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Magistratura Indipendente

PENALE  

Bene captum, male retentum

  Penale 
 sabato, 18 gennaio 2020

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Riflessioni in merito all’art. 270 c.p.p., in materia di circolazione endoprocedimentale delle intercettazioni, e a margine delle Sezioni Unite Cavallo

di FRANCESCO ALVINO, Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Vercelli

 
 

GLI ANTECEDENTI NORMATIVI DELL’ART. 270, comma I, c.p.p. 1988

La disciplina in materia di circolazione dei risultati delle intercettazioni ha trovato un primo referente normativo nell’art. 226 quater, comma VIII, c.p.p. 1930, che disponeva che “le notizie contenute nelle registrazioni e nei verbali” non potessero essere “utilizzate quali prove in procedimenti diversi da quelli per i quali [fossero] state raccolte”; la norma fu introdotta ad opera della L. 8 aprile 1974, n. 98, recante norme in materia di Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni; l’intervento legislativo, che introduceva una compiuta disciplina, in una materia particolarmente sensibile e presidiata dalle più intense garanzie costituzionali, quali la riserva di legge e di giurisdizione, colmava le evidenti lacune dell’abrogato codice di rito, che, nella sua stesura originaria -e precostituzionale-, in accordo del resto alla natura inquisitoria del rito allora codificato, non prevedeva norme modali né limitative in materia di intercettazioni, limitandosi a riconoscere agli ufficiali di polizia giudiziaria e al giudice la facoltà di “accedere agli uffici o agli impianti di pubblico servizio per trasmettere, intercettare o impedire comunicazioni prenderne cognizione o assumere altre informazioni” (artt. 226, comma III, e 339 c.p.p. 1930)[1], e che, in seguito alla L. 18 giugno 1955, n. 517, si limitava a prevedere, nell’interpolazione dello stesso art. 226 c.p.p. -e nell’evidente tentativo di stemperare i più radicali profili di contrasto tra la disciplina costituzionale e quella processuale[2]-, che alle operazioni di intercettazione potesse procedersi esclusivamente “previa autorizzazione dell’Autorità giudiziaria da concedersi con decreto motivato[3].

In assenza di norme che disciplinassero i limiti -in apparenza indiscriminati- all’impiego probatorio dei risultati captativi, fu la Corte costituzionale ad incaricarsi di ammonire che “nel processo [potesse] essere utilizzato solo il materiale [captativo] rilevante per l’imputazione di cui si discute”, puntualizzando che tale principio dovesse ritenersi immanente alla legge processuale e connaturale alla finalità stessa del processo -non potendo “essere acquisito agli atti se non il materiale probatorio rilevante per il giudizio”-, in ogni caso auspicando un intervento legislativo che predisponesse “un compiuto sistema -anche a garanzia di tutte le parti in causa- per l’eliminazione del materiale non pertinente” l’imputazione oggetto del giudizio[4].

L’auspicio manifestato dalla Corte -che in realtà aveva ad oggetto, propriamente, la prefigurazione legislativa di uno strumento procedurale che estromettesse dal procedimento le conversazioni irrilevanti a tutela della riservatezza dei terzi, non interessando, almeno direttamente, il diverso tema dell’impiego dei risultati captativi in vista dell’accertamento di nuovi reati che fossero emersi dall’ascolto delle conversazioni monitorate[5]- fu recepito dal legislatore che, a distanza di un anno[6], rielaborò funditus la disciplina delle intercettazioni -destinata, nei suoi aspetti essenziali, a transitare nel codice di rito del 1988-introducendo la norma di cui all’art. 226 quater c.p.p, il cui ottavo comma, come ricordato, disponeva che i risultati delle attività intercettative non potessero essere utilizzati come prova in procedimenti diversi da quelli in cui fossero state disposte. Dall’esame dei lavori parlamentari, peraltro, emergeva che il testo definitivo, nel riferirsi ai “procedimenti diversi”, emendasse il testo proposto dal relatore che, di contro, si riferiva ai “procedimenti relativi a reati diversi da quelli per i quali si procede[7].

La legislazione di emergenza[8], peraltro, avrebbe interessato anche la disposizione de qua, introducendovi una clausola di esclusione, sì da consentire l’impiego dei risultati captativi quali prove anche in procedimenti diversi da quelli in cui fossero state autorizzate le operazioni intercettative, a condizione che si trattasse di reati per i quali il mandato di cattura fosse obbligatorio, anche soltanto per taluno degli imputati.

La giurisprudenza affermatasi nel vigore dell’art. 226 quater c.p.p. 1930 manifestò un orientamento interpretativo non univoco, quanto alla decrittazione della locuzione “diverso procedimento”, che compariva nella disposizione di cui all’art. 226 quater c.p.p. 1930, e che, come testimonia il recente intervento delle Sezioni Unite, avrebbe continuato ad alimentare dissidi interpretativi: se, immediatamente dopo l’introduzione della norma, prevalse l’indirizzo secondo cui le intercettazioni telefoniche, legittimamente eseguite, non avrebbero potuto trovare un impiego processuale come prova -ma al più quali notitia criminis- rispetto a reati diversi da quelli per i quali fossero state autorizzate[9], la riflessione giurisprudenziale successiva avrebbe condotto ad un esito interpretativo diverso, che dalla legittimità della captazione, autorizzata dall’Autorità giudiziaria, argomentava un, apparentemente, incondizionato impiego dei risultati captativi nei confronti di qualsiasi soggetto a carico del quale esse avessero consentito l’accertamento di elementi di responsabilità, indipendentemente dal fatto che la captazione fosse stata “richiesta ed autorizzata per fatti-reati diversi da quelli che hanno dato luogo al procedimento[10].

 

LA TRANSIZIONE NORMATIVA E LA SCELTA DEL CODICE 1988

Il testo della disposizione di cui all’art. 226 quater, comma VIII, c.p.p., immutato -se non nella sostituzione dell’arresto obbligatorio al mandato di cattura, quale criterio identificativo dei reati permeabili all’ingresso dei risultati captativi aliunde acquisiti, e nella introduzione del requisito della indispensabilità, ai fini dell’accertamento del reato ulteriore, quale condizione di impiego dei risultati captativi nel procedimento ad quem-[11], è transitato nell’art. 270, comma I, c.p.p. 1988, il cui testo non avrebbe subito, nel corso dei decenni, alcuna revisione da parte del legislatore né ad opera della giurisprudenza costituzionale.

Il legislatore delegante, in proposito, si limitava a sollecitare il legislatore delegato perché -in evidente discontinuità rispetto al Progetto del 1978 che aveva escluso la migrazione dei risultati captativi verso procedimenti diversi-  predeterminasse i reati per i quali fossero ammesse le intercettazioni e “quelli per i quali [fossero]  utilizzabili le intercettazioni effettuate in un diverso processo”; né, sul tema, si colgono particolari spunti di interesse nella Relazione al progetto preliminare, che non illustrava argomentatamente la soluzione prescelta, che, come ricordato, consentiva l’impiego extraprocedimentale dei contenuti oggetto di captazione, quando si rivelasse indispensabile per l’accertamento di delitti per i quali fosse previsto in termini di obbligatorietà l’arresto in flagranza.

