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Magistratura Indipendente

PENALE  

DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE - APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI

  Penale 
 domenica, 31 maggio 2020

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GLI INCERTI CONFINI TRA DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE E LE APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI DELLA “FORMULA DI FRANK”

di ALESSANDRO CENTONZE, consigliere di cassazione

 
 

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sommario: 1. Gli incerti confini tra dolo eventuale e colpa cosciente: le oscillazioni giurisprudenziali e l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato. – 2. Il superamento delle formule giurisprudenziali e l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato nelle ipotesi di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente. – 3. L’indagine sull’atteggiamento psicologico del soggetto attivo del reato e la ricognizione degli elementi sintomatici del suo comportamento. – 4. Il ricorso integrativo alla “Formula di Frank” nelle ipotesi di insufficienza degli indicatori comportamentali elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.

 

1. Gli incerti confini tra dolo eventuale e colpa cosciente: le oscillazioni giurisprudenziali e l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato.

 

Il tema della delimitazione del confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, da sempre, è stato al centro del dibattito interno alla scienza penalistica, che è intervenuta sull’argomento con opzioni dogmatiche non sempre riconducibili a una linea interpretativa unitaria[1].

Il clima di incertezza è ulteriormente accentuato dal fatto che la distinzione tra le due categorie dogmatiche postula un accertamento dell’atteggiamento psicologico dell’agente, che deve essere compiuto dall’autorità giudiziaria, che necessita di una piattaforma scientifica condivisa sulle connotazioni di tale comportamento, che non sempre è riscontrabile nell’esperienza giurisprudenziale.

In questa cornice, volendo sintetizzare i termini del dibattito giurisprudenziale, occorre anzitutto richiamare l’orientamento ermeneutico che ha individuato la linea di confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente nel diverso atteggiamento psicologico assunto dal soggetto attivo del reato rispetto agli effetti della sua azione criminosa e alla concretizzazione dell’evento illecito, su cui si concentra la rappresentazione volitiva.

Secondo questo orientamento, nel dolo eventuale, l’agente accetta il rischio che si realizzi un evento diverso da quello che rappresenta l’oggetto della programmazione, che non è voluto ma è comunque accettato; mentre, nella colpa cosciente, nonostante l’identica rappresentazione dei fatti delittuosi, il soggetto attivo del reato non accetta il rischio di verificazione dell’evento e confida nella sua capacità di controllare gli effetti della sua azione, con la conseguenza che gli accadimenti non sono né voluti né accettati[2].

In questo contesto, assume rilievo decisivo la ricostruzione dell’atteggiamento psicologico sotteso all’azione criminosa, attraverso un’operazione ermeneutica fondata sull’individuazione degli elementi sintomatici riconducibili al comportamento del soggetto attivo del reato, che accetta consapevolmente la possibilità di verificazione dell’evento, che si rappresenta come prevedibile e possibile[3].

A questa impostazione ermeneutica se ne contrappone un’altra, sostanzialmente superata, nel contesto della quale il confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente è orientato verso la condotta dell’agente, su cui si concentra la sua rappresentazione[4].

Secondo questo orientamento, nel dolo eventuale, l’agente concentra la sua rappresentazione volitiva sull’azione e l’evento si presenta come una conseguenza collaterale, ancorché accettata, della sua condotta; mentre, nella colpa cosciente, la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta, che nella coscienza dell’agente non viene concepita come concretamente realizzabile.

Si tratta, a ben vedere, della riproposizione giurisprudenziale del dualismo dogmatico che contrappone la previsione astratta della colpa cosciente e la previsione concreta del dolo eventuale[5].

Seguendo questa opzione ermeneutica, risalente alla prima metà degli anni Ottanta, nelle ipotesi di colpa cosciente è riscontrabile una volontà oppositiva, riconducibile alla sfera interiore del soggetto attivo del reato, che non è presente nel dolo eventuale, che si configura quando gli esiti previsti sono probabili o anche solo possibili e, pur avendo maturato tale consapevolezza, l’agente ne accetta le conseguenze. In questo contesto, il dolo eventuale non postula alcuna finzione giuridica, ma presuppone l’accertamento della condizione psicologica dell’agente, che agisce accettando il rischio della verificazione dell’evento, trasferendo nel suo ambito volitivo l’oggetto della sua rappresentazione[6].

A fronte di tali contrasti ermeneutici, analoga incertezza si riscontra nell’attribuire una precisa connotazione psichica, scientificamente condivisibile, all’atteggiamento interiore assunto dal soggetto attivo del reato rispetto all’accettazione o al rifiuto delle conseguenze del suo comportamento, dal cui accertamento dipende la qualificazione della sua condotta come lecita o illecita. Tale accertamento, infatti, postula il riferimento a concetti, dai contorni neuro-scientifici controversi, come la speranza, il desiderio o la paura; speranza, desiderio, paura che l’evento illecito, prefigurato dal soggetto attivo del reato, si verifichi o non si verifichi[7].

Ancora una volta il riferimento alla giurisprudenza di legittimità intervenuta sul punto, non appare risolutivo, com’è evidente dalle pronunzie che si sono concentrate sulla nozione di speranza, da intendere come sfondo emotivo dell’atteggiamento interiore dell’agente, su cui sono rinvenibili alcune isolate ma significative decisioni della Corte di cassazione.

