge:

 Osservano le Sezioni Unite come non tutti i quesiti posti dall'ordinanza di rimessione pongano questioni la cui soluzione è necessaria ai fini della decisione del caso sottoposto; essi, pertanto, verranno esaminati dal Collegio nei limiti della loro rilevanza, ossia in quanto rappresentino un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l'enunciazione di principi di diritto utili alla soluzione delle questioni sottoposte con i motivi del ricorso in esame. Questa necessaria delimitazione delle questioni da trattare è legata alle funzioni ordinamentali e alle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, compito delle quali non è l'enunciazione di principi generali e astratti o di tesi teoriche su ogni possibile questione di diritto collegata al caso da decidersi, ma l'enunciazione di quei soli principi di diritto che risultano necessari alla decisione del caso della vita da decidersi (in questo senso già Cass., Sez. Un., n. 12564 del 22/05/2018); basti osservare che lo stesso "principio di diritto nell'interesse della legge", che la Corte di cassazione può essere chiamata ad enunciare ai sensi dell'art. 363 cod. proc. civ., deve comunque corrispondere alla regola giuridica alla quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia. Ciò premesso, può passarsi all'esame delle questioni sottoposte, nei limiti in cui la soluzione di esse rilevi ai fini della decisione del ricorso, secondo il loro ordine logico.

[19] Mi sia consentito ricordare che la relativa proposta è stata da me presentata alla Assemblea

[20] Osserva Maria Casola: “sul tema degli incentivi ai magistrati, quale strumento per indurre e stimolare la permanenza nello svolgimento di alcune particolari funzioni, avvertite come particolarmente onerose o disagevoli, nell’attuale sistema ordinamentale esistono due tipologie di strumenti, quelli di natura economica e quelli di natura curricolare. Gli incentivi economici sono uno strumento largamente impiegato per i magistrati trasferiti a sedi disagiate e di recente riconosciuti anche ai magistrati destinati alla pianta organica flessibile distrettuale. Gli incentivi di natura curricolare hanno rilievo sul piano ordinamentale e tabellare e possono consistere in titoli preferenziali o in punteggi aggiuntivi riconosciuti al magistrato per i suoi futuri percorsi professionali (es. per il conferimento di incarichi di dirigenza giudiziaria o per l’assegnazione alle sezioni della Corte). In entrambi i casi, la fonte di produzione giuridica della norma attributiva dell’incentivo dovrebbe essere di rango ordinario e dovrebbe fondarsi su un adeguato canone di ragionevolezza”. “quanto alla possibilità di incentivazione della permanenza presso la sezione tributaria, può ipotizzarsi il conferimento delle funzioni di presidente di sezione “tributaria” sulla base di requisiti attitudinali specifici quali l’esercizio delle funzioni di legittimità presso tale sezione per un determinato periodo (es. almeno quattro anni)”.

[21] ritengo di condividere l’opinione di Maria Casola secondo cui “la collocazione della Corte di Cassazione quale vertice della giurisdizione e titolare della funzione nomofilattica e la tassatività del sistema di reclutamento dei meriti insigni portano ad escludere che al suo interno possano operare giudici appartenenti a giurisdizioni diverse e, peraltro, soggetti a diverse regole di ordinamento giudiziario e di autogoverno (CSM, CPGA, CPCC). Peraltro, per tutti gli uffici giudiziari vale la possibilità di composizione solo da parte di magistrati ordinari e, nei casi previsti dalla legge, conformi all’art. 106 Cost. di persone estranee alla magistratura che assumono la veste di magistrato onorario uti cives, e non quali giudici o funzionari pubblici (art. 106, comma 2) Cost”.

[22] Si veda anche la proposta Pagliaro- Glendi DDL 988/S della XVII legislatura

[23] La Corte di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza della legge e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale» (art. 65, comma 1, T.U. sull’Ordinamento giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio 1941 n. 12)

LEGGI E SCARICA IN FORMATO .pdf

 

 
 
 
 
 
 

© 2009 - 2024 Associazione Magistratura Indipendente
C.F.: 97076130588
Via Milazzo, 22 - CAP 00165 - Roma, Italia
segreteria@magistraturaindipendente.it

 

    

CONTATTI
PRIVACY POLICY

RIVISTA ISSN 2532 - 4853 Il Diritto Vivente [on line]

 

Powered by Activart

 

Il Diritto Vivente utilizza cookies tecnici e di profilazione. Alcuni cookies essenziali potrebbero già essere attivi. Leggi come poter gestire i ns. cookies: Privacy Policy.
Clicca il pulsante per accettare i ns. cookies. Continuando la navigazione del sito, acconsenti all'utilizzo dei cookies essenziali.