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Magistratura Indipendente

ORDINAMENTO GIUDIZIARIO  

II Parte - Lo statuto della dirigenza e le nuove ipotesi di responsabilità disciplinare alla luce dell’art. 107 terzo comma della Costituzione

  Giudiziario 
 mercoledì, 17 gennaio 2024

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di Paolo CORDER, Presidente del Tribunale di Udine

 
 

NUOVI ILLECITI DISCIPLINARI

E veniamo ai nuovi illeciti disciplinari.

Essi in larga parte trovano presupposto nelle modifiche all’art. 37 citato.

In particolare, i nuovi compiti del capo dell’ufficio introdotti dalle modifiche dell’art. 37 citato sono i seguenti:

a) in caso di gravi e reiterati ritardi, il capo dell’ufficio deve:

- accertarne le cause;

- adottare ogni iniziativa per eliminarli;

- predisporre piani mirati di smaltimento per i magistrati interessati, con eventuale sospensione delle assegnazioni e/o redistribuzione degli affari;

- effettuare verifiche ogni tre mesi;

- comunicare tutto al Consiglio Giudiziario;

b) in caso di un aumento delle pendenze dell'ufficio o di una sezione in misura superiore al 10 per cento rispetto all'anno precedente e comunque a fronte di andamenti anomali, il capo dell’ufficio: 

- ne accerta le cause;

- adotta provvedimenti per eliminare le carenze organizzative che hanno determinato l’aumento delle pendenze o il loro andamento anomalo;

- effettua una verifica ogni sei mesi;

- comunica tutto al Consiglio Giudiziario; 

L’inosservanza di tali compiti conduce ai nuovi illeciti disciplinari del capo dell’ufficio: 

- omessa adozione delle misure per risolvere ritardi e/o aumenti superiori al 10% o anomali delle pendenze;

- omessa comunicazione al Consiglio Giudiziario delle condotte del magistrato che non collabora alla eliminazione dei ritardi.

Anche il presidente di sezione esce con nuovi compiti dalle modifiche dell’art. 37.

In caso di ritardi e/o aumenti di pendenze come sopra, il presidente di sezione:

- segnala immediatamente al capo dell’ufficio; - indica le cause; - trasmette la segnalazione al magistrato o alla sezione interessati.

Qualora egli non ottemperi a tali obblighi, si materializzano i seguenti nuovi illeciti disciplinari:

- omessa segnalazione al capo dell’ufficio delle situazioni di ritardo e/o di aumento superiore al 10% o anomalo delle pendenze;

- omessa segnalazione al capo dell’ufficio delle condotte non collaborative del magistrato per l’eliminazione dei ritardi.

Il singolo magistrato, alla luce della novella, viene attinto dai seguenti nuovi illeciti disciplinari.

Al decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, sono  apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 2, comma 1: reiterata o grave inosservanza…..2) alla lettera n), dopo le parole: «delle norme regolamentari»….sono inserite le seguenti: «..delle direttive».

L’illecito disciplinare si perfeziona, dunque, non solo allorquando il magistrato non osserva in modo reiterato o grave norme regolamentari, ma anche se tale inosservanza riguarda direttive.

La norma non chiarisce il significato da attribuire all’espressione «direttive», potendosi così intendere riferita sia a quelle consiliari, sia a quelle del potere esecutivo nell’ambito dei servizi organizzativi e informatici, con conseguenti criticità in punto di tassatività e di effettiva indipendenza dal potere esecutivo.

Resta, soprattutto, da interrogarsi se, nel concetto in esame, siano sussumibili anche le direttive in materia di organizzazione del servizio eventualmente emanate dal capo dell’ufficio e inserite nel DOG, nel programma di gestione ecc.

Se la latitudine della nuova nozione fosse così ampia, non vi è chi non veda come essa possa rappresentare una delle forme di erosione del principio di cui al terzo comma dell’art. 107 Cost. Sono facilmente immaginabili i possibili condizionamenti tra dirigenti e magistrati dell’ufficio in grado di mettere in crisi il prezioso modello orizzontale della giurisdizione ordinaria. 

Ma il magistrato può incorrere in illecito disciplinare anche nei seguenti due casi, collegati alle precedenti fattispecie legate ai compiti del capo dell’ufficio e dei presidenti di sezione:

- omessa collaborazione del magistrato nell’attuazione delle misure volte a eliminare i ritardi;

- reiterazione delle condotte che hanno causato i ritardi.