In tali ipotesi, alla speranza come categoria della volizione dell’agente viene attribuito rilievo meramente valutativo, consistente nella rappresentazione delle conseguenze delle azioni probabili o solo possibili dell’agente, idonea a configurare la colpa cosciente, ritenendosi che, in questi casi, il soggetto ha agito nel ragionevole convincimento – o appunto nella speranza – che l’evento illecito oggetto della sua elaborazione psichica non si realizzi[8].

Questa nozione è richiamata anche dalla risalente giurisprudenza, già citata[9], che, l’ha ritenuta rilevante quando presenti il carattere della ragionevolezza. Si è, in particolare, affermato che sussiste il dolo eventuale e non la colpa cosciente se il soggetto attivo del reato, pur non volendo l’evento, ne accetta il rischio di verificazione come conseguenza della sua azione, sulla quale si concentra la sua rappresentazione volitiva[10].

Per converso, il soggetto attivo del reato risponde a titolo di colpa cosciente quando, pur rappresentandosi l’evento che si è prefigurato come possibile risultato della sua azione criminosa, agisce nella speranza, valutabile in termini di ragionevolezza, che lo stesso non si verifichi[11].

In questo stratificato contesto ermeneutico, occorre prendere atto conclusivamente che le formule giurisprudenziali, alle quali si è fatto riferimento, possono risultare poco utili nella loro astrattezza, con la conseguenza che, per avere un quadro attendibile del panorama ermeneutico nostrano, è probabilmente più conducente il riferimento ai casi più problematici o comunque emblematici per la loro risonanza mediatica e alle soluzioni concretamente adottate nelle sedi giudiziarie di merito e di legittimità.

 

2. Il superamento delle formule giurisprudenziali e l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato nelle ipotesi di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente.

 

Le considerazioni esposte nel paragrafo precedente ci fanno comprendere la ragione per cui nelle ipotesi di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente la giurisprudenza di legittimità, quando il contesto è particolarmente controverso, tende a privilegiare una lettura eminentemente fattuale della vicenda criminosa, dedicandosi «con grande attenzione alla lettura dei dettagli fattuali che possono orientare alla lettura del moto interiore che sorregge la condotta»[12].

Del resto, ogni altra soluzione finisce per essere inquinata dall’approccio ermeneutico prescelto dall’autorità giudiziaria, la cui decisione, nell’incertezza dei parametri neuro-scientifici di riferimento, può risultare connotata da un’ingiustificata arbitrarietà valutativa[13]. In questo contesto, estremamente stratificato e condizionato da elevati margini di incertezza, appaiono condivisibili le considerazioni espresse dalle Sezioni unite, che, nella nota sentenza sul “Caso Thyssenkrupp”, hanno affermato: «Noi non sappiamo esattamente cosa sia la volontà: la psicologia e le neuroscienze hanno fino ad ora fornito informazioni e valutazioni incerte, discusse, allusive. Tuttavia, la comune esperienza interiore ci indica in modo sicuro che nella nostra vita quotidiana sviluppiamo continuamente processi decisionali, spesso essenziali per la soluzione di cruciali contingenze esistenziali: il pensiero elaborante, motivato da un obiettivo, che si risolve in intenzione, volontà»[14].

Tale problematicità, che riflette il rapporto ambiguo tra diritto penale e accertamento neuro-scientifico[15], appare accentuata nelle ipotesi in cui dolo eventuale e colpa cosciente, sul piano della ricostruzione processuale, si lambiscono, rischiando di sovrapporsi e ponendo il problema – difficilmente risolvibile sul piano scientifico – dell’individuazione dei parametri psicologici sulla base dei quali affermare che l’agente ha agito accettando le conseguenze, dirette e indirette, della sua condotta illecita. Occorre, del resto, prendere atto del fatto che spesso la rappresentazione volitiva degli accadimenti criminosi riguarda un evento illecito il cui coefficiente probabilistico non permette di risolvere in termini soddisfacenti il dubbio sulla natura colposa o dolosa dell’azione criminosa[16].

Frequente, invero, è il caso in cui, pur in presenza di accertamenti processuali particolarmente accurati, non vi sono elementi di giudizio che consentano di ricostruire in termini certi quali siano la direzione della volontà del soggetto attivo del reato e il suo atteggiamento psicologico rispetto all’evento illecito, non direttamente voluto ma costituente una conseguenza della sua condotta. In queste ipotesi, il contesto processuale è aperto all’incertezza e impone, allo scopo di affermare o escludere la colpevolezza del soggetto attivo del reato, di accertare quale sia l’atteggiamento psichico rispetto all’evento delittuoso collaterale sul quale si sia formato il processo volitivo sottostante all’azione criminosa[17].

Queste conclusioni, naturalmente, non possono comportare alcun arretramento sul piano della differenziazione ermeneutica tra dolo eventuale e colpa cosciente, dovendosi rimarcare che la linea di confine tra i due istituti è inequivocabile, con la conseguenza che le incertezze di cui stiamo parlando riguardano unicamente le modalità di accertamento processuale dell’atteggiamento psicologico del soggetto attivo del reato in ciascuna delle due figure, che sono e devono continuare a rimanere distinte.

Invero, dolo e colpa, a prescindere dalle difficoltà connesse all’accertamento processuale, continuano a essere forme di colpevolezza radicalmente diverse ed è alla luce di tale diversità che deve essere individuata, nei casi più problematici, la linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente. Si deve, dunque, prendere atto che queste figure appartengono a due ambiti dogmatici eterogenei e tale diversità è resa evidente dagli elementi che caratterizzano i due istituti; diversi, difatti, sono la struttura del reato, l’evento previsto dall’agente, l’animus che caratterizza ciascuno dei due comportamenti criminosi.