 

IL DIVERSO PROCEDIMENTO E IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE

A fronte di un dispositivo normativo immutato nel nucleo letterale all’origine delle frizioni interpretative emerse nel vigore dell’abrogato codice, erano prevedibilmnete destinati a riproporsi i contrasti, in sede applicativa, in merito all’esatta comprensione dei limiti operativi e funzionali della previsione di cui all’art. 270, comma I, c.p.p. Il momento di tensione si è legato, come ricordato, alla nozione di procedimento diverso, nozione cui direttamente è correlata la circolazione dei risultati captativi -e quindi il perimetro di operatività della previsione di cui all’art. 270 c.p.p.-, atteso che l’alterità del procedimento si pone, per espresso debito normativo, quale condizione ostativa alla migrabilità delle captazioni, a meno che il procedimento ad quem non riguardi reati per i quali sia previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, rispetto ai quali i risultati intercettativi possono essere impiegati, ai fini della prova, quando si rivelino “indispensabili” ai fini dell’accertamento del fatto. In specie, il contrasto si è cronicizzato in relazione alla trasferibilità -ed alle eventuali condizioni di trasferibilità- dei contenuti captativi -legittimamente appresi nel corso di attività di intercettazione- ai reati che fossero emersi nel corso delle operazioni e, quindi, trattati all’interno di un unico procedimento, inteso quale unico incartamento procedimentale, e quindi, in apparenza, estranei all’ambito disciplinare dell’art. 270 c.p.p., di cui difetterebbero i presupposti applicativi, conseguendone, coerentemente, la piena utilizzabilità dei risultati captativi rispetto ai reati successivamente emersi “senza condizione alcuna[12]. L’apparente linearità del descritto percorso ermeneutico nasconde tuttavia una grave compromissione delle garanzie costituzionali che presidiano la libertà -e la segretezza- delle comunicazioni: invero, riconoscere una illimitata utilizzabilità dei risultati captativi in relazione a qualunque reato emerga dalle attività di ascolto, pur se del tutto slegato dal reato in relazione al quale le attività captative siano state autorizzate, derubrica il provvedimento giudiziale di abilitazione alle operazioni di intercettazione ad una “autorizzazione in bianco”, e nel legittimare la circolazione, sia pure infraprocedimentale, di materiale captativo acquisito in assenza di un vaglio giurisdizionale, elude il vincolo costituzionale che prefigura un nesso inscindibile tra la violazione della libertà e segretezza delle comunicazioni e un’autorizzazione, da parte dell’Autorità giudiziaria, debitamente motivata. La cornice costituzionale di riferimento ha quindi indotto la giurisprudenza formatasi successivamente all’entrata in vigore del codice del 1988 ad ancorare la nozione di “diversità del procedimento” ad un dato di natura sostanziale, del tutto slegato dalla formale unitarietà del procedimento -perché iscritto sotto un unico numero di registro-, per cui si ha alterità del procedimento -con conseguente operatività del regime restrittivo posto dall’art. 270, comma I, c.p.p.- quando  non vi sia alcun nesso di connessione o di collegamento “sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico”  tra il reato per il quale le operazioni di intercettazione siano state autorizzate e il reato successivamente emerso[13]. A tale orientamento, del resto, mostrava di aderire anche Cass. sez. un. 26 giugno 2014 n. 32697, non massimata sul punto, sia pure nell’ambito di un discorso giustificativo focalizzato su altra questione. All’orientamento descritto si è andata contrapponendo altra opzione interpretativa che valorizzando il dato letterale e la intrinseca legittimità dell’acquisizione dei risultati, perché assistita da un provvedimento giudiziale di autorizzazione alle operazioni, ha concluso che le risultanze captative sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui dall'attività di captazione emergano gli estremi e, quindi, la conoscenza, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall'art. 270, comma I, c.p.p., id est all'indispensabilità ed all'obbligatorietà dell'arresto in flagranza[14]. Le argomentazioni a sostegno di tale indirizzo riposano, come detto, da un lato nella legittimità originaria della captazione, difficilmente conciliabile con una causa di inutilizzabilità che la disciplina in materia di intercettazioni -e, segnatamente, l’art. 271 c.p.p.- sembra ancorare a vizi del momento genetico, dall’altro, nella considerazione del combinato disposto di cui agli artt. 266 e 270 c.p.p.; quanto a tale profilo, si è invero affermato che l’art. 270 c.p.p. nell’individuare i parametri che legittimano l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti, non richiama l’elencazione tassativa di cui all’art. 266 c.p.p., ma parametri nuovi e diversi (l'indispensabilità delle captazioni ai fini dell’accertamento di un reato per il quale sia previsto l’arresto obbligatorio in flagranza)  certamente non sovrapponibili né coincidenti con la clausola generale di cui all’art. 266 c.p.p.: sarebbe paradossale, si conclude, interpretare le due norme nel senso che “avendo il legislatore evitato di dare esplicita disciplina per i reati diversi da quelli ex art. 266 c.p.p., ma interni al medesimo procedimento, per essi mai sarebbero utilizzabili gli esiti delle intercettazioni, addirittura neppure nei casi in cui essi lo sarebbero invece in un procedimento diverso[15].

Il contrasto insorto in seno alla giurisprudenza di legittimità si protraeva per circa un decennio[16], ed era, infine, risolto dall’intervento delle Sezioni unite. Il protrarsi del contrasto era, verosimilmente, favorito dalle stesse modalità argomentative dell’orientamento permissivo, che, nell’andamento delle motivazioni, spesso non confutavano l’orientamento opposto, anzi ne ribadivano espressamente la validità, estendendone l’area applicativa, sulla base degli argomenti illustrati, non solo ai reati collegati a quello oggetto dell’autorizzazione alle operazioni captative ma a tutti i reati eventualmente emersi nel corso di quelle stesse operazioni, che non fossero distinti ab origine rispetto al procedimento portante[17]; l’estensione determinava una frizione rispetto all’orientamento tradizionale, di cui in realtà confutava i fondamenti, ma tale aspetto era del tutto trascurato negli sviluppi argomentativi: affermare un regime di circolazione delle intercettazioni che valorizzasse l’inerenza al procedimento quale condizione di indiscriminata utilizzabilità delle intercettazioni, con la sola eccezione dei reati, eventualmente emersi nel corso delle attività, che fossero ab origine oggetto di un distinto procedimento, implicava, quale logica conseguenza, che le risultanze captative non avrebbero potuto trovare impiego, ai fini della prova dei reati connessi rispetto al reato portante, quando tali reati avessero costituito l’oggetto di un procedimento iscritto sulla base di una diversa notitia crimins, a meno che, evidentemente, si discorresse di reati per i quali fosse previsto l’arresto obbligatorio in flagranza[18]; all’evidenza l’orientamento in parola, al di là del formale ossequio, sostituiva completamente i criteri regolativi della circolazione del materiale intercettativo espressi dall’orientamento tradizionale. Peraltro, anche il paradosso addotto quale argumentum a conforto dell’orientamento di minor rigore, non appariva convincente, in quanto, se rettamente inteso, anche l’orientamento tradizionale evitava le conseguenze paradossali evidenziate dal contrapposto indirizzo: una volta identificato il diverso procedimento con il fatto di reato del tutto slegato dall’originaria contestazione, non sussiste alcun ostacolo a ritenere procedimento diverso, a questi fini, anche il reato non connesso trattato cumulativamente nell’originario procedimento, la cui prova può quindi  legittimamente fondarsi sulle acquisizioni intercettative operate sul diverso reato, quando si tratti, quanto al reato non connesso, di reato per il quale sia obbligatorio l’arresto in flagranza e la prova captativa sia indispensabile ai fini dell’accertamento, non sussistendo alcun ostacolo a ritenere applicabile il disposto di cui all’art. 270 c.p.p. anche ai reati trattati all’interno di un unico procedimento[19], per i quali, evidentemente, non varranno le condizioni processuali di utilizzabilità del materiale captativo di cui ai successivi commi della disposizione, applicabili esclusivamente quando il reato ulteriore sia in effetti trattato nell’ambito di altro procedimento. Del resto, come ricordato, l’orientamento tradizionale maturava nel segno dell’espresso rifiuto del rilievo di nozioni formalistiche, quale l’unitarietà del procedimento data dal medesimo numero di registro generale, unitarietà che non potrebbe, quindi, riacquistare rilievo per fondarvi l’argomento paradossale per cui gli esiti delle captazioni non sarebbero utilizzabili all’interno del comune procedimento neppure per l’accertamento dei reati per i quali esse sarebbero utilizzabili se trattati in un procedimento formalmente distinto dal primo.