In questo quadro già abbastanza complesso, va ricordato che la legge delega ha previsto che la segnalazione dei ritardi nel deposito dei provvedimenti può essere effettuata anche dagli avvocati difensori delle parti, con la conseguente possibilità di strumentalizzazioni e con l’assenza di qualsiasi contraddittorio preventivo con il giudice colpito da tali segnalazioni.

Si tratta, a bene vedere, in tutte le ipotesi, di illeciti disciplinari del magistrato collegati alla mancata collaborazione alle iniziative predisposte dal capo dell’ufficio per l’eliminazione di gravi e reiterati ritardi, con specifico riferimento ai piani mirati di smaltimento a tal fine predisposti.

Si tratta, quindi, al pari di quelli ascrivibili al capo dell’ufficio e del presidente di sezione, di illeciti omissivi di pura condotta, che comportano la sanzione, dell’incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo.

A una prima lettura, potrebbe profilarsi un problema di tassatività della norma, non essendo descritte le condotte di mancata collaborazione del magistrato al piano mirato di smaltimento. La speranza è che i decreti delegati e le norme secondarie colmino tale vuoto.

Ma la speranza finisce qui. Perché sarà inevitabile che le norme di dettaglio saranno funzionali alla descrizione del piano mirato di smaltimento, con indicazione di un cronoprogramma, delle soglie e delle relative verifiche periodiche del rispetto degli obiettivi. Sicché, al verificarsi del mancato raggiungimento di uno di questi obiettivi, potrà dirsi integrato l’elemento materiale dell’illecito disciplinare in esame. Anche in questo caso siamo di fronte a una visione tendenzialmente aziendalistica, produttivistica. Confidiamo che la giurisprudenza disciplinare estenda alcune esimenti dell’elemento soggettivo che ultimamente sta applicando in tema di ritardo nel deposito dei provvedimenti.

Infatti, come è stato osservato anche dal CSM, il legislatore, di fronte all’aumento delle pendenze opta per un innalzamento della risposta sanzionatoria e rischia di creare eccessive rigidità nella gestione dell'ufficio. Il procedimento disciplinare si converte in uno strumento di governo dell’organizzazione degli uffici, strumento che lo stesso CSM ritiene disfunzionale, anche tenuto conto delle notevoli differenze di ogni tipo tra i vari uffici del territorio italiano.

Significativa sotto tale profilo è la vicenda dell'asimmetria segnalata dal Consiglio nel parere reso con delibera del 21 aprile 2021: era stato messo in evidenza che la disciplina introdotta dal d.l., mentre sanzionava già la prima violazione del dovere, incombente sul capo dell'ufficio, di adottare le misure di cui all'art. 37, co. 5-bis e 5-ter, puniva, invece, la violazione del corrispondente dovere di segnalazione da parte del presidente di sezione solamente se reiterata ai sensi dell'art. 9, co. 1, lett. b), n. 2 del d.l.

Rispondendo ai rilievi del Consiglio, il legislatore, piuttosto che escludere anche per il capo dell'ufficio il rilievo disciplinare della prima violazione, ha ritenuto di estenderlo al presidente di sezione, ampliando così la portata sanzionatoria della novità.

Dai descritti fenomeni di erosione dell’art. 107 terzo comma della Costituzione esce un quadro non rassicurante dei rapporti tra magistrati e dirigenti e, di conseguenza, delle garanzie di indipendenza del singolo magistrato.

Non può essere messo in dubbio che la capacità di rendere giustizia ha poco a che vedere con una performance individuale del magistrato, con parametri di rendimento e di risultato, che assumono significato soprattutto nell’ottica della selezione individuale e di progressioni di “carriera”.

Se la giustizia non è solamente una performance, l’impianto di fondo dell’intervento riformatore va contestato.

Non vorrei essere frainteso, oggi è principio assodato e condiviso quello secondo il quale il servizio giustizia deve rispondere a criteri di efficienza organizzativa e di tempestività, nozioni quindi necessariamente connesse al dato numerico, quantitativo e di tempo misurabile, ma la valorizzazione di tali elementi non deve oltrepassare certe soglie in nome della considerazione che l’attività giurisdizionale non è paragonabile ad alcun’altra attività umana, tanto meno a una realtà aziendale.