Occorre, pertanto, ribadire la diversità delle due figure, che prescinde dalla difficoltà di accertare l’atteggiamento psicologico del soggetto attivo del reato nelle ipotesi di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, il cui discrimine, nelle ipotesi più controverse, è rappresentato dall’individuazione di elementi sintomatici del comportamento dell’agente, che consentano di affermare la sua adesione interiore all’evento per il caso che lo stesso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta della propria condotta, ma semplicemente accettata.

In questa cornice, occorre precisare ulteriormente che nel dolo eventuale e nella colpa cosciente la previsione dell’evento da parte del soggetto attivo del resto si connota diversamente, essendo differente la piattaforma cognitiva sottostante alla colpevolezza dolosa e alla colpevolezza colposa.

Infatti solo nelle ipotesi di comportamenti dolosi ci si trova di fronte ad azioni organizzate e orientate finalisticamente, attraverso un processo intellettuale che, pur con tempi di sedimentazione variabili, sfocia pur sempre in una decisione pienamente consapevole che determina la concretizzazione di una condotta antigiuridica[18]. Soltanto il dolo, del resto, esprime la più intensa adesione interiore al fatto illecito, tanto da rappresentare la forma fondamentale e generale della colpevolezza, conseguente alla contrapposizione diretta dell’individuo alla norma penale[19].

Ed è proprio questo atteggiamento di radicale contrapposizione alla legge a giustificare un trattamento sanzionatorio più severo di quello riservato ai comportamenti illeciti di natura colposa nei quali si censura l’inosservanza di prescrizioni cautelari.

Ne discende ulteriormente che nel dolo non può mancare la conoscenza di tutti gli elementi della fattispecie descritta dalla norma incriminatrice, come conseguenza del fatto che le istanze di garanzia sottese alla censura caratteristica della colpevolezza dolosa richiedono che l’evento oggetto della rappresentazione costituisca il frutto di una rappresentazione volitiva sufficientemente concreta e sia caratterizzato da una concreta possibilità di verificazione. Infatti, solo in riferimento a una rappresentazione volitiva che si presenti con queste caratteristiche è possibile istituire la relazione di adesione interiore del soggetto attivo del reato che consenta di configurare l’imputazione soggettiva a titolo di dolo[20].

Viceversa, la colpevolezza colposa ha una matrice dogmatica differente, essendosi affermata nel mondo governato dal principio di colpevolezza da un tempo relativamente breve, quale frutto di una elaborata speculazione teorica, alla quale la giurisprudenza di legittimità ha aderito[21].

La colpevolezza colposa, al contempo, rimane una figura di matrice eminentemente normativa[22] e di difficile inquadramento sistematico, com’è testimoniato dal fallimento dei periodici tentativi di configurare un concetto unitario di colpevolezza su una base psicologica scientificamente condivisa[23].

Queste differenze, pertanto, giustificano, nelle ipotesi di colpevolezza colposa, la diversa descrizione dell’evento illecito e comportano forme di consapevolezza della sfera fattuale diverse e più sfumate rispetto a quella propria della responsabilità dolosa. Nelle ipotesi di colpevolezza colposa, infatti, è sufficiente che l’evento esprima la concretizzazione del rischio tutelato dalla norma cautelare, rispetto alla quale la rappresentazione dell’agente è più sfumata, pur preservando i tratti essenziali che connettono causalmente la violazione cautelare con l’evento delittuoso.

Appare evidente che l’opzione ermeneutica[24] che punta alla valorizzazione della rilevanza della volontà del soggetto attivo del reato anche nell’ambito delle fattispecie colpose è l’unica pienamente rispettosa del contesto sistematico che si è descritto, che il momento dell’accertamento processuale dell’atteggiamento psicologico assume un ruolo decisivo ai fini della formulazione del giudizio di colpevolezza sia nelle ipotesi di dolo eventuale sia nelle ipotesi di colpa cosciente, ferme restando le differenze strutturali esistenti tra i due istituti[25].

Si tratta, allora, pur con i limiti propri dell’accertamento giurisdizionale, di ricostruire gli accadimenti criminosi, spiegando il percorso decisionale seguito dal soggetto attivo del reato, allo scopo di comprendere le ragioni che lo hanno indotto ad agire in una determinata direzione e di enucleare i fattori del suo processo volitivo. In altre parole, utilizzando gli strumenti propri del processo penale, occorre comprendere «se l’agente si sia lucidamente raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell’evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, si sia per così dire confrontato con esso e infine, dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l’eventualità della causazione dell’offesa»[26].

Quello che, allora, assume rilievo decisivo è l’accertamento dell’atteggiamento psicologico dell’agente, che postula una comprensione della base fattuale su cui il suo percorso decisionale si è consolidato, alla luce di un percorso razionale rapportato all’evento illecito considerato, che dovrà essere valutato nella sua concretezza.

Non possono, infine, rilevare gli atteggiamenti della sfera emotiva, come l’ottimismo e il pessimismo, che non hanno un ruolo decisivo nell’indagine sul comportamento interiore del soggetto attivo del reato, che, oltre a risultare scarsamente decifrabili, non assumono un rilievo sintomatico decisivo rispetto all’offesa del bene giuridico provocata dalla condotta illecita.