 

LA SOLUZIONE DEL CONTRASTO

Chiamate a dirimere il contrasto insorto, le Sezioni unite hanno ratificato l’orientamento tradizionale alla luce della disciplina costituzionale di riferimento e delle conseguenze manifestamente irragionevoli che l’opposto orientamento determina quanto all’effettività di quelle stesse garanzie costituzionali[20].

Il quadro ordinamentale di riferimento, con riguardo alla Carta costituzionale, si articola, nella efficace sinossi che ne danno le Sezioni unite, intorno all’art. 15 Cost, dalla cui trama traspare il bilanciamento tra due distinti interessi, entrambi di rilievo costituzionale, l’uno relativo alla “libertà e segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost. l’altro connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati[21]; l’inerenza del diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione al nucleo essenziale dei valori della persona ne fa una componente “necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana”;  quelle stesse disposizioni implicano al contempo “il divieto di divulgazione o di utilizzazione successiva delle notizie di cui si è venuti a conoscenza a seguito di una legittima autorizzazione alle operazioni di intercettazione al fine dell’accertamento in giudizio di determinati reati”: invero, la libertà della comunicazione “risulterebbe pregiudicata, gravemente scoraggiata o, comunque, turbata ove la sua garanzia non comportasse” dei vincoli alla circolazione dei contenuti intercettati, in quanto “l’utilizzazione come prova in altro procedimento trasformerebbe l’intervento del giudice richiesto dall’art. 15 Cost. in un'inammissibile autorizzazione in bianco ciò che “vanificherebbe l’esigenza che l’atto giudiziale di autorizzazione delle intercettazioni sia puntualmente motivato” con “riferimento sia ai soggetti da sottoporre al controllo sia ai fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede”. In tale cornice, ad avviso delle Sezioni unite, il provvedimento di autorizzazione alle operazioni di intercettazione non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova ma circoscrive l’utilizzazione dei suoi risultati ai fatti di reato che all’autorizzazione stessa risultino riconducibili” in linea con lo statuto di garanzie distillabile dall’art. 15 Cost, che interessano, come ricordato, tanto l’impiego del mezzo di ricerca della prova -e, quindi, il momento genetico dell’intrusione- quanto “l’utilizzazione probatoria dei risultati dell’intercettazione” -e, quindi, la circolazione del materiale captato-.

Nel quadro costituzionale evocato, non appare dubitabile, proseguono le Sezioni unite, che l’orientamento  ad avviso del quale i risultati delle attività intercettative sono utilizzabili per ogni reato emerso grazie a quelle stesse captazioni, pur in assenza di qualsiasi legame tra i reati, svaluta i profili di garanzia impliciti alla motivazione del provvedimento autorizzativo delle intercettazioni, non limitati all’atto genetico delle intercettazioni, affidando, al contempo, la circolazione dei risultati captativi a fattori del tutto aleatori, quale la pendenza di un autonomo procedimento in ordine ai fatti appresi nel corso delle intercettazioni.

Nel ratificare l’opposto orientamento, peraltro, le Sezioni unite liquidano anche un terzo indirizzo, del tutto minoritario in giurisprudenza[22] ma autorevolmente sostenuto[23], ad avviso del quale la nozione di procedimento diverso, presupposta dall’art. 270 c.p.p., coincide con quella di “reato diverso”, conseguendone che non sarebbe consentito l’impiego, quale fonte di prova, delle risultanze captative con riguardo a reati diversi rispetto a quello -o a quelli- cui si riferisca l’autorizzazione alle operazioni, indipendentemente da qualsiasi legame sostanziale tra il reato “autorizzato” e quello emerso nel corso delle intercettazioni, a meno che, evidentemente, concorrano le condizioni di utilizzabilità codificate dall’art. 270 c.p.p.; in dottrina[24],  a sostegno di tale conclusione, si è richiamata la disciplina dell’art. 335 c.p.p. asseritamente idonea ad offrire una nozione di procedimento rilevante anche nell’economia dispositiva dell’art. 270 c.p.p., e comprensiva dei dati relativi alla qualificazione giuridica del fatto, al soggetto indagato e al numero progressivo di iscrizione. Tale orientamento è, del tutto condivisibilmente, disatteso dalle Sezioni unite che denunciano da un lato l’irragionevolezza cui perverrebbe la soluzione patrocinata dalla dottrina da ultimo ricordata, che condurrebbe a ritenere inutilizzabili nei confronti del soggetto successivamente individuato quale autore del reato i risultati delle intercettazioni inizialmente disposte in ordine ad un reato ascritto a carico di ignoti, in quanto l’annotazione del nominativo dell’indagato , nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. dà corso a un diverso procedimento, interessando l’uno degli elementi costitutivi della nozione di procedimento avanzata da quella stessa dottrina. A confutare l’indirizzo interpretativo in rassegna, soccorre, del resto, anche l’introduzione, nello stesso art. 270 c.p.p. -ad opera del d. l.vo 29 dicembre 2017, n. 216- di un comma I bis, che, sino alla riformulazione dalla disposizione da parte del d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, in contrapposizione al primo comma e al “procedimento” ivi evocato, stabiliva che, con riguardo alle intercettazioni operate tramite captatore informatico, i risultati delle captazioni non potessero essere utilizzati quale prova in ordine a “reati diversi da quelli per i quali sia stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”. Singolarmente, peraltro, le Sezioni unite non valorizzano l’argomento letterale, decisivo ai fini della confutazione dell’indirizzo in parola: il legislatore del 1988, invero, ove avesse inteso riferirsi alla inutilizzabilità delle intercettazioni rispetto ad ogni altro reato, con la nota eccezione dei reati ad arresto obbligatorio, non avrebbe impiegato, nella disposizione de qua, il termine procedimento[25], come del resto fatto palese dalla richiamata disciplina di riforma dell’art. 270 c.p.p., con riguardo alle intercettazioni operate tramite trojan, che, sia pure successivamente novellata -il punto è tuttavia irrilevante ai fini che qui interessano-, confinava l’utilizzabilità dei risultati captativi, letteralmente, ai soli “reati” oggetto dell’autorizzazione alle operazioni.

 

 (segue) LA CONNESSIONE RILEVANTE NELLA DISCIPLINA DELL’ART. 270 C.P.P.

Nel discorso delle Sezioni unite, la definizione del legame tra il reato oggetto dell’autorizzazione e i reati connessi appare, all’evidenza, centrale ai fini della esatta perimetrazione della circolazione del materiale captativo: l’intensità di quel legame, invero, segna il limite all’alterità dei procedimenti e, di conseguenza, i limiti alla esportabilità delle risultanze intercettative.

L’orientamento tradizionale ravvisa quel legame in ipotesi di connessione rilevante ex art. 12 c.p.p. così come, indifferentemente, in ipotesi di collegamento investigativo, ex art. 317, comma II, lett. b) e c), c.p.p., sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico[26]. Come noto, la connessione identifica una relazione tra procedimenti per cui la “regiudicanda oggetto di ciascuno viene, anche in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri”; essa riflette, quindi, un legame sostanziale tra i reati, circostanza che rende, peraltro, ragione della natura autonoma e originaria dei criteri di attribuzione della competenza discendenti dall’operare della connessione[27].

Il collegamento di cui all’art. 371, comma II, lett. b) e c), c.p.p., di contro, non rispecchia un nesso sostanziale tra reati, quanto, piuttosto, un collegamento occasionale ovvero di mero rilievo investigativo-probatorio o fattuale[28], in ogni caso non espressivo di una sostanziale unitarietà.

La diversa intensità dei legami da connessione e da collegamento giustifica, nel ragionare delle Sezioni unite, un trattamento disciplinare differenziato delle rispettive ipotesi, per cui solo il vincolo che si manifesti nelle forme della connessione rilevante ex art. 12 c.p.p. è capace di attrarre i reati connessi al reato per cui sono state autorizzate le intercettazioni, in quanto esclude, grazie alla -sia pure parziale- comunione delle regiudicande che ne deriva, che l’autorizzazione del giudice scada ad autorizzazione in bianco. Di contro, il nesso discendente dal collegamento segna una relazione debole tra i reati, inidonea ad attrarli entro una comune matrice criminologica, e, di riflesso, inidonea ad aggregarli entro un medesimo procedimento ai fini della disposizione di cui all’art. 270 c.p.p.