E credo di poter affermare, invece, salve smentite in sede di decreti delegati, che le modifiche, nel complesso, ancorano la professionalità del magistrato e la sua verifica agli aspetti quantitativi del lavoro giudiziario, con accentuazione della possibilità per i dirigenti di pretenderli, con il disciplinare sullo sfondo. È difficile pensare a una maggiore compromissione del modello orizzontale, come a un maggiore condizionamento tra dirigenti e magistrati rispetto a quanto previsto dalle nuove norme in esame.

- Rispetto dei programmi di gestione nell’apprezzamento della laboriosità;

- determinazione, nell’ambito dei programmi, degli obiettivi di rendimento dell’ufficio con l’indicazione dei risultati attesi;

- illecito disciplinare connesso al mancato rispetto delle direttive;

sono esempi concreti della deriva intrapresa, caratterizzata anche da una sorta di nuovo statuto dei dirigenti oscillante tra maggiori compiti di monitoraggio, quasi ispettivi, sull’attività dei singoli magistrati e da più penetranti poteri di potenziale condizionamento in sede di redazione dei rapporti, della distribuzione dei ruoli, del confezionamento dei programmi di gestione e di DOG ecc..

Ma si tratta di un presunto nuovo statuto decisamente da contestare e da rifiutare.

La collaborazione del magistrato all’organizzazione dell’ufficio è un grande valore, sancito in vari passi della normazione secondaria del CSM, ma le nuove norme sono andate oltre e introducono il rischio dell’adozione di strumenti di condizionamento.

Se poi si pone mente al fatto che sino al 2026 la magistratura tutta è impegnata nel doveroso sforzo di raggiungere i targets del PNRR (peraltro, con le scarse risorse umane e materiali oggi disponibili, con l’introduzione nel settore civile e penale della cd. riforma Cartabia, ennesimo esempio di iperattività normativa, alla quale, invece, dovrebbe contrapporsi una sorta di fermo biologico e con una implementazione faticosa del PPT e ora con il nuovo sistema Minerva, per non voler menzionare la cd. digitalizzazione dei fascicoli che impegna le cancellerie di tutti gli uffici), è fuori di dubbio che la deriva aziendalistica ci allontana sempre di più dal modello costituzionale voluto quel 26 novembre del 1947.

A ben vedere, in buona sostanza, sembra che venga reintrodotto più o meno implicitamente un principio di selezione, di comparazione, contrario allo spirito costituzionale, fondandosi ogni valutazione sulla sola maggiore o minore capacità di definizione dei procedimenti, senza alcuna considerazione qualitativa del lavoro giudiziario.

Anche per il CSM è parso evidente, poi, che in questo modo i magistrati in occasione della valutazione di professionalità tenderanno a precostituirsi un giudizio specifico ad es. sulla capacità organizzativa da spendere successivamente, in occasione del conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi, quando invece il giudizio attitudinale per il conferimento di detti incarichi è ben più ampio, è fondato sulla globale valutazione di professionalità del magistrato (art. 8 T.U. sulla dirigenza).

E ciò senza contare che il parametro della capacità organizzativa è già previsto all’interno del giudizio sulla diligenza. L’introduzione di un nuovo e separato aspetto valutativo, per di più collegato ai solo dati quantitativi, appare superfluo. Ma forse è proprio l’inutilità di una tale previsione che rivela la vera intenzione del legislatore ossia quella di spingere verso verifiche di stampo aziendalistico e produttivistico. La capacità di organizzare non può essere letta unicamente in base ai dati definitori, ma è rappresentata da un insieme composito e variegato di attitudini, competenze e relazioni che possono produrre benefici al servizio giustizia, anche a prescindere dal nudo dato numerico. Si pensi, per fare un banale esempio, alla capacità di organizzare il proprio ruolo e le udienze in modo tale da evitare lunghe attese alle parti e ai difensori e da permettere un ordinato fluire delle attività.  

Ancora, va aggiunto che la capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro vale come indicatore solamente laddove sia realmente il singolo magistrato a stabilire carichi e priorità (cosa che non accade in organismi collegiali ove le fissazioni siano operate da altri) e dove si tenga conto della qualità e complessità dei procedimenti.