 

3. L’indagine sull’atteggiamento psicologico del soggetto attivo del reato e la ricognizione degli elementi sintomatici del suo comportamento.

 

Sulla scorta di quanto si è affermato nei paragrafi precedenti diventa necessario individuare gli elementi sintomatici su cui incentrare, con gli strumenti propri del processo penale, l’indagine sull’atteggiamento psicologico dell’agente, indispensabile per stabilire se la condotta illecita debba essere ricondotta al dolo eventuale o alla colpa cosciente.

Occorre anzitutto sgomberare il campo da un equivoco, precisando che tali indicatori comportamentali non sono decisivi per inquadrare la colpevolezza dell’agente, ma servono a ricostruire, su un piano sintomatico, il processo decisionale e le ragioni che hanno spinto il soggetto attivo del reato ad agire, sulla base di una ponderata valutazione della possibilità che l’evento collaterale e non voluto si potesse realizzare. Ne consegue che tali indicatori comportamentali sono privi di esaustività e non devono essere valutati astrattamente, risultando strumentali alla formulazione del giudizio di colpevolezza che deve essere espresso nei confronti dell’imputato, per affermare il quale è indispensabile risolvere il problema preliminare della riconducibilità della condotta illecita al dolo eventuale o alla colpa cosciente[27].

Questa operazione ermeneutica, al contempo, deve essere sottratta al rischio di pericolose astrazioni, dovendosi ribadire che gli indicatori comportamentali su cui ci si soffermerà nel corso di questo paragrafo hanno, quale funzione preminente, quella di essere utilizzati in ambito giurisdizionale, attraverso l’accertamento processuale, decisivo per ricostruire il processo volitivo dell’agente.

In questa cornice, cominciamo con l’osservare che la condotta materiale dell’agente, quale elemento sintomatico del suo atteggiamento psicologico, assume una rilevanza generalmente decisiva nei delitti di evento, il più paradigmatico dei quali è quello dell’omicidio, nelle sue molteplici varianti tipologiche, dolose, colpose e preterintenzionali.

Rilevano in questa direzione, a titolo meramente esemplificativo, nell’ipotesi dell’omicidio doloso, la sussistenza di una preordinazione criminosa; le caratteristiche dell’arma utilizzata per uccidere la vittima; il numero dei colpi esplosi all’indirizzo della persona offesa se si utilizza un’arma da fuoco o il numero dei fendenti se si utilizza un’arma da taglio; le aree corporee prese di mira dall’agente e quelle effettivamente attinte.

Esemplare, sotto questo profilo, è il dibattito giurisprudenziale sviluppatosi nell’ultimo decennio sulla configurazione dell’aggravante dell’art. 61, comma primo, n. 4, cod. pen., da ultimo risolto dalle Sezioni unite, che hanno affermato il seguente principio di diritto: «La circostanza aggravante dell’avere agito con crudeltà, di cui all'art. 61, primo comma, n. 4, cod. pen., è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole»[28].

Considerazioni differenti, invece, valgono per le fattispecie colpose, governate dall’applicazione di regole cautelari, rispetto alle quali, ai fini della formulazione del giudizio di responsabilità, assume un rilievo decisivo la divaricazione della condotta illecita tenuta dall’agente dai modelli comportamentali prefigurati dalla fattispecie di considerata. Ne consegue che quanto più grave o addirittura estremo è l’atteggiamento assunto dall’agente, come conseguenza della distanza del suo comportamento dai parametri cautelari presupposti, tanto maggiore è la possibilità che la sua condotta sfoci in una valutazione in chiave dolosa del suo operato.

Da questo punto di vista, appaiono emblematiche le ipotesi di reati collegati alla circolazione stradale dei veicoli, nei quali il giudizio di responsabilità a titolo di colpa cosciente costituisce la regola, la cui eccezione – nella direzione del dolo eventuale – è rappresentata da quei casi emblematici in cui l’agente ha mostrato una determinazione criminosa sedimentata e persistente, manifestando la volontà di correre rischi altissimi senza porre in essere alcuna misura per governare l’eventualità del sinistro. Sotto questo profilo, appare utile richiamare la giurisprudenza della Suprema corte, che, in materia di omicidio plurimo commesso da un soggetto postosi alla guida di un veicolo in condizioni di ubriachezza, ha affermato il seguente principio di diritto: «In tema di elemento soggettivo, sussiste il dolo eventuale e non la colpa cosciente, quando l’agente si sia rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento e si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di cagionarlo come sviluppo collaterale o accidentale, ma comunque preventivamente accettato, della propria azione, in modo tale che, sul piano del giudizio controfattuale, possa concludersi che egli non si sarebbe trattenuto dal porre in essere la condotta illecita, neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento medesimo»[29].

Occorre, al contempo, rifuggire dalla tentazione di ricondurre nell’ambito del dolo eventuale ogni comportamento improntato a gravi violazioni delle regole cautelari, quasi che la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente fosse fondata su dati quantitativi collegati alle modalità di guida del veicolo, piuttosto che su un esame delle specificità del caso concreto, attraverso cui attribuire un atteggiamento di volizione dell’evento lesivo, comprensivo della possibilità di verificazione del sinistro stradale[30].

Un rilievo differente ulteriore deve essere attribuito alla personalità dell’agente, al suo vissuto criminale e alle sue esperienze umane, collegati, direttamente o indirettamente, alla commissione del reato, di volta in volta considerato, che spesso risultano decisivi per ricondurre la condotta illecita al dolo eventuale o alla colpa cosciente.