Non è del resto privo di significato che solo alla connessione in senso proprio si ricollegano effetti sostanziali -ad es. in tema di competenza, ma anche, può aggiungersi, in tema di retrodatazione dei termini di fase della misura custodiale in ipotesi di contestazioni a catena ex art. 297, comma III, c.p.p.- e non anche al collegamento, posto che l’unico effetto processualmente apprezzabile conseguente al collegamento, la riunione dei procedimenti ai sensi dell’art. 17, comma I, lett. c), c.p.p., risponde a “criteri di mera organizzazione del lavoro giudiziario[29], come, del resto, il coordinamento investigativo conseguente al collegamento risponde a criteri di  efficacia investigativa, privi di rilievo sostanziale.

 

(segue) IL RILIEVO DEI LIMITI DI AMISSIBILITA’ EX ART. 266 C.P.P.

Le Sezioni unite, nel rispondere al quesito loro rimesso, approfondiscono doverosamente, in prospettiva nomofilattica, anche il tema dell’eventuale rilievo, ai fini dell’utilizzabilità delle risultanze captative rispetto al reato connesso, dei limiti di ammissibilità alle intercettazioni di cui all’art. 266 c.p.p.; la pratica investigativa, invero, prospetta con intuibile frequenza il caso che il reato connesso a quello oggetto di autorizzazione -e, quindi astrattamente permeabile all’ingresso, a fini probatori,  delle emergenze captative-, sia estraneo al novero dei reati per i quali il ricorso allo strumento captativo è ammesso ai sensi del disposto di cui agli artt. 266 e 266 bis c.p.p. Al quesito la giurisprudenza di legittimità, anche all’interno dell’orientamento tradizionale, aveva fornito  risposte ondivaghe, ora valorizzando la diretta ascendenza costituzionale del catalogo dei reati stilato dagli att. 266 e 266 bis c.p.p. quale espressione di garanzia dell’inviolabilità delle comunicazioni, come tale non superabile[30], ora di contro valorizzando la sostanziale unitarietà del procedimento, inteso quale fattispecie complessa comprensiva dei reati avvinti da un legame di natura sostanziale con il reato portante, per dedurne l’esportabilità dei risultati captativi anche ai reati connessi esclusi dal catalogo dei reati di cui agli artt. 266 e 266 bis c.p.p.

Le Sezioni unite privilegiano la soluzione di maggiore garanzia, affidandosi, anche sul punto, ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina: la migrazione dei risultati captativi al reato, sia pure connesso, ma non incluso nel catalogo di cui agli artt. 266 e 266 bis c.p.p. eluderebbe la riserva di legge che ex art. 15 Cost. “governa la materia delle intercettazioni nonché l’istanza di rigorosa -e inderogabile- tassatività che da essa discende”, comprimendo un diritto fondamentale in assenza di una norma -ordinaria- che, in attuazione della “delega costituzionale”, attribuisca all’Autorità il potere di ingerenza.

In tal senso, del resto depone -ma la notazione non si rinviene nella motivazione delle Sezioni unite- la chiara, quantunque fugace, indicazione che si legge nel corpo della sent. 63 del 1994 della Corte costituzionale, laddove la Corte incidentalmente afferma -peraltro con i toni dell’ovvietà- che l’utilizzabilità delle intercettazioni in altro procedimento è subordinata alla circostanza che “in questi ultimi vengano in considerazione reati rispetto ai quali, ai sensi dell’art. 266 c.p.p., p ammissibile procedere alle intercettazioni”.

 

(segue) LE DEROGHE ALLA INUTILIZZABILITA’

In ogni caso, proseguono le Sezioni unite, alla inutilizzabilità codificata dall’art. 270 c.p.p. sfuggono due ipotesi, che la sentenza ribadisce, per non avendo dato luogo a contrasti giurisprudenziali: l’una attiene alla  utilizzabilità delle risultanze captative in ogni caso quale notitia criminis, sulla cui base intraprendere attività di indagine[31], la seconda attiene alla illimitata utilizzabilità delle risultanze captative -anche in relazione all’accertamento di reati non contemplati nel catalogo di cui all’art. 266 c.p.p.- che costituiscano corpo del reato[32], in quanto le stesse integrino ed esauriscano la condotta criminosa[33].

 

CONSIDERAZIONI CRITICHE

La soluzione cui pervengono le Sezioni unite, in riferimento alla decrittazione della nozione di procedimento diverso implicata dall’art. 270 c.p.p., appare, a giudizio di chi scrive, condivisibile, sia pure sulla scorta di argomenti in parte diversi rispetto a quelli proposti dalla Corte.

L’orientamento più permissivo in effetti nell’affidare la tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni -rispetto alle quali, come ricordato, l’autorizzazione giudiziale alle operazioni di intercettazione costituisce momento di garanzia cruciale, anche in ordine alla perimetrazione del campo d’indagine– alla circostanza che il fatto di reato emerso nel corso dell’attività captativa sia o meno trattato, ab origine, all’interno dell’originario procedimento valorizza, impropriamente, una circostanza casuale ed estrinseca rispetto al nucleo di valore tutelato dalla garanzia costituzionale, inidonea ad atteggiarsi quale portatrice di un adeguato valore compensativo del sacrificio della riservatezza che la circolazione anche solo endoprocedimentale del materiale captativo inevitabilmente comporta; del resto, la verifica della pregressa iscrizione del reato connesso può non essere agevole per le parti e per lo stesso giudice –potendo interessare la competenza di uffici giudiziari diversi e non puntualmente individuabili – marginalizzando l’ampiezza del sindacato giurisdizionale in merito ai presupposti di utilizzabilità dell’intercettazione e rischiando di alimentare prassi distorsive presso gli uffici di Procura[34]. E’ stata del resto evidenziata nei paragrafi che precedono l’inconsistenza delle obiezioni che tale indirizzo ha rivolto, sia pure in termini non frontali, all’opposto orientamento.