Come è stato giustamente sostenuto, la collettività deve essere consapevole dell’introduzione di meccanismi di controllo interni alla giurisdizione che rendono chi l’amministra sensibile ai condizionamenti di chi formula le valutazioni, perché di fatto ne è incisa la condizione professionale e al fine la serenità di giudizio. Sono perfettamente consapevole che all’esterno, tra i cittadini, le descritte posizioni possono apparire di retroguardia, superate, eccessivamente conservatrici, laddove tutti i settori del mondo del lavoro rincorrono i numeri e corrono verso classifiche e graduatorie, ma occorre ancora una volta, come accaduto quel pomeriggio del 26 novembre 1947, occorre rivendicare con forza la peculiarità della giurisdizione.

Come ricordato, proprio il rifiuto di questo tipo di condizionamenti, incompatibili con il disegno costituzionale di un giudice soggetto soltanto alla legge e distinto solo per funzioni, ha portato alla battaglia per l’abbattimento della carriera e all’adozione di meccanismi di valutazione della professionalità non selettivi a cavallo tra gli anni Sessanta e settanta (con le leggi cd. “Breganze e Breganzone”). Si era infatti ritenuto che i meccanismi selettivi non fossero idonei a misurare la professionalità “concreta” dei magistrati, mentre erano certamente uno strumento per conformare il comportamento del magistrato, che diventa soggetto alla valutazione prima che alla legge.

È stato giustamente notato che la tendenza legislativa alla graduazione dei livelli di “apprezzamento” della laboriosità oggettivamente spinge a una competizione interna sui tempi di definizione e potrebbe – se non ben governata da capi degli uffici culturalmente attrezzati – avere effetti indesiderati.

La conseguenza della scelta del legislatore è quella di affidare le valutazioni ad una sorta di modello astratto di magistrato impegnato a raggiungere sempre migliori performance, con una implicita pressante richiesta di risultati e non quella di costruire un sistema di valutazione che ci restituisca un quadro per ogni magistrato.

È chiaro, l’impegno deve essere sempre massimo, ma i risultati, le performance non possono essere valutati con parametri privatistici di pura efficienza, senza uno sguardo approfondito su tutto ciò che non dipende dal magistrato.

Come si fa a misurare la mera produttività in settori peculiari come ad esempio la volontaria giurisdizione? Come si misura la professionalità di un magistrato chiamato a trattare affari in relazione ai quali si applicano processi di tipo profondamento diverso? E il PNRR ha aggravato tali criticità con le sue griglie di materie diverse da quelle utilizzate nella valutazione dei flussi ordinari.

È vero che oggi, finalmente, il CSM è giunta alla determinazione dei carichi esigibili e degli obiettivi di rendimento. E tale intervento probabilmente porterà un riequilibrio, una sorta di compensazione rispetto all’andamento sopra descritto. Nella delibera concernente i carichi esigibili il Consiglio ha significativamente messo in luce la necessità che si tenga conto anche della qualità del lavoro giudiziario. Ma resta l’amara considerazione che sia dovuto intervenire il CSM per condurre a una sorta di riequilibrio la situazione, agendo in difesa dell’ordine uscito dall’Assemblea Costituente.  

Tuttavia, nella contrapposizione tra l’opzione favorita dal legislatore focalizzata su aspetti essenzialmente quantitativi e la risposta più equilibrata del CSM sembra avere la meglio, purtroppo, la prima, se si pensa ad alcuni indizi nelle nuove norme dell’intenzione del legislatore di sottoporre i magistrati a valutazioni di stampo aziendalistico che finiscono, alla lunga, per creare modelli di giurisdizione lontani dal modello orizzontale previsto in Costituzione.

Il primo indizio riguarda la norma che introduce l’apprezzamento del parametro della capacità, dall’acquisizione a campione, da parte dei consigli giudiziari, dei provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato nelle fasi o nei gradi successivi.

Come osservato dal CSM, la previsione spiana la strada a un vaglio sulla conformità del lavoro del magistrato, nel suo sviluppo tra le diverse fasi e i diversi gradi, che è fuori dal nostro sistema poiché questo garantisce, attraverso i rimedi processuali, fisiologici margini di variabilità, di evoluzione e anche di verifica del contenuto dei provvedimenti. Questo è il modo in cui funziona e si forma la giurisprudenza.