Non v’è dubbio, infatti, che tali fattori anagrafici costituiscono un indice sintomatico di particolare rilievo per accertare l’atteggiamento psicologico con cui il soggetto si è determinato ad agire, atteso che tale indicatore comportamentale – pur con i pericoli di giudizi inquinati dalla “colpa d’autore”[31] – se applicato senza pregiudizi soggettivi, può «mostrare le caratteristiche dell’agente, la sua cultura, l’intelligenza, la conoscenza del contesto nel quale sono maturati i fatti; e quindi l’acquisita consapevolezza degli esiti collaterali possibili. Insomma, essa ha un peso indiscutibile, soprattutto nell’ambito del profilo conoscitivo del dolo»[32].

Né potrebbe essere diversamente, atteso che, a differenza di altri ordinamenti giuridici, nel sistema penale italiano la graduazione della responsabilità, nelle ipotesi di confine di cui ci si sta occupando, si colloca in un’area individuabile attraverso le sfumature dell’interpretazione della sfera volitiva dell’agente, rispetto alla quale un peso decisivo è certamente assunto dalla personalità dell’agente e dalle sue esperienze, umane e criminali[33].

Rilevano, ancora, la durata e la ripetizione della condotta illecita, essendo evidente che un comportamento connotato da un’azione repentina e impulsiva accredita l’ipotesi di un’insufficiente ponderazione delle possibili conseguenze illecite. Né è dubitabile che l’atto compiuto impulsivamente, in uno stato di alterazione emotiva, costituisce un indicatore altamente sintomatico di una condotta imprudente piuttosto che la dimostrazione dell’accettazione della possibilità che si verifichino eventi illeciti.

Per contro, una condotta illecita lungamente ponderata, frutto di sedimentazione psichica, induce a ipotizzare che vi sia stata una previsione dell’evento illecito, con la conseguente accettazione degli effetti lesivi dell’azione criminosa.

Proseguendo nella panoramica degli indicatori comportamentali utili a ricondurre la condotta del soggetto attivo del reato nell’alveo del dolo eventuale ovvero della colpa cosciente, occorre richiamare quelli concernenti la condotta successiva al fatto di reato oggetto di vaglio e le conseguenze lesive del comportamento criminoso. 

Quanto, in particolare, alla condotta successiva al fatto di reato deve rilevarsi che la fattiva e spontanea opera di soccorso prestata dall’agente alla vittima può assumere un rilievo significativo nell’accreditare un atteggiamento riconducibile alla colpa cosciente e non al dolo eventuale[34].

Per converso, l’estremo tentativo di fuga dell’autore di un reato, pur dopo un incidente stradale dagli esiti lesivi, generalmente dimostra l’estrema determinazione dell’agente di sottrarsi all’intervento di polizia, anche a costo di provocare la morte degli individui che si trovano a intralciare occasionalmente il suo percorso automobilistico, attestando l’adesione dolosa dell’agente alla prospettiva criminosa realizzatasi[35].

Quanto, infine, alle conseguenze negative o lesive anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento, deve rilevarsi che si tratta di un indicatore comportamentale utile nell’infortunistica stradale, che generalmente accredita l’ipotesi colposa[36].

Questo indicatore soggettivo, naturalmente, comporta, nelle ipotesi di reati collegati alla circolazione stradale, che non si verta nell’ambito applicativo dell’art. 189, comma 7, cod. strada, la cui configurazione «presuppone quale antefatto non punibile un incidente stradale da cui sorge l’obbligo di assistenza anche nel caso di assenza di ferite in senso tecnico, essendo sufficiente lo stato di difficoltà indicativo del pericolo che dal ritardato soccorso può derivare per la vita o l’integrità fisica della persona»[37].

 

4. Il ricorso integrativo alla “Formula di Frank” nelle ipotesi di insufficienza degli indicatori comportamentali elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.

 

Dopo avere passato in rassegna i parametri giurisprudenziali utili ad accertare quale sia l’atteggiamento psicologico del soggetto attivo del reato, allo scopo di distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente, occorre soffermarsi conclusivamente sulla “Formula di Frank”[38], che è certamente il «più importante e discusso indicatore del dolo eventuale che si configura quando, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, è possibile ritenere che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento»[39].

Occorre premettere che si è ritenuto di esaminare autonomamente l’applicazione giurisprudenziale della “Formula di Frank” per la ragione che tale modello di analisi dell’atteggiamento psicologico dell’agente si differenzia da quelli esaminati nel paragrafo precedente per la sua natura di strumento epistemologico ed extragiudiziario. La “Formula di Frank”, infatti, costituisce un modello di analisi dell’elemento soggettivo al contempo integrativo e surrogatorio rispetto agli altri indicatori comportamentali, ricavabili dal compendio probatorio acquisito nei giudizi di merito.

Con questa indispensabile premessa, cominciamo con l’osservare che, secondo l’impostazione teorica sottesa alla “Formula di Frank”, che ha avuto origine nella dottrina tedesca di fine Ottocento[40], la colpa cosciente è una categoria dogmatica confinante con quella del dolo eventuale, che rappresenta la condizione del soggetto che agisce con la consapevolezza della possibilità di verificazione di un evento delittuoso, di cui accetta il rischio.

