ABSTRACT
La recente Proposta di legge di abrogazione dell’art. 613 bis c.p. offre un’occasione per analizzare il delitto di tortura. L’art. 613 bis c.p. è stato introdotto a seguito di un lungo iter parlamentare, sulla spinta propulsiva dell’ordinamento internazionale. È necessario, dunque, analizzare i principali atti internazionali che hanno contribuito all’affermazione di un obbligo di vietare la tortura per concentrarsi, successivamente, sulla fattispecie penale di cui all’art. 613 bis c.p. Infine, il contributo mira a comprendere se vi sia una reale necessità di incriminare la tortura, con riguardo soprattutto alla tortura di Stato. Le recenti pronunce della giurisprudenza nazionale possono fornire una risposta a tale questione.
The recently presented draft law for the repeal of article 613 bis c.p. offers the opportunity to analyze and reflect on the crime of torture. Article 613 bis c.p. was introduced as a result of a long parliamentary process, at the basis of which lies the international law obligations to which Italy is bound. It is therefore necessary to preliminarily analyze the major international instruments which contributed to the formation of the obligation to criminalize torture in order to fully understand and evaluate the provision contained in article 613 bis c.p. This research aims at assessing whether or not it is necessary to maintain that provision, with particular regard to state torture. In this regard, we argue that recent national jurisprudence may provide an answer to that question.
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il divieto di tortura nell’ordinamento internazionale. – 3. L’art. 3 CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. – 4. L’art. 613 bis c.p. – 5. Sulla necessità di un reato proprio.
- Introduzione. – L’opportunità di riflettere sul delitto di tortura nasce dal ritorno del dibattito sulla
necessità di una norma incriminatrice della tortura. Il 23 novembre 2022 è stata presentata la Proposta di legge n. 623, che mira ad abrogare gli artt. 613 bis e 613 ter c.p. ed aggiungere all’art. 61 c.p. il n. 11-novies. La nuova circostanza comune aggraverebbe il reato qualora commesso «infliggendo a una persona dolore o sofferenze acuti, fisici o psichici, al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidire lei o una terza persona o di esercitare pressioni su di lei o su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito».
Orbene, il divieto di tortura non era, fino a tempi recenti, oggetto di una norma penale nel nostro ordinamento[1]. Ciò contrastava sia con l’art. 4 della Convenzione ONU del 1984, che prevede un obbligo di criminalizzazione degli atti di tortura ed impone che le sanzioni penali ad essi collegati siano adeguate e tengano conto della loro gravità; sia con l’art. 3 CEDU, che chiede di tutelare i soggetti dell’ordinamento dagli atti di tortura mediante la previsione di efficaci norme procedurali. Ma già la Costituzione richiedeva di punire le forme di tortura ed altri trattamenti inumani o degradanti, quantomeno nei riguardi dei soggetti in vinculis. L’art. 13, co. 4 Cost. afferma, infatti, che «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
Questa lacuna normativa è stata colmata, seppur con delle criticità, dalla Legge 24 luglio 2017, n. 110 che ha introdotto nel Codice penale gli artt. 613 bis e 613 ter. L’iter parlamentare che ha condotto alla Legge è stato lungo e travagliato, e la formulazione della norma ne riporta la testimonianza. Ad accelerare il percorso verso la criminalizzazione della tortura ha giocato sicuramente un ruolo determinante la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha in più occasioni condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU.
- Il divieto di tortura nell’ordinamento internazionale. - Il divieto di tortura è oggetto di una norma
di diritto internazionale consuetudinario, cristallizzata e ribadita nel tempo in diversi strumenti pattizi, di cui si deve brevemente dare conto. L’analisi delle fonti sovranazionali costituisce un presupposto indispensabile per comprendere la necessità di una norma incriminatrice della tortura nel diritto nazionale e, conseguentemente, per comprendere il dibattito originatosi in Italia in merito all’introduzione del delitto di tortura.