Il punto di maggiore criticità nelle argomentazioni delle Sezioni unite attiene all’insistito riferimento alle implicazioni costituzionali -e, segnatamente, all’art. 15 Cost.- della disciplina dettata dall’art. 270 c.p.p.; invero dall’affermazione che la disposizione di cui all’art. 15 Cost. costituisce un –non superabile– presidio normativo a garanzia della libertà e segretezza delle comunicazioni, espressivo di una primazia assiologica tale da condizionare, inevitabilmente, anche l’interpretazione della disciplina processuale in tema di circolazione dei risultati intercettativi, nel segno di una rigorosa delimitazione della esportabilità di quei risultati, pena –come ricordato– la violazione della libertà di comunicazione, da un lato, e l’elusione quanto al procedimento ad quem dell’obbligo –parimenti di ascendenza costituzionale– di motivazione, dall’altro, dovrebbe, coerentemente, discendere l’affermazione dell’inutilizzabilità del materiale captativo per ogni reato diverso da quello per cui le intercettazioni siano state autorizzate e da quelli ad esso connessi, anche per quelli da arresto obbligatorio in flagranza; invero, la rilettura in chiave costituzionale della norma di cui all’art. 270 c.p.p. cui le Sezioni unite procedono non dovrebbe soffrire eccezioni di sorta, quanto alla indiscriminata inutilizzabilità del materiale captativo acquisito -se non limitatamente al reato per cui le operazioni siano state autorizzate e a quelli connessi- in quanto la circolazione di quel materiale -anche per la prova di un reato per il quale sia previsto l’arresto obbligatorio in flagranza- avverrebbe comunque in violazione dell’obbligo, costituzionalmente sancito, di congrua e specifica motivazione –nel procedimento di destinazione–, motivazione che, ricordano le Sezioni unite, è essenziale ai fini della utilizzabilità probatoria degli esiti captativi con riguardo ai reati estranei al reato portante e a quelli ad esso connessi. In altri termini, attrarre entro il perimetro di garanzia presidiato dall’art. 15 Cost. la disciplina della circolazione delle risultanze captative e quindi ribadire la necessità di un provvedimento motivato che consenta quella circolazione, e, al contempo, affermare l’intrinseca insufficienza della motivazione del provvedimento autorizzativo ai fini della circolazione dei relativi esiti -se non al prezzo di derubricare l’obbligo della puntuale motivazione in una inammissibile autorizzazione in bianco-, dovrebbe condurre, quale esito interpretativo costituzionalmente obbligato, alla affermazione della radicale inutilizzabilità di quegli esiti con riguardo ad ogni reato diverso da quello oggetto di autorizzazione e da quelli ad esso connessi, e quindi a prospettare serisssimi dubbi di costituzionalità della disciplina di cui all’art. 270 c.p.p., nella parte in cui, all’opposto, nel consentire la circolazione delle risultanze captative quando siano indispensabili a fini di prova di reati ad arresto obbligatorio, riconosce l’utilizzabilità di prove assunte contra constitutionem, perché in violazione dell’obbligo di puntuale e specifica motivazione di diretta ed immediata ascendenza costituzionale[35]. Né appaiono convincenti, sul punto, le osservazioni di Corte cost. 24 febbraio 1994 n. 63, cit., che ha ritenuto la legittimità costituzionale della eccezionale clausola derogatoria codificata dall’art. 270, comma I, c.p.p., in ragione della gravità e dell’allarme sociale che destano i reati soggetti ad arresto obbligatorio, per i quali, quindi, si giustifica una circolazione del sapere intercettativo altrimenti preclusa: la inutilizzabilità di un atto di prova, conseguente alla violazione del contenuto modale delle prescrizioni costituzionali che ne disciplinano la legittimità, è sanzione ubiquitaria che affligge l’atto indipendentemente dalla natura del reato per cui si procede e, come tale, essa sfugge ad ogni giudizio di bilanciamento, sia pure quando sia identificabile un concorrente bene di rilievo costituzionale, quale è indubbiamente l’accertamento e la repressione dei reati -ex art. 112 Cost.-[36]; il bilanciamento è, invero, soluzione interpretativa legittimamente praticabile quando siano posti a raffronto beni costituzionali, non anche quando l’uno dei termini sottenda la illegittimità costituzionale conseguente alla violazione delle norme di rango costituzionale che disciplinano l’intrusione nei confronti dell’uno dei beni oggetto di bilanciamento: l’illegittimità delle modalità intrusive, come delimitate dalla Carta fondamentale, non è negoziabile, in specie quando attenga a profili modali coessenziali alla stessa difesa del bene[37], quale la sussistenza di un puntuale e specifico apparato motivazionale. Sarebbe di problematica compatibilità costituzionale, ad es., un’interpretazione che ammettesse l’utilizzabilità delle intercettazioni in ipotesi disposte di iniziativa da parte del pubblico ministero e non convalidate dal giudice sulla scorta della considerazione della gravità dei reati emersi da quelle captazioni.

Analoghe considerazioni, peraltro, appaiono prospettabili anche in relazione alla ritenuta estensione dei risultati captativi al reato connesso rispetto al reato oggetto di autorizzazione: a giudizio delle Sezioni unite, invero, “il legame sostanziale [id est, la connessione tra il reato oggetto di autorizzazione e i reati emergenti] esclude che l'autorizzazione del giudice assuma la fisionomia di un'autorizzazione in bianco[38]. In realtà, il provvedimento autorizzativo del tutto legittimamente può ignorare i profili della interrelazione tra il reato per cui si procede e i reati ad esso eventualmente connessi: appare pertanto difficilmente negabile che nel caso l’estensione dei risultati captativi avvenga in assenza di un vaglio da parte del giudice in merito al reato ulteriore; ancora, la riconduzione “ai «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991), di cui al provvedimento autorizzatorio dell'intercettazione, anche di quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione[39] sembra confliggere con il rilievo che le stesse Sezioni unite annettono alla motivazione del provvedimento autorizzativo: se l’uno dei criteri di legittimità dell’intercettazione è nella preesistenza alle operazioni di un’autorizzazione puntualmente motivata, ammettere l’estensione dei risultati ai reati connessi importa, logicamente, la necessità di riferire almeno implicitamente la motivazione del provvedimento anche ai reati connessi che dovessero emergere; dovrebbe quindi ipotizzarsi che il provvedimento autorizzativo -ogni provvedimento autorizzativo- rechi una tacita autorizzazione alla captazione anche rispetto a reati futuri -di cui non è certamente possibile apprezzare la gravità indiziaria all’atto dell’autorizzazione- e che non rientrino nei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 c.p.p., una conclusione evidentemente paradossale e distante da quell’”effettività” e da quel “saldo ancoraggio alla fattispecie concreta[40] cui deve rispondere l'autorizzazione del giudice e non troppo dissimile, qualitativamente, da quelle autorizzazioni in bianco di cui rettamente la sentenza in rassegna diffida. Ne discende, ad avviso di chi scrive, l’erroneità del riferimento alle condizioni autorizzative ai fini della soluzione al quesito della circolazione -anche infraprocedimentale- delle intercettazioni.

In realtà, a giudizio di chi scrive, la circolazione del materiale intercettativo non rimanda ai beni tutelati dall’art. 15 Cost. ed al conseguente corredo di -inderogabili- garanzie poste dagli artt. 266 e 267 c.p.p., quanto, piuttosto al bene-riservatezza, che trova il proprio riconoscimento nell’art. 2 Cost.: invero, la riservatezza evoca “questioni  legate all’accessibilità ed alla diffusione di un dato già acquisito, laddove le problematiche più complesse si presentano con riguardo all’aggressione della sfera individuale nel momento della captazione[41]; del resto riferire al bene tutelato dall’art. 15 Cost. anche la tematica della circolazione dei risultati per limitarne l’operatività in ragione dell’originaria carenza motivazionale del provvedimento autorizzativo snatura il ruolo della motivazione di quel provvedimento che è atto a “fondare lo strumento conoscitivo, non l’oggetto della conoscenza[42]: l’autorizzazione giudiziale alle operazioni legittima l’ascolto e soddisfa ed esaurisce l’insieme delle condizioni cui l’art. 15 Cost. subordina l’intrusione nell’altrui sfera comunicazionale; se l’art. 15 Cost. esprime una “tipica situazione di inviolabilità da interferenze” e non “un diritto alla tutela[43], si coglie immediatamente la diversa prospettiva costituzionale e valoriale su cui opera la circolazione delle intercettazioni, che attiene ad un momento successivo all’interferenza, rispetto alla disciplina in materia di autorizzazione alle operazioni che interessa propriamente il momento di conflitto tra l’affermazione dell’inviolabilità della libertà e segretezza delle comunicazioni e l’intrusione dell’autorità, momento solo rispetto al quale deve valutarsi la congruità e specificità della motivazione del provvedimento autorizzativo, pena la dilatazione dell’ombrello costituzionale. E’ il bene-riservatezza, quindi, ad agire quale filtro alla circolazione dei risultati captativi, l’art. 270 c.p.p. limitandosi a disciplinare le maglie di quel filtro, in una prospettiva peraltro costituzionalmente necessitata[44], in quanto, nel prevenire la indiscriminata utilizzabilità delle intercettazioni, evita di degradare il provvedimento autorizzativo ad una inammissibile delega in bianco, che certamente vulnererebbe anche il bene-riservatezza. L’art. 270 c.p.p. opera quindi la necessaria mediazione tra due beni costituzionali in conflitto, la riservatezza da un lato, l’interesse statuale alla repressione dei reati dall’altro, in termini funzionalmente non dissimili, del resto, dal bilanciamento che gli artt. 266, 266 bis e 267 c.p.p. operano con riguardo ai beni direttamente tutelati dall’art. 15 Cost.; in tal senso non appare secondaria la circostanza che, nel disciplinare la circolazione delle intercettazioni in procedimenti diversi, la norma evochi un criterio di utilizzabilità -l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza- del tutto eccentrico rispetto ai criteri di autorizzabilità delle intercettazioni; né sembra azzardato leggere, in controluce, nello stesso art. 270 c.p.p. la traduzione normativa di quel dovere verso il rispetto della vita privata tutelato dall’art. 8 CEDU. Ne segue, a giudizio di chi scrive, che ai fini della decodificazione della nozione di procedimento diverso debba farsi riferimento al valore costituzionale che la norma direttamente tutela e al doveroso bilanciamento cui quel valore è assoggettato, laddove competa con l’istanza costituzionale dell’accertamento e della repressione dei reati; in tale ottica, assume in effetti rilievo la connessione tra reati quale criterio di legittimità della circolazione dei risultati captativi: la connessione tra reati, invero, è espressione di un legame sostanziale che riflette una manifestazione criminale unitaria, che non può essere disconosciuta, se non al prezzo -inaccettabile- di rinunciare alla compiutezza e alla stessa razionalità dell’accertamento e della repressione penale, di fronte alla quale la riservatezza è istanza destinata a cedere; in tale prospettiva può certamente ritenersi che i reati connessi pertengano al medesimo procedimento e che rispetto ad essi i risultati intercettativi siano utilizzabili anche quando non configurino reati per i quali sia previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Ma se, ai fini dell’utilizzazione delle risultanze, vengono in rilievo criteri di impiego del tutto diversi rispetto a quelli che presiedono all’autorizzazione, non vi è ragione per limitare l’utilizzabilità delle intercettazioni, quanto ai reati connessi, subordinandola alla condizione che il reato connesso appartenga al catalogo di cui all’art. 266 c.p.p.: come ricordato, estendere alla disciplina dell’impiego delle intercettazioni le condizioni che ne regolano il momento autorizzativo conduce alle forzature sopra evidenziate; ne discende, quale unica conclusione, che, a dispetto dell’avviso espresso dalle Sezioni unite, le risultanze captative siano utilizzabili, quanto ai reati connessi, indipendentemente dai relativi limiti edittali.