Occorre, invece, precisare che la “Formula di Frank” veniva inizialmente recepita dalla giurisprudenza nostrana con riferimento al rapporto tra le fattispecie della ricettazione e dell’incauto acquisto. In tale ambito, la necessità di un approccio rigoroso nell’accertamento dell’elemento soggettivo – secondo quanto affermato nella sentenza “Nocera”, che per prima canonizzava la possibilità di ricorrere alla “Formula di Frank” – era funzionale a delimitare l’ambito di applicazione del reato di ricettazione rispetto a quello di incauto acquisto, allo scopo di evitare che, attraverso il dolo eventuale, le condotte incaute venissero ricondotte surrettiziamente alla fattispecie di cui all’art. 648 cod. pen.[41]

In questo contesto, occorre richiamare il passaggio motivazionale contenuto nella sentenza “Nocera”, in cui le Sezioni unite precisavano che «perché possa ravvisarsi il dolo eventuale si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse […]»[42]. Occorreva, pertanto, una «situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire, perciò, richiamando un criterio elaborato in dottrina per descrivere il dolo eventuale, può ragionevolmente concludersi che questo rispetto alla ricettazione è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza»[43].

Il richiamo testuale di tali passaggi motivazionali rende evidente che questo modello di analisi dell’elemento soggettivo del reato, al contrario degli indicatori comportamentali esaminati nel paragrafo precedente, non è empiricamente verificabile, costituendo una piattaforma epistemologica che, in quanto tale, non rappresenta un criterio di controllo fattuale del dolo eventuale, necessitando di una verifica giurisdizionale funzionale a correlare l’evento delittuoso con l’azione criminosa, alla luce della rappresentazione volitiva dell’agente[44].

A distanza di anni, le Sezioni unite, con la sentenza “Espenhahn”[45] tornavano a occuparsi della “Formula di Frank”, nell’ampio contesto ermeneutico esaminato nei paragrafi precedenti, allo scopo di chiarire i confini distintivi tra dolo eventuale e colpa cosciente, elaborando un modello di analisi dell’elemento soggettivo del reato eminentemente incentrato sull’accertamento processuale dell’atteggiamento psicologico dell’agente.

Le Sezioni unite, innanzitutto, ribadivano la necessità di distinguere, sul piano dogmatico, le figure del dolo eventuale e della colpa cosciente, affermando il seguente principio di diritto: «In tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo»[46].

Le Sezioni unite, al contempo, richiamando espressamente la “Formula di Frank”, indicavano, sia pure in termini semplificativi, gli elementi comportamentali utili a distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente, affermando il seguente principio di diritto: «In tema di elemento soggettivo del reato, per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l’“iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento»[47].

In questa cornice ermeneutica, le categorie del dolo eventuale e della colpa cosciente venivano concepite dalle Sezioni unite come figure contigue e speculari, nel cui contesto la “Formula di Frank” veniva richiamata paradigmaticamente quale modello di analisi dell’elemento soggettivo del reato utile a risolvere i casi di confine tra le due figure. Tuttavia, è proprio questa contiguità ermeneutica a imporre al giudice del merito, secondo quanto affermato dalle stesse Sezioni unite, di compiere una verifica rigorosa del compendio probatorio, il cui vaglio non deve lasciare spazio a presunzioni o a semplificazioni processuali[48].

La “Formula di Frank”, pertanto, è un modello di analisi dell’elemento soggettivo incentrato su un giudizio ipotetico, che, del resto, non è estraneo alla scienza penalistica che da valutazioni congetturali e controfattuali è pervasa. L’importante è, come hanno sottolineato le Sezioni unite, che «si sia in possesso di informazioni altamente affidabili che consentano di esperire il controfattuale e di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l’agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell’evento illecito collaterale»[49].

Occorre aggiungere che tale situazione processuale non sempre si verifica, atteso che spesso il dubbio rimane irrisolto, in quanto vi sono casi in cui neppure l’interessato sarebbe in grado di chiarire con quale atteggiamento psicologico si è determinato ad agire. Ne consegue che il modello di analisi in esame costituisce un modello di analisi certamente risolutivo, ma il cui utilizzo presuppone che si riesca a esperire in modo affidabile e concludente un giudizio controfattuale sul comportamento criminoso.

Per queste ragioni, l’accertamento del dolo eventuale non può essere affidato, almeno tendenzialmente, solo al modello di analisi incentrato sulla “Formula di Frank”, essendo opportuno, come affermato dalle Sezioni unite, che il giudice, nel compiere una tale valutazione processuale, si avvalga «di tutti i possibili, alternativi strumenti d’indagine»[50], a condizione, naturalmente che gli stessi siano utilizzabili e affidabili.

Ne discende che l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato, nelle ipotesi di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, laddove possibile, non deve essere affidato solo a tale strumento epistemologico, dovendo il giudice avvalersi di tutti gli strumenti d’indagine di cui dispone.

A ben vedere, il tema dell’accertamento del dolo eventuale pone al centro della riflessione – al contempo culturale ed ermeneutica – la figura del giudice, che potrà affrontare un’indagine tanto delicata e complessa come quella alla quale ci si è riferiti «solo se abbia matura consapevolezza del proprio ruolo di professionista della decisione; e sia determinato a coltivare ed esercitare i talenti che tale ruolo richiedono: assiduo impegno a ricercare, con le parti, i fatti fin nei più minuti dettagli; e ad analizzarli, soprattutto, con un atteggiamento di disinteresse, cioè di purezza intellettuale che consenta di accogliere, accettare senza pregiudizi il senso delle cose; di rifuggire da interpretazioni precostituite, di maniera; di vagliare e ponderare tutte le acquisizioni con equanimità»[51].