Da un punto di vista generale, il divieto di tortura è inteso come estrinsecazione del diritto alla vita e del principio del rispetto della dignità umana[2] ed è parte di un corpus di diritti umani fondamentali inderogabili. La caratteristica della assolutezza ed inderogabilità del divieto ne determinano l’incorporazione nella categoria dello jus cogens, ossia in quel gruppo ristretto di norme internazionali aventi un carattere “imperativo”, come espressamente riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia[3]. Pertanto, la norma riguardante il divieto di tortura ha, secondo il diritto internazionale, un valore giuridico indipendente dal valore della singola fonte materiale in cui lo stesso si trova espresso. Dal punto di vista del diritto interno, sulla scorta dell’articolo 10 della Costituzione, notoriamente definito “trasformatore permanente” da autorevole dottrina, il divieto assoluto ed inderogabile di tortura, in quanto norma consuetudinaria, è da considerarsi parte dell’ordinamento giuridico italiano, anche in assenza di precisa disposizione incriminatrice. Questo dato è di fondamentale importanza per comprendere le questioni sorte attorno al tema della tortura nel diritto italiano. Ma procediamo con ordine.
Il 10 dicembre del 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la Risoluzione n. 271/3, adottava la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, in cui all’articolo 5 compare il divieto assoluto e generale di tortura[4]. Sebbene la Dichiarazione non sia formalmente vincolante, si tratta del primo fondamentale atto nel quale è rintracciabile l’opinio juris della comunità internazionale in merito all’esistenza di una norma contenente il divieto di tortura come parte fondamentale del nucleo essenziale di diritti umani fondamentali che gli Stati e le Nazioni Unite devono impegnarsi a garantire e tutelare. Inoltre, la formulazione contenuta nella Dichiarazione de quo ha assunto una particolare rilevanza come modello per le successive elaborazioni in materia di tortura.
Il Patto sui diritti civili e politici (“International Covenant on Civil and Political Rights”, ICCPR), firmato a New York nel 1966, riprende all’art. 7 la formulazione della Dichiarazione Universale del 1948, aggiungendovi una specificazione in relazione al divieto di sperimentazione scientifica e medica senza il libero consenso di chi vi si sottopone[5]. Anche in questo caso il divieto è assoluto e generale, non conoscendo possibilità di deroga, né limitazioni dal punto di vista soggettivo. Tuttavia, il Patto del ’66, a differenza della Dichiarazione del ’48, ha carattere vincolante ed è stato oggetto di ratifica nell’ordinamento italiano con la L. n. 881 del 25 ottobre 1977. Inoltre, l’art. 2 dell’ICCPR impegna gli Stati parte «ad intraprendere, in armonia con le proprie procedure costituzionali e con le disposizioni del presente Patto, i passi per l’adozione delle misure legislative o d’altro genere che possano occorrere per rendere effettivi i diritti riconosciuti nel presente Patto, qualora non vi provvedano già le misure, legislative e d’altro genere, in vigore»[6].
Oltre a tali documenti “generalisti”, ossia aventi ad oggetto la protezione di un insieme di diritti individuali e non dedicati alla sola tortura, negli anni seguenti, in ambito ONU, sono stati elaborati alcuni atti dedicati specificatamente al tema oggetto di analisi.
Il 9 dicembre 1975 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottava, con la Risoluzione n. 3452 (XXX), la Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o ad altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti, la quale fissava principi che diedero impulso a tutti gli atti internazionali in materia di tortura emanati successivamente. L’importanza di tale documento di soft-law si deve in particolare alla prima definizione in sede internazionale di “tortura”, che compare all’articolo 1 della stessa Dichiarazione, secondo cui: «il termine tortura indica ogni atto per mezzo del quale un dolore o delle sofferenze acute, fisiche o mentali, vengono deliberatamente inflitte ad una persona da agenti dell’amministrazione pubblica o su loro istigazione, principalmente allo scopo di ottenere da questa persona o da un terzo delle informazioni o delle confessioni, o di punirla per un atto che essa ha commesso o che è sospettata di aver commesso, o di intimidirla o di intimidire altre persone. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a queste sanzioni o da esse cagionate, in una misura compatibile con le Regole minime standard per il trattamento dei detenuti»[7]. Un ulteriore elemento di interesse emergeva al comma 2 del medesimo articolo secondo cui la tortura «costituisce una forma aggravata e deliberata di trattamento o punizione crudele, inumana o degradante»[8]. La definizione è stata ripresa nella Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (CAT)[9], adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione n. 39/46 del 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 3 novembre 1988, n. 498.