È vero che il parametro dell’esito delle impugnazioni assume rilievo solamente a fronte di “gravi anomalie”, ma è altrettanto vero che trattasi di nozione generica e indefinita che potrebbe convincere a seguire scelte conformistiche non effettivamente volute, senza contare che il risultato delle impugnazioni può dipendere da molteplici fattori talvolta imponderabili e/o difficilmente accertabili.

Con ciò non si vuole certo sminuire la rilevanza delle fasi successive del giudizio di primo grado, né si vuole ridurre l’importanza attuale della prevedibilità delle decisioni e della consapevolezza di decisioni differenti, ma si intende solamente focalizzare l’attenzione sui rischi di una tale scelta, soprattutto laddove lasciata in mano a nozioni generiche e ad accertamenti necessariamente incompleti, non avendo il nostro sistema meccanismi di verifica automatici e predefiniti.

È ancora vero che la circolare del Consiglio Superiore n. 20691 del 2007 aveva incluso, tra i parametri per valutare la capacità, l’esito – nelle successive fasi e nei gradi del procedimento – dei provvedimenti giudiziari emessi o richiesti, da valutarsi ove presentino caratteri di «significativa anomalia». Quindi, la dizione impiegata dalla delega, di «gravi anomalie», è in realtà più restrittiva rispetto al quadro già in vigore. Ma è altrettanto vero che negli ultimi tempi tale parametro è stato abbandonato nei modelli di rapporto di valutazione di professionalità, appunto, perché appunto non compiutamente definibile e accertabile. Se la nozione di grave anomalia si fonda unicamente sulle percentuali di riforma (o per i PM di assoluzione), senza andare a studiare le ragioni delle riforme, si potrebbero verificare effetti distorcenti e ingiusti in ordine alle valutazioni di professionali dei magistrati, in danno della preziosa visione egualitaria voluta dai costituenti. E va ricordato che l’attuale sistema non consente in alcun modo di verificare in concreto i motivi delle varie riforme e la qualità dei provvedimenti di primo e di secondo grado. Si pensi, ad esempio, a casi di riforma per ragioni di mero rito estranee rispetto all’operato del primo giudice, a casi di riforma di sentenze seriali, a casi di riforma dovute a un revirement della Corte di Cassazione o a una novità legislativa. 

Il secondo indizio della volontà del legislatore di proseguire nella direzione di una valutazione penalizzante per i magistrati è rappresentato dalla nuova disposizione in tema di voto della componente laica del Consiglio Giudiziario.

La riforma prevede l’attribuzione di un voto in materia di valutazioni di professionalità alla componente degli avvocati nei Consigli Giudiziari. Si tratta di un voto, espressamente indicato come «unitario».

La legge, pur frutto di un evidente compromesso tra due opposte esigenze culturali espresse all’interno della magistratura (una refrattaria alle valutazioni extramoenia, se non a determinate condizioni, e l’altra invece pienamente favorevole all’assegnazione agli avvocati del potere di deliberare sulle valutazioni di professionalità dei magistrati), ha scelto comunque di aggiungere al parterre dei valutatori del magistrato anche i rappresentanti del Foro.

Numerose sono le criticità insite in questa scelta.

1) Il cervellotico meccanismo previsto, in sintesi, è il seguente: i Consigli dell’Ordine degli Avvocati segnalano fatti specifici, positivi o negativi, nei confronti di magistrati in servizio negli uffici del circondario; gli avvocati membri del Consiglio Giudiziario esprimono a quel punto un voto unico in occasione della progressione di carriera o di valutazione di quel determinato magistrato: ma cosa accade se la componente del Foro decide in tutto o in parte di discostarsi dalla valutazione contenuta nella segnalazione del Consiglio dell’Ordine? È necessario provocare una nuova deliberazione del consiglio dell’ordine? La nuova eventuale delibera sarebbe vincolante? La legge delega nulla dice e nulla prepara rispetto ai decreti delegati.

2) Si è detto che tale soluzione di compromesso conserva il potere di valutazione complessiva in mano al governo autonomo, ma si dimentica che tale risultato dovrebbe essere per così dire scontato e indiscutibile, laddove, invece, il voto degli avvocati, seppure unitario e seppure mosso da fatti specifici, finirà inevitabilmente per condizionare l’operato dei consigli giudiziari e al termine della corsa anche dei singoli magistrati.