Né infine la prospettiva accolta sembra confliggere con la tradizionale opzione interpretativa che in materia apparentemente affine riconosce invece la sequestrabilità delle cose costituenti corpo del reato, pur se a seguito di perquisizione illegittima o in esecuzione di una perquisizione disposta al fine di accertare altro reato, essendo i due scenari non comparabili, posto che l’apprensione coattiva della res è espressione di un preesistente potere di vincolare al procedimento le cose pertinenti al reato[45].

 

(segue) L’IMPIEGO DELLE INTERCETTAZIONI IN SEDE EXTRAPENALE

L’implicazione di un bene di rilievo costituzionale, quale argine alla libera circolazione delle intercettazioni, a giudizio di chi scrive, dovrebbe indurre anche ad un ripensamento degli orientamenti che consentono, in apparenza senza limite alcuno, l’utilizzo delle risultanze intercettative nei procedimenti non penali: la circolazione extrapenale delle intercettazioni è stata, infatti, affermata tanto con riguardo al procedimento di prevenzione[46], quanto al procedimento disciplinare a carico di magistrati[47], quanto al processo tributario[48].

La riservatezza, invero, ha assunto anche alla luce del dato convenzionale, un rilievo non secondario nel proscenio dei diritti della persona; non appare, di conseguenza, plausibile l’affermazione per cui la riservatezza “non vive nell’ordinamento sulla base di una previsione generalizzata ma è il legislatore che di volta in volta ne dispone la genesi e la tutela[49]. All’opposto, ogni intrusione alla riservatezza deve apparire giustificata da un controinteresse di eguale spessore, come del resto fatto palese dallo stesso art. 270 c.p.p., che limita ragionevolmente l’utilizzabilità delle intercettazioni, quanto ai reati diversi da quello oggetto di autorizzazione e da quelli ad esso connessi, in apparenza obliterando il principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale, che, ove non fosse stato contrastato da un principio di eguale spessore, avrebbe invece condotto ad un illimitato utilizzo dei risultati intercettativi in sede penale, indipendentemente dalla natura del reato ulteriore o dalla verifica dei legami con quello oggetto di autorizzazione. Se è vero che con riguardo ai procedimenti extrapenali non si rinvengono norme limitative quali la norma posta dall’art. 270 c.p.p. è altrettanto vero che i limiti imposti dall’art. 270 c.p.p. trascendono la natura del giudizio in cui i risultati captativi siano riversati, in quanto garantiscono un diritto “inviolabile quale che sia la natura del procedimento nel quale i risultati vengano utilizzati[50]: in altri termini, l’art. 270 c.p.p  sembra porsi quale norma ricognitiva di un principio immanente all’ordinamento, e non quale norma attributiva di una originaria situazione soggettiva di tutela. Il conflitto tra beni dovrebbe quindi impegnare l’interprete ad una verifica caso per caso, guidata dal rispetto del principio di proporzionalità[51], canone ermeneutico ormai di largo impiego in sede eurounitaria[52] e convenzionale[53] e, del resto, di comune utilizzo anche da parte della Corte costituzionale[54], nonché in sede di giurisdizione ordinaria[55], in vista della enucleazione, dall’intero sistema, di preclusioni alla circolazione dei risultati captativi rivenienti dal conflitto tra contrapposte istanze costituzionali, preclusioni tanto più consistenti quanto meno rilevante si profili l’interesse collegato all’accertamento del dato di fatto implicato dalla comunicazione captata.

 

Il D.L. 30 DICEMBRE 2019, n. 161

La disposizione di cui all’art. 270 c.p.p. è stata da ultimo oggetto di revisione da parte del decreto-30 dicembre 2019, n. 161, il cui art. 2, comma I, lett. g), vi ha interpolato[56] il comma I bis, a mente del quale  ”fermo restando quanto previsto dal comma I, i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, se compresi tra quelli indicati dall'articolo 266, comma II bis” c.p.p[57]. La previsione, introdotta nell’ambito dell’ennesimo intervento di riforma della disciplina in materia di intercettazioni attuate mediante captatore informatico, ad una prima lettura, sembra estendere l’utilizzabilità dei risultati intercettativi oltre il perimetro altrimenti segnato dal comma primo della disposizione, che, invero, è espressamente richiamata dall’incipit del nuovo comma. Ne consegue un regime di utilizzabilità speciale, in attuazione di un inedito -ma non irragionevole- giudizio di bilanciamento operato dal legislatore, e che, ai fini del più efficace contrasto alla criminalità organizzata e contro la pubblica amministrazione, amplia le maglie della migrabilità delle risultanze captative, legittimamente impiegabili, oltre che ai fini dell’accertamento dei reati connessi a quello per cui si procede e a quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza -in accordo alla disciplina generale dell’art. 270, comma I, c.p.p.-, anche in vista dell’accertamento di eventuali reati appresi nel corso delle intercettazioni, sia pure non legati a quelli oggetto di autorizzazione né ad arresto obbligatorio, purché rientranti nel catalogo di cui all’art. 266, comma II bis c.p.p., sul punto superando le previgente disciplina, mai entrata in vigore, che all’opposto disponeva, in ragione dell’intensità intrusiva della captazione tramite trojan, che le risultanze così acquisite non potessero essere utilizzate per la prova di reati diversi da quelli per i quali fosse stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che risultassero indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali fosse obbligatorio l’arresto in flagranza[58].



[1] Sul punto, del resto, il codice 1930 riproduceva pedissequamente la disciplina degli artt. 170, comma ult., e 238, comma ult., del previgente codice, introducendovi quale unico elemento di differenziazione, la facoltà, riconosciuta al giudice, di procedere all’intercettazione avvalendosi dell’operato di un ufficiale di polizia giudiziaria, previa emissione di apposito decreto.