Rispetto al testo della Dichiarazione del ’75, nell’articolo 1 della CAT scompare nella clausola di esclusione il riferimento agli standard minimi, con la conseguenza che il parametro per stabilire la legittimità delle sanzioni applicate deriva da una fonte interna. La definizione si compone di un evento naturalistico per il quale è prevista una soglia minima relativa all’intensità del dolore, fisico o psichico, che deve essere “severe”, ossia forte, acuto o grave. Secondo la corrente di pensiero maggioritaria, questo standard minimo distingue i trattamenti crudeli, inumani o degradanti dalla tortura, quest’ultima connotata da una speciale intensità del dolore provocato[10]. Inoltre, si possono evidenziare delle chiare differenze con la previsione del Patto del ’66: in questo caso si tratta di un reato proprio, il soggetto agente deve essere un pubblico ufficiale o, in ogni caso, agire in una “official capacity”, ovvero, se si tratta di un privato questi deve agire su istigazione o con il consenso o l’acquiescenza di un tale soggetto pubblico; è richiesto un dolo specifico, la condotta deve essere posta in essere allo scopo di ottenere una confessione o un informazione, allo scopo di punire la vittima o un terzo, ovvero, a scopo intimidatorio o coercitivo.
Firmando la Convenzione, gli Stati hanno assunto specifici obblighi tra i quali, per quanto qui interessa, l’obbligo di incriminare la tortura per mezzo di sanzioni penali adeguate alla gravità del fatto. In effetti, l’articolo 2 CAT prevede che ogni Stato contraente adotti provvedimenti finalizzati a contrastare la commissione di atti di tortura, precisando che «nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura» e al par. 3 che «l’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica non può essere invocato a giustificazione della tortura»[11]. Ancor più specifico è l’articolo 4 secondo cui «ogni Stato Parte deve (“shall”) garantire che tutti gli atti di tortura rappresentino un crimine secondo la legge penale interna». Inoltre, lo stesso obbligo di criminalizzazione delle condotte è previsto in relazione al tentativo ed al concorso. Infine, si prevede l’obbligo di sanzionare tali condotte con pene appropriate che tengano conto della gravità delle stesse[12]. Per completare l’analisi degli obblighi rivolti agli Stati parte della Convenzione in esame, si deve rilevare come l’articolo 16 introduca un dovere di prevenire il compimento di atti riconducibili nella categoria dei trattamenti inumani o degradanti, riferibili direttamente o indirettamente a pubblici ufficiali o soggetti agenti in una “official capacity”, non sussumibili nella fattispecie della tortura per la loro minore gravità[13].
Con l’entrata in vigore della Convenzione contro la Tortura è stato istituito, ai sensi degli artt. 17 ss., un apposito Comitato che, analogamente ad altri Comitati di controllo ONU in materia di diritti umani (c,d. “treaty bodies”), è deputato sia a ricevere rapporti periodici da parte degli Stati in merito all’adempimento dei loro obblighi convenzionali, sia a esaminare ricorsi presentati contro uno Stato parte da altri Stati parti o da individui, nonché a iniziare inchieste laddove sussistano fondate indicazioni che la tortura è praticata sistematicamente nel territorio di uno Stato parte[14].
Il fulcro della CAT, come si è detto, è il preciso obbligo rivolto agli Stati di introdurre una apposita fattispecie sanzionatoria delle condotte di tortura nel proprio diritto penale interno. È facile comprendere, dunque, quali siano state le ragioni alla base delle numerose sollecitazioni rivolte in tal senso all’Italia dal Comitato contro la tortura[15].
- L’art. 3 CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. – La Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, entrata in vigore il 3 settembre 1953 e ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, prevede all’articolo 3 che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il divieto sancito dall’art. 3 CEDU è assoluto[16] e inderogabile[17]. In particolare, dall’assolutezza del divieto deriva l’impossibilità di ammettere eccezioni o limiti in considerazione di altri diritti fondamentali o altre esigenze legittime degli Stati[18].
Per comprendere la portata del divieto di tortura imposto dalla CEDU è necessario volgere lo sguardo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale nel tempo ha arricchito e ampliato l’ambito di applicazione dell’art. 3. Dal combinato disposto degli artt. 1, 3 e 8 CEDU, la Corte di Strasburgo ha ricavato un obbligo per gli Stati di adottare misure idonee a garantire che le persone sottoposte alla loro giurisdizione non siano soggette a tortura o ad altri trattamenti inumani o degradanti.