 



* Questo contributo riproduce, con alcune modifiche, il mio saggio I confini tra dolo eventuale e colpa cosciente, l’atteggiamento psicologico dell’agente e l’applicazione della “Formula di Frank”, in AA.VV., I criteri di verificabilità empirica dei giudizi di colpa, con particolare riferimento all’ambito sanitario, a cura di S. Aleo, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2020, pp. 569-573. Le modifiche sono state apportate al testo originario allo scopo di sintetizzare alcune parti dell’esposizione, giustificate dal contesto accademico al quale l’opera collettanea era destinata, rendendo più scorrevole la lettura dell’intervento.    

[1]  Non è possibile dare conto in termini esaustivi del dibattito che si è sviluppato in dottrina sugli istituti del dolo eventuale e della colpa cosciente; con questa indispensabile precisazione, ci si permette di richiamare gli studi di: S. Aleo, Il disvalore e le forme generali della responsabilità penale: prospettive di teoria e riforma del diritto penale, Giuffrè, Milano, 1989; G.A. De Francesco, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, pp. 113 ss.; G. Marinucci, Non c’è dolo senza colpa. Morte della «imputazione oggettiva dell’evento» e trasfigurazione nella colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, pp. 3 ss.

[2]  Per inquadrare l’opzione ermeneutica richiamata nel testo, tra le tante pronunzie di legittimità, si rinvia a Cass. pen., Sez. IV, 20 giugno 2018, Carmignani, n. 32221, in C.E.D. Cass.¸ n. 273460; Cass. pen., Sez. IV, 3 luglio 2012, Giacalone, n. 39898, in C.E.D. Cass.¸ n. 254673; Cass. pen., Sez. IV, 10 febbraio 2009, Bodac, n. 13083, in C.E.D. Cass., n. 242979.

[3] Si veda Cass. pen., Sez. IV, 10 ottobre 1996, Boni, n. 11024, in C.E.D. Cass., n. 207333.

[4] Per inquadrare l’opzione ermeneutica richiamata nel testo si rinvia a Cass. pen., Sez. I, 24 febbraio 1994, Giordano, n. 4583, in C.E.D. Cass., n. 198272; Cass. pen., Sez. I, 3 giugno 1993, Piga, n. 7382, in C.E.D. Cass., n. 195270.

[5] Sul dualismo dogmatico richiamato nel testo si vedano gli interventi di G.A. De Francesco, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., pp. 113 ss.; G. Marinucci, Non c’è dolo senza colpa, cit., pp. 3 ss.

[6] Si vedano Cass. pen., Sez. I, 17 marzo 1980, Siniscalchi, n. 5786, in C.E.D. Cass., n. 145219; Cass. pen., Sez. I, n. 9699 del 30 maggio 1980, Milan, n. 9699, in C.E.D. Cass., n. 146043.

[7] Sul problema della delimitazione degli spazi applicativi tra dolo eventuale e colpa cosciente, alla luce del rapporto tra psicologia scientifica e accertamento giurisdizionale, si rinvia a O. Di Giovine, Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso comune, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 30 gennaio 2017, pp. 1 ss.; F. Basile - F. Vallar, Neuroscienze e diritto penale: le questioni sul tappeto, in dir. pen. contemp., 2017, 4, pp. 270 ss.

[8]  Si vedano Cass. pen., Sez. I, 24 maggio 1984, Albergo, n. 1264, in C.E.D. Cass., n. 165106; Cass. pen., Sez. IV, 8 gennaio 1988, Margheri, n. 27, in C.E.D. Cass., n. 177326.

[9]  Si vedano Cass. pen., Sez. I, 17 marzo 1980, Siniscalchi, n. 5786, cit.; Cass. pen., Sez. I, n. 9699 del 30 maggio 1980, Milan, n. 9699, cit.

[10] Si veda S. Aleo, Istituzioni di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 199 ss.;  Id., Il dolo eventuale, le figure delittuose aggravate dall’evento e i diversi piani possibili di imputazione soggettiva del comportamento, in Studi in onore di Mauro Ronco, a cura di E. M. Ambrosetti, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 199 ss.

[11] Si vedano Cass. pen., Sez. I, 7 aprile 1989, Calò, n. 4912, in C.E.D. Cass., n. 180978; Cass. pen., Sez. V, 17 ottobre 1986, Asquino, n. 13274, in C.E.D. Cass., n. 174418.

[12] Si tratta di una posizione espressa nella nota pronuncia di legittimità Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, C.E.D. Cass., n. 261104; su questa pronuncia si vedano gli interventi dottrinari di G. Fiandaca, Le Sezioni unite tentano di diradare il “mistero” del dolo eventuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, pp. 1938 ss.; M. Ronco, La riscoperta della volontà nel dolo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, pp. 1953 ss.

[13] È questo, ad esempio, il punto di vista espresso in dottrina da O. Di Giovine, Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso comune, cit., pp. 4-6.

[14] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit., p. 176.

[15] Si rinvia, sul punto, a F. Basile - F. Vallar, Neuroscienze e diritto penale, cit., pp. 275-276.

[16] Su questi temi, si rinvia a Cass. pen., Sez. I, 11 marzo 2015, Beti, n. 18220, in C.E.D. Cass., n. 263856.