[2] L’aspetto di più evidente contrasto ineriva, evidentemente, alla facoltà che alle intercettazioni procedesse, di propria iniziativa, la polizia giudiziaria, pur in assenza di un’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria; che il testo dell’art. 15 Cost. implicasse l’esclusione di ogni autonoma iniziativa, da parte dell’Autorità di polizia, volta ad apprendere i contenuti di di comunicazioni private era del resto affermazione corrente in dottrina: cfr. tra gli altri, MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, VIII ed., Padova, 1969, pag. 970; AZZALI, Prove penali e segreti, Milano, 1967, pag. 91; PISANI, La tutela penale della «riservatezza»: aspetti processuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, pag. 791.

[3] La laconicità e lacunosità delle disposizioni introdotte ad opera della L. 517 cit., evidentemente insufficienti ad assicurare una effettiva traduzione dei valori costituzionali implicati dalle attività intercettative, se non altro per l’estrema vaghezza dei presupposti sindacabili dal giudice in occasione dell’autorizzazione delle operazioni, fu severamente criticata ad opera della dottrina più attenta (cfr. P.G. GOSSO, voce Intercettazioni telefoniche, in Enc. dir., vol. XXI, 1971, p. 892, che, tra gli altri profili, censurava l’assenza di un catalogo dei reati “intercettabili”, conseguendone che alle operazioni di intercettazione potesse procedersi, sia pure previa autorizzazione giudiziale, “anche in occasione di indagini su episodi di natura contravvenzionale o di modesta portata”).

[4] Il riferimento è a Corte cost. 6 aprile 1973, n. 34, in Giur. cost., 1974, pag. 316, con nota di V. GREVI, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte costituzionale in tema di intercettazioni telefoniche.

[5] In tal senso, F. DE LEO, Vecchio e nuovo in materia di intercettazioni telefoniche riguardanti reati non previsti nel decreto di autorizzazione, in Foro it., 1989, II, c. 27; V. GREVI, Insegnamenti, moniti e silenzi, cit., pag. 332.

[6] Il riferimento è alla L. 8 aprile 1974, n. 98, cit.

[7] R. CANTONE, L’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche in “procedimenti diversi”, in Cass. pen., 1997, p. 1440; V. DI CIOLO – P. DI MUCCIO, L’intercettazione telefonica e il diritto alla riservatezza, Milano, 1974.

[8] Il riferimento è alla L. 19 maggio 1978, n. 191, di conversione in legge, con modificazioni, del d. l.  21 marzo 1978, n. 59, recante Norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati.

[9] Cass. 6 dicembre 1978, dep. 1979, n. 2451, Rv. 141364; id. 9 marzo 1983 n. 4913, Rv. 159227; sul punto, cfr. CANTONE, L’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche, cit., p. 1441.

[10] Cass. 23 giugno 1986 n. 10827, Rv. 173947.

[11] La sostanziale sovrapponibilità delle due disposizioni è sottolineata da F. DE LEO, Vecchio e nuovo in materia di intercettazioni, cit., c. 27, nonché da P. F. BRUNO, voce Intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, in Dig. disc. pen., Milano, 1993, pag. 203.

[12] La locuzione è comune alle motivazioni che aderiscono al più permissivo degli orientamenti in contrasto (Cass. 8 aprile 2015 n. 29907; id. 23 agosto 2016 n. 35536).

[13] Cass. 10 maggio 1994 n.2135, Rv. 199917; id.14 aprile 1998 n. 1208; Rv. 210950; id. 17 dicembre 2002 – dep. 2003 n. 2930, Rv. 223170; id. 2 dicembre 2009 – dep. 2010 n. 11472, Rv. 246524; id. 28 febbraio 2018 n. 28516, Rv. 273226; id.

[14] Cass 23 febbraio 2016 n. 9500, Rv. 267784; id.15 luglio 2015 n. 41317, Rv. 265004; id. 1° marzo 2016 n. 21740, Rv. 266921.

[15] Cfr. in parte motiva Cass. 4 ottobre 2012 n. 49745; id. 8 aprile 2015 n. 29907, non massimata sul punto; id. 23 febbraio 2016 n. 9500, cit., non massimata sul punto.

[16] Invero, la prima affermazione dell’orientamento divergente, rispetto all’orientamento sino ad allora consolidato, risale a Cass. 14 giugno 2011 n. 34735, non massimata.

[17] Cfr. in parte motiva Cass. 14 giugno 2011 n. 34735, cit.; id. 4 ottobre 2012 n. 49745, Rv. 254056; id. 8 aprile 2015 n. 29907, Rv. 264382.

[18] E’sufficiente scorrere le massime dell’orientamento in parola, per desumerne che esso non riconoscesse alcuno spazio all’utilizzo delle risultanze rispetto al reato connesso oggetto di un procedimento ab origine distinto: a giudizio di Cass. 23 febbraio 2016 n. 9500,  Rv. 267784 cit. “in tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui dall’attività di captazione emergano gli estremi e, quindi, la conoscenza, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso "ab origine", l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’art. 270 cod. proc. pen., e, cioè, all’indispensabilità ed all’obbligatorietà dell’arresto in flagranza” (negli esatti termini cfr. tra le altre Cass. 4 ottobre 2012 n. 49745, Rv. 254056 cit.).

[19] Per tali considerazioni sia consentito il rinvio a ALVINO, Le intercettazioni, in ALVINO – PRETTI, Le indagini preliminari; tra fonti disciplinari e prassi applicative, Torino, 2017, pag. 230.

[20] Cass. sez. un. 28 novembre 2019.-dep. 2020 n. 50, Cavallo, in attesa di massimazione.

[21] La citazione è tratta da Corte cost. sent. 23 luglio 1991 n. 366, al pari delle citazioni che seguono nel testo e sino alla fine del periodo.

[22] Tra le altre Cass. 3 luglio 1991 n. 9993, Rv. 188356; id. 11 dicembre 2012 n. 49930, Rv. 253916.

[23] G. ROSSI, I presupposti delle intercettazioni telefoniche, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, pag. 604; P. PISA, voce Intercettazioni telefoniche e telegrafiche (diritto penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XVIII, 1989, pag. 5; DE GREGORIO, Brevi considerazioni in margine ai concetti di “stesso procedimento” e di “procedimento diverso” ai fini dell’utilizzabilità dibattimentale del contenuto degli interrogatori, in Cass. pen., 1991, pag. 1002.

[24] DE GREGORIO, Brevi considerazioni in margine ai concetti di “stesso procedimento” e di “procedimento diverso” ai fini dell’utilizzabilità dibattimentale del contenuto degli interrogatori, in Cass. pen., 1991, pag. 1002.

[25] CANTONE, L’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche, cit., p. 1445.

[26]Cass. 20 gennaio 2015, n. 26693, Rv. 264001; Cass., sez. un., 26 giugno 2014, n. 32697, cit., non massimata sul punto; id. 23 settembre 2014, n. 52503, Rv. 261971.

[27] Cass. sez. un. 28 febbraio 2013 n. 27343, Rv. 255345.

[28] A norma della lett. b) dell’art. 371, comma II, c.p.p., sussiste collegamento tra “reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza”.

A norma della lett. b) dell’art. 371, comma II, c.p.p., sussiste collegamento “se la prova di più reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte”.

[29] Corte cost. 247/1998, espressamente citata dalla sentenza in commento.

[30] Cass.15 gennaio 2004 n. 4942, Rv. 229999; id 17 novembre 1999 . 14595, Rv. 216206.