3) E ciò, senza contare che manca comunque la cd. reciprocità che almeno garantirebbe una sorta di equilibrio tra le rispettive prerogative e funzioni.

4) Si è detto che i COA in caso di fatti specifici sono obbligati a motivare i loro rilievi. Ma anche questo elemento è irrilevante, nel senso che è ovvio che i rilievi non potranno essere immotivati. Il nodo non risiede nella eventuale mancanza di motivazione, ma sta nella possibile strumentalizzazione di tali rilievi.

5) E, soprattutto, il procedimento di emersione delle lamentele nell’ambito del Foro è privo di regole, è difficilmente decifrabile, manca di trasparenza.

6) Anche la tesi secondo la quale l’introduzione del voto degli avvocati favorirebbe la conoscenza dei meccanismi interni delle procedure di valutazione dei magistrati e condurrebbe ad una maggiore responsabilizzazione degli avvocati rispetto al funzionamento della giustizia non convince. La conoscenza è già consentita attraverso il cd. diritto di tribuna. La responsabilizzazione è già garantita da vari passaggi normativi in tema di tabelle, programmi di gestione, conferme di direttivi e semidirettivi (art. 71 TU) e così via, ed è giustamente incentrata sull’ufficio e non sul singolo magistrato.

Fino a oggi, opportunamente l’intero sistema di normativa primaria e secondaria prevede che i contributi dell’avvocatura siano espressi sotto forma di segnalazione di fatti specifici, e non nella forma di “pareri” contenenti valutazioni, spettanti, queste ultime, unicamente agli organi di governo autonomo, decentrato e centrale. La legge delega non si limita ad ampliare le fonti di conoscenza, bensì aggiunge aggiungere nuovi soggetti con potere valutativo (fra l’altro, escludendo da tale aggiunta i professori universitari componenti dei Consigli Giudiziari).

Insomma, viene introdotta un’ulteriore forma di condizionamento che si affianca a quelle in precedenza messe in evidenza, in un quadro di insieme che a questo punto si fa allarmante rispetto al modello costituzionale dal quale siamo partiti.

Non si tratta qui di non essere aperti alla trasparenza e al giudizio degli altri, ma si tratta di non creare occasioni di pressione indebite nei confronti dei magistrati.

Invero, il membro laico del CG continua a svolgere, nel corso del mandato consiliare, l’attività forense nello stesso distretto del magistrato in valutazione e tale elemento può tradursi in un fattore incidente sul sereno svolgimento delle funzioni giudiziarie da parte di quest’ultimo e non è escluso che possa dar luogo all’ingresso di valutazioni soggettive ed influenzate dal ruolo di parte.

D’altro canto, che tali preoccupazioni non siano infondate trova conferma nel fatto che i componenti laici del C.S.M. non possono esercitare la professione legale durante il mandato. La ratio di tale preclusione è, infatti, da individuarsi nella finalità di assicurare che la partecipazione alle funzioni del governo autonomo della magistratura avvenga, da parte degli avvocati, in condizione di assoluta imparzialità e neutralità rispetto ai magistrati.

Come se non bastassero i descritti indici sintomatici della erosione del principio dell’art. 107 Cost., va segnalato come la valutazione di stampo aziendalistico sia sottoposta ad una ulteriore e rischiosa prova in caso di selezione dei dirigenti e dei semidirettivi: la legge delega reitera, infatti, l’interlocuzione, sebbene in forma “semplificata e riservata”, con i magistrati e i dirigenti amministrativi “assegnati all’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati”, e stabilisce nel prosieguo che il Consiglio debba “specificamente” valutare “gli esiti di tali audizioni e interlocuzioni ai fini della comparazione dei profili dei candidati”.

In linea di puro principio, l’ampliamento delle fonti di conoscenza e da salutare con favore, ma a patto che le fonti siano trasparenti, disinteressate e frutto di una sorta di contraddittorio.