[17] Si veda Cass. pen., Sez. I, 11 marzo 2015, Beti, n. 18220, cit.

[18] Sulla concezione finalistica del dolo, tra gli altri, si vedano C. Roxin, Sul problema del diritto penale della colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, pp. 16 ss.; T. Padovani, Teoria della colpevolezza e teoria della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, pp. 798 ss.

[19] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit., p. 176; sul punto, si veda anche l’intervento di T. Padovani, Teoria della colpevolezza e teoria della pena, cit., pp. 810-803.

[20] Si vedano Cass. pen., Sez. I, 7 aprile 1989, Calò, n. 4912, cit.; Cass. pen., Sez. V, 17 ottobre 1986, Asquino, n. 13274, cit.

[21] Nel contesto ermeneutico richiamato nel testo ci si permette di rinviare ad alcune pronunzie delle Sezioni unite, tra cui Cass. pen., Sez. un., 22 gennaio 2009, Ronci, n. 2276, in C.E.D. Cass., n. 243381; Cass. pen., Sez. un., 23 novembre 1990, Tescaro, n. 1003, in C.E.D. Cass., n. 186372.

[22] Su questi temi, si rinvia a F. Giunta, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, pp. 86 ss.

[23] Su questi temi, si rinvia a M. Gallo, Il concetto unitario di colpevolezza, Giuffrè, Milano, 1951.

[24] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[25] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[26] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[27] In questa direzione, si vedano G. Fiandaca, Le Sezioni unite tentano di diradare il “mistero” del dolo eventuale, cit., pp. 1938 ss.; M. Ronco, La riscoperta della volontà nel dolo, cit., pp. 1953 ss.. 

[28] Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto dalla massima riportata dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione con riferimento a Cass. pen., Sez. un. 23 giugno 2016, n. 40516, in C.E.D. Cass., n. 267629.

[29] Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto dalla massima riportata dall’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione con riferimento a Cass. pen., Sez. I, 11 marzo 2015, Beti, n. 18220, cit., che deve essere valutato in stretta correlazione all’ulteriore principio affermato nella stessa pronuncia, massimato con il n. 263857, secondo cui: «La regola secondo cui l’imputabilità non è esclusa né diminuita dall’ubriachezza o dall’assunzione di sostanze stupefacenti, a meno che esse non siano conseguenza di caso fortuito o forza maggiore, non esime dal dovere di accertamento della colpevolezza attraverso l’indagine sull’atteggiamento psicologico tenuto dall’agente al momento della commissione del fatto ascrittogli».

[30] Si veda Cass. pen., Sez. I, 11 marzo 2015, Beti, n. 18220, cit.

[31] Sulla “colpa d’autore” e sui pericoli che vi sono connessi, si vedano G. Bettiol, Colpevolezza normativa e pena retributiva oggi, in Gli ultimi scritti e la lezione di congedo, CEDAM, Padova, 1984, pp. 105 ss.; F. Bricola, Teoria generale del reato (voce), in Noviss. dig. it., UTET, 1977, pp. 26 ss.

[32] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[33] Si veda Cass. pen., Sez. IV, 8 marzo 2018, A., n. 14663, in C.E.D. Cass., n. 273014.

[34]  Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[35] Si veda Cass. pen., Sez. I, 18 maggio 2017, H., n. 29165, in C.E.D. Cass., n. 270280.

[36] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[37] Si veda Cass. pen., Sez. IV, 6 aprile 2018, Barbieri, n. 21049, in C.E.D. Cass., n. 273255.

[38] Con tale espressione è passata alla storia del diritto penale moderno l’elaborazione dogmatica del dolo eventuale di Reinhard Frank, per inquadrare la quale si rinvia a R. Frank, Vorstellung und Wille in der modernen Doluslehre, in ZStW, 1890, pp. 170 ss.; deve però precisarsi che il primo Autore a utilizzare l’espressione “Formula di Frank” fu R. von Hippel, Die Grenze von Vorsatz und Fahrlässigkeit. Eine dogmatische Studie, Hirzel, Leipzig, 1903, pp. 52 ss.

[39] Il passaggio motivazionale richiamato nel testo è estrapolato da Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit., p. 187.

[40] Per una ricostruzione del dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, che ha accompagnato l’elaborazione e l’applicazione della “Formula di Frank”, si rinvia a G. Gentile, Se avessi previsto tutto questo…, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 30 ottobre 2013, pp. 1 ss.

[41] Si veda Cass. pen., Sez. un., 26 novembre 2009, Nocera n. 12433, in C.E.D. Cass., n. 246324.

[42] Si veda Cass. pen., Sez. un., 26 novembre 2009, Nocera n. 12433, cit., p. 10.

[43] Il passaggio motivazionale richiamato nel testo è estrapolato da Cass. pen., Sez. un., 26 novembre 2009, Nocera n. 12433, cit., pp. 10-11.

[44]  Si veda Cass. pen., Sez. un., 26 novembre 2009, Nocera n. 12433, cit.

[45] Ci si riferisce, naturalmente, a Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[46] Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto dalla massima, recante numero 261104, riportata dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione con riferimento a Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[47] Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto dalla massima, recante numero 261105, riportata dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione con riferimento a Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[48] Si veda Cass. pen., Sez. un., 26 novembre 2009, Nocera n. 12433, cit.

[49] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[50] Si veda Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

[51] La frase richiamata nel testo è estrapolata da Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, Espenhahn, n. 38343, cit.

 

 
 
 
 
 
 

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