[31] La giurisprudenza, peraltro, consente che gli esiti dell’attività captativa, altrimenti inutilizzabili quanto ai reati diversi, possano essere comunque posti a base di un provvedimento autorizzativo di nuove intercettazioni ai fini della prova del reato anche occasionalmente emerso (in termini, Cass. 17 luglio 2015-dep. 2016, n. 1804, non massimata, che, in un’ipotesi in cui erano state disposte delle intercettazioni sulla scorta di risultanze captative di altro procedimento, trasfuse in un’annotazione di polizia giudiziaria, ha condivisibilmente ritenuto che la fattispecie esulasse dal perimetro precettivo delimitato dall’art. 270 c.p.p., non indugiando, conseguentemente, sulla verifica dei dati di collegamento interprobatorio tra i due procedimenti, non differenziandosi il caso da quello “assolutamente ordinario, in cui la polizia giudiziaria richieda, all’esito di indagini già svolte, di sottoporre alcuni telefoni ad intercettazione o di dare corso alla captazione di comunicazioni tra presenti”; cfr. altresì, in termini, Cass. 26 febbraio 2015, n. 24937, non massimata –che ha espressamente affermato come il divieto di utilizzazione, in procedimenti diversi, dei risultati delle intercettazioni telefoniche, attenga alla sola valutazione degli stessi quali “elementi di prova”, e non anche quali veicoli rappresentativi di una notizia di reato, idonea a giustificare, ove gravemente indiziaria, l’autorizzazione a disporre nuove operazioni di intercettazione in merito al reato emerso– nonché Cass. 5 novembre 2015-dep. 21 gennaio 2016, n. 2608.

[32] Cass., sez. un., 26 giugno 2014, n. 32697, Rv. 259776; id. 17 luglio 2012, n. 32957, Rv. 253037, anche per l’affermazione per cui l’impiego probatorio dell’intercettazione costituente corpo del reato è precluso qualora l’attività captativa sia stata eseguita in violazione di specifiche garanzie costituzionali o al di fuori dei casi consentiti dalla legge –ad esempio in riferimento ad un originario titolo di reato che non consentisse il ricorso allo strumento captativo– o in violazione delle modalità esecutive di cui agli artt. 267 e 268, commi I e III, c.p.p. 

[33] Invero, la condotta criminosa può manifestarsi attraverso contegni privi di consistenza materiale, quale una dichiarazione, e quando questa si imprima, contestualmente al­l’e­nunciazione, su un supporto, quest’ultimo si connota quale corpo del reato. Del resto, come osservato da Cass., sez. un., 26 giugno 2014, n. 32697, è la stessa disciplina in materia di intercettazioni ad annettere alla registrazione natura di copro del reato –allorché la conversazione oggetto di captazione integri la fattispecie criminosa–, laddove stabilisce, ex art. 271 c.p.p., che in ogni stato e grado del processo il giudice disponga che la documentazione relativa alle intercettazioni inutilizzabili sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato.

[34] In tema, ALVINO, Le intercettazioni, cit., pag. 231.

[35] I riflessi processuali della violazione di norme di rango costituzionale attengono alla inutilizzabilità della prova acquisita attraverso la norma valvolare di cui all’art. 191 c.p.p. (Cass. sez. un. 13 luglio 1998 n. 21, in scia a Corte cost. 6 aprile 1973, n. 34, cit.; id. sez. un. 23 febbraio 2000 n. 6). Cfr. in tema, Corte cost, sent.24 gennaio 2017 n. 20, per l’affermazione per cui “anche il diritto inviolabile protetto dall’art. 15 Cost. può subire limitazioni o restrizioni «in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia» della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione”.

[36] Cfr. per una peculiare declinazione del principio, Cass. sez. un. 25 marzo 2010 n. 13426, Rv. 246271, a giudizio elle quali l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale di cognizione, ha effetti in qualsiasi tipo di giudizio, e quindi anche nell’ambito del procedimento di prevenzione (la fattispecie regolata dalle Sezioni unite, peraltro, aveva ad oggetto una violazione procedurale apparentemente minore, quale l’assenza di motivazione in ordine all'inidoneità od insufficienza degli impianti esistenti presso la Procura della Repubblica).

[37] La distinzione tra modalità “doverose” e modalità “facoltative”, ai fini del giudizio in ordine alla legittimità costituzionale dell’aggressione alla libertà e segretezza delle comunicazioni, si deve a A. PACE, sub art. 15, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna, 1977, pag. 107.

[38] La citazione è tratta dalla sentenza in commento.

[39] La citazione è tratta dalla sentenza in commento.

[40] La citazione è tratta dalla sentenza in commento.

[41] C. CONTI, Sicurezza e riservatezza, in Dir. pen. proc., 2019, pag. 1573.

[42] F. DE LEO, Vecchio e nuovo in materia di intercettazioni, cit., c. 24.

[43] Cass. sez. un. 13 luglio 1998, cit.

[44] Del resto sin dalla sentenza 34 del 1973 la Corte costituzionale ammoniva il legislatore perché, in ossequio al dettato costituzionale, predisponesse una disciplina che, tra l’altro, stabilisse i “limiti entro i quali il materiale raccolto attraverso le intercettazioni fosse utilizzabile nel processo”.

[45] F. CORDERO, Procedura penale, 1983, pag. 910; F. CAPRIOLI, Riprese visive nel domicilio e intercettazione per immagini, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, pag. 2194.

[46] Cfr. Cass. 29 ottobre 2014, n. 52095, Rv. 261337; cfr., altresì, Cass., sez. un., 25 marzo 2010, n. 13426, Rv. 246271.

[47] Cass. civ., sez. un., 24 giugno 2010, n. 15314, cit.; id., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27292, Rv. 610804.

[48] Cass. civ. 7 febbraio 2013, n. 2916, Rv. 625254, che ha affermato, espressamente richiamando il precedente offerto da Cass. civ. 23 febbraio 2010, n. 4306, che “il divieto, posto dall’art. 270 c.p.p., di utilizzare i risultati di intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quello in cui furono disposte non opera nel contenzioso tributario, ma soltanto in ambito penale”.

[49] Cass. sez. un. 28 maggio 2003, cit.

[50] A. NAPPI, Sull’utilizzazione extrapenale dei risultati delle intercettazioni, in Cass. pen., 2014, pag. 3869.

[51] In tema, cfr., tra gli altri, M. CARTABIA, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, Roma, 2013; F. NICOLICCHIA,  Il principio di proporzionalità nell’era del controllo tecnologico e le su implicazioni processuali rispetto ai nuovi mezzi di ricerca della prova, in Dir. pen. cont., 2018.

[52] Tra le altre, CGUE 17 dicembre 2015, WebMindLicenses: nel caso la Corte ha affermato che l’utilizzo, in sede fiscale, di intercettazioni di telecomunicazioni disposte nel processo penale deve soddisfare il principio di proporzionalità.

[53] Cfr. tra le altre Corte EDU 27 aprile 2017, Sommer c. Germania, che ha ritenuto sproporzionato il continuativo controllo dei movimenti bancari di un soggetto, in concreto eccedente le esigenze di accertamento perseguite, nel caso, dall’autorità di polizia, in quanto il controllo, limitato solamente nell’ambito temporale, si era esteso a tutte le informazioni riguardanti il conto bancario e le operazioni bancarie del ricorrente , rimettendo al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria un quadro completo dell'attività professionale del ricorrente -un avvocato- e anche dei suoi clienti.

[54] Il più noto arresto, in tal senso, è rappresentato dall’intervento della Consulta nel caso Ilva (Corte cost. 27 febbraio 2015, n. 23).

[55] Si veda, quale esemplificazione applicativa del criterio di proporzionalità, Cass. sez. un.1° luglio 2016 n. 26889, Rv. 266905, in materia di captatore informatico (cfr. C. BONZANO, Gli accertamenti medici coattivi, Padova, 2017, pag. 126, per una argomentata adesione alla pronuncia, quale esemplificazione del ruolo del giudice nell’applicazione del principio di proporzionalità).

[56] Con previsione destinata ad applicarsi ai procedimenti penali iscritti successivamente al 29 febbraio 2020 (art. 2, comma VIII, d. l. 161, cit.).

[57] A norma dell’art. 266, comma II bis, c.p.p. pure novellato ad opera del decreto legge in parola, “l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile è sempre consentita nei procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, e per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell'articolo 4 c.p.p.

[58] Art. 4 d. l. 29 dicembre2017, n. 216, recante Modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni.

 

 
 
 
 
 
 

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