Anche il CSM ha sollecitato il legislatore a un ripensamento. Invero, la lettura complessiva della disposizione, invece, parrebbe richiedere, addirittura, l’acquisizione di un “parere”, seppure in forma “semplificata e riservata”, dei magistrati e dei dirigenti amministrativi, laddove il testo originario del DDL prevedeva solo una interlocuzione con i predetti soggetti. Ma, intanto, l’espressione di un “parere”, quale atto della procedura, è incompatibile con la sua acquisizione con modalità riservate, al di là dell’abbandono del principio della trasparenza, a meno di non voler introdurre in modo del tutto sproporzionato il modello whistleblowing. La norma è poi generica nell’individuazione dei soggetti chiamati a fornire il parere, senza contare che negli uffici di grandi dimensioni la procedura di selezione potrebbe subire decisivi rallentamenti e appesantimenti. A ciò si aggiunga il fatto che la Commissione risulterebbe obbligata non solo a svolgere l’interlocuzione con colleghi e dirigenti, ma, addirittura, a valutare “specificamente” anche gli esiti di “tali audizioni e interlocuzioni ai fini della comparazione dei profili dei candidati”, così imponendo alla medesima di prendere specifica posizione sulle dichiarazioni dei singoli e obbligandola ad una defatigante verifica di ‘attendibilità’ che esorbita dai connotati ordinari dell’attività amministrativa anche quando, come nel caso che interessa, abbia carattere discrezionale.

Anche qui abbiamo di fronte una norma che introduce potenziali condizionamenti e classifiche incompatibili con il modello orizzontale costituzionale, al quale neppure il capo dell’ufficio deve sfuggire, e che potrebbe essere foriera di turbamento nei rapporti tra i magistrati all’interno degli uffici.  

Dopo la pars destruens, ecco il tentativo umile della pars costruens.

Occorre muovere da dati consolidati e ben conosciuti, ma spesso volutamente dimenticati.

Se proprio si vuole impostare la riforma sull’aspetto quantitativo, allora va ribadito che l’elevatissima laboriosità e la capacità di definizione dei procedimenti da parte dei magistrati italiani (che è cosa diversa dall’arretrato) sono costantemente attestate da fonti internazionali, considerando che in Italia il numero dei magistrati in relazione agli abitanti è inferiore alla media dei Paesi del Consiglio d’Europa (in Italia ci sono 11 giudici ogni 100.000 abitanti, a fronte di una media di 22 giudici ogni 100.000 abitanti). La copertura degli organici dei magistrati e del personale amministrativo: questa è l’unica e risolutiva riforma della giustizia.

E allora, anzitutto, per le ragioni esposte, occorre eliminare dall’elenco degli illeciti disciplinare le fattispecie direttamente o indirettamente collegate all’organizzazione dell’ufficio complessivamente considerato, ai programmi di gestione o ai piani di smaltimento e alle direttive del capo dell’ufficio.

Il ricorso al disciplinare, da tempo suggestivamente qualificato come “gigantismo disciplinare”, non sembra del tutto conforme ai principi costituzionali: è stato giustamente osservato che se costitutiva della funzione giurisdizionale è la posizione di autonomia e indipendenza della magistratura nel suo insieme e del singolo magistrato in quanto tale, e se ingrediente determinante dell’indipendenza è la serenità dell’agente, un sistema disciplinare costruito e percepito come eccessivamente pervasivo non rappresenta il contesto ideale per l’attuazione di tali principi. E a nulla rilevano i modesti dati di condanna dei magistrati, in quanto, al di là del fatto che le percentuali non sono molto diverse da quelle di altre professioni intellettuali, la mera possibilità del disciplinare può essere fonte di condizionamento.

Occorre quindi una valutazione della professionalità non burocratica, in grado di descrivere la storia professionale del magistrato e le sue esperienze, non finalizzata a creare pagelle e graduatorie tra i magistrati con l’uso di aggettivi, ma con lo scopo di attestare, sulla base di elementi valutativi calati nella realtà, nella intrinseca diversità dei percorsi professionali, che i magistrati mantengono un livello di professionalità adeguato alla prosecuzione delle funzioni.

Ecco, se questa dovrebbe essere la valutazione di professionalità, allora il dirigente deve essere a fianco del magistrato e non sovraordinato, non potenzialmente condizionante, deve parlare lo stesso linguaggio anche organizzativo perché il magistrato è chiamato a collaborare quotidianamente all’organizzazione dell’ufficio. Gestione condivisa che non vuol dire solo informazione preventiva e successiva alle fasi decisionale, ma partecipazione attiva a tali fasi per una responsabilizzazione collettiva che non si limita a dare “medagliette”.

Ma, come detto, l’opzione del disciplinare va considerata come ultima Thule.

Sarebbe utile pensare a strumenti rivolti non tanto alla repressione, quanto, come avviene in altri Paesi europei, alla massimizzazione della funzione proattiva dei codici di etica giudiziaria e dei codici disciplinari. Corollario potrebbe essere una nuova centralità del tema del comportamento deontologicamente e disciplinarmente immune nell’ambito dei programmi di formazione, con corsi impostati su casi concreti. Ancora si potrebbe pensare all’attivazione di una funzione consultiva che assista i giudici nelle decisioni relative ai loro comportamenti funzionali o extra funzionali.

Infine, occorrerebbe ripensare al rapporto tra dirigenza e disciplinare.

È chiaro che esiste una stretta correlazione tra responsabilità disciplinare e ruolo della dirigenza giudiziaria nell’attuale assetto ordinamentale.

È altrettanto vero che talvolta gli illeciti disciplinari contestati al singolo possono essere la spia di forme di organizzazione del lavoro non efficaci o di carenze di attenzione della dirigenza giudiziaria nell’individuare tempestivamente situazioni problematiche, prodromiche alla loro consumazione. E quindi, il dirigente non deve esimersi da attività di controllo continuo e minuzioso.

Tuttavia, le nuove disposizioni in tema di disciplinare paiono confliggere con tale realtà, nel senso che esse finiscono per imporre nuovi e ulteriori obblighi di tempestiva segnalazione di situazioni idonee ad integrare illeciti disciplinari e, configurando anche a carico del capi ufficio ipotesi di responsabilità derivanti da un’omessa sollecita informativa, rischiano di privilegiare una dimensione burocratica e difensiva del ruolo a detrimento, invece, dell’adozione di efficaci misure organizzative tese a risolvere i problemi, a supportare il magistrato che versi in situazioni di momentanea difficoltà lavorativa e a prevenire comportamenti di possibile rilievo disciplinare.

I possibili antidoti rispetto a una tale deriva sono a mio avviso:

- la semplificazione delle regole che presiedono all’organizzazione;

-  la logica partecipativa;

- il principio di responsabilizzazione diffusa.

Con la prima nozione ci si vuole riferire alla pressante esigenza, soprattutto oggi in vista del PNRR, oltre alla già iniziata semplificazione della procedura tabellare, di accorpamento e razionalizzazione della miriade dei testi che incidono in vario modo sulla materia organizzativa, e che hanno prodotto un accumulo difficilmente governabile e nel quale diventa sempre più impervio districarsi (DOG, programma di gestione, progetto organizzativo dell’UPP ecc.), per giungere a fine corsa alla redazione di un TU dell’organizzazione giudiziaria.

Quanto al profilo della partecipazione e della responsabilità diffusa, lungi da integrare una riduzione dell’impegno e/o della accountability dei capi degli uffici, esso va letto come occasione per introdurre, sull’onda di una tradizione decennale della normazione secondaria del CSM in tema di procedura tabellare, forme di condivisione delle decisioni, ad esempio attraverso il lavoro in staff per determinati settori, per determinate materie o per determinati progetti, forme cioè di effettiva e concreta partecipazione ai vari passaggi decisionali. Non solo quindi mera informazione e/o partecipazione alle consuete e già sperimentate riunioni, ma un quid pluris.

Semplificazione e condivisione dei processi decisionali, da un lato, formazione e attività preventiva dall’altro, accompagnate da un modello di valutazione che rifugga da logiche aziendalistiche e da un disciplinare equilibrato paiono, allo stato, le uniche vie che possono condurre alla conservazione del nostro scrigno prezioso, a tutto vantaggio di tutti i fruitori del servizio giustizia.

Paolo Corder

Relazione tenuta in occasione del Convegno Nazionale “Le sfide della giurisdizione: i magistrati, la legge e la politica”, seconda sessione dedicata a “L’indipendenza della magistratura, tra riforme in vigore e riforme in fieri, organizzato da M.I. – Venezia, 10 e 11 novembre 2023.

 
 
 
 
 
 

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