La Convenzione non distingue tra tortura e trattamenti inumani o degradanti; pertanto, i giudici di Strasburgo hanno sovente operato una differenziazione tra le due fattispecie avendo riguardo all’intensità delle sofferenze procurate[19]. La condotta incriminata, per integrare la fattispecie della tortura, deve superare la c.d. soglia minima di gravità. Questo elemento è oggetto di valutazione in concreto, con riferimento a tutte le circostanze del caso: oggettive, quali il contesto, la durata e gli effetti della condotta; nonché soggettive, quali l’età, il sesso e lo stato di salute della persona offesa[20]. Seguendo tale impostazione, dunque, la disposizione in esame prevederebbe tre fattispecie differenziate in base al livello di gravità: il trattamento degradante nei casi di gravità minima; il trattamento inumano nei casi di gravità intermedia; e, infine, la tortura nei casi di maggiore gravità. A tale riguardo, infatti, la Corte ha più volte ribadito che la tortura costituisce una forma aggravata di trattamento inumano o degradante[21].
In merito a tale orientamento la dottrina ha rilevato che l’utilizzo della soglia minima di gravità comporta un’incertezza del diritto, in quanto l’accertamento della gravità ha natura relativa e, di conseguenza, l’utilizzo di un simile criterio non consentirebbe la prevedibilità delle decisioni[22]. Del resto, nel corso del tempo l’orientamento della giurisprudenza della Corte ha subito notevoli evoluzioni; la soglia minima di gravità è stata considerata come “mobile” e, così, si è ritenuta configurata la tortura in casi che, in passato, sarebbero stati considerati trattamenti inumani o degradanti[23]. Tale “abbassamento” della soglia di gravità deve essere letto alla luce dello sviluppo complessivo del regime giuridico internazionale sui diritti umani, nonché dell’evoluzione scientifica in tema di determinazione degli effetti di certe condotte lesive sull’individuo, in particolare con riguardo alle lesioni di natura psicologica.
Un diverso criterio utilizzato dalla Corte di Strasburgo per differenziare la tortura dai trattamenti inumani o degradanti è quello della finalità dell’agente[24]. La Corte ha posto talvolta l’attenzione sullo scopo perseguito dall’autore della tortura, richiamando in alcuni casi – implicitamente - le finalità elencate dalla CAT[25].
I due criteri dell’intensità del dolore e della finalità perseguita dall’agente sono spesso utilizzati in relazione tra loro: più intenso è il dolore, meno peso assume la finalità perseguita dall’agente, e viceversa[26].
Inoltre, la Corte EDU ritiene che operi un’inversione dell’onere probatorio quando la persona offesa dal reato si trovava in stato di detenzione al momento dei fatti di tortura. Sussiste, dunque, una presunzione di responsabilità in capo all’Autorità pubblica, la quale deve fornire una spiegazione dell’evento per andare esente da responsabilità[27]. Affinché operi tale presunzione, la vittima ha l’onere di dimostrare che era in buone condizioni fisiche prima della privazione della libertà personale e le lesioni sofferte; conseguentemente, spetta allo Stato dimostrare che il peggioramento delle sue condizioni sia stato determinato da altra causa[28]. Secondo la Corte EDU, mancando la collaborazione da parte dello Stato – collaborazione che lo Stato deve prestare ai sensi dell’art. 34 CEDU – è possibile presumere che la versione prospettata dal ricorrente sia fondata[29].
Venendo ora agli obblighi discendenti dalla CEDU in capo agli Stati, la Corte di Strasburgo ricava dall’articolo 3 l’obbligo degli Stati di astenersi dal realizzare atti qualificabili come tortura o come pene o trattamenti inumani o degradanti. Inoltre, lo Stato è tenuto a adottare misure, anche di tipo penale, finalizzate a proteggere gli individui da tali maltrattamenti, siano questi commessi da agenti pubblici ovvero da privati. Da questo quadro, dunque, discendono una serie di obblighi, positivi e negativi. Nella specie, lo Stato ha l’obbligo di prevedere norme repressive adeguate, che consentano di indagare e di comminare pene adeguate[30]. Ne consegue un obbligo di svolgere efficaci e tempestive indagini per identificare e punire gli autori con pene proporzionate alla gravità della violazione. Inoltre, lo Stato è tenuto a istituire nella propria legislazione efficaci rimedi preventivi e risarcitori per prevenire e riparare violazioni della Convenzione. L’obbligo positivo riguarda anche i fatti commessi da privati[31].
La Corte di Strasburgo accerta la responsabilità degli Stati; responsabilità che sussiste quando l’ordinamento non appresta una protezione efficace contro gli atti contrari all’art. 3 CEDU. In particolare, a far sorgere la responsabilità dello Stato sembra essere la sproporzione tra le sanzioni irrogate e la gravità dei fatti, contrari all’art. 3[32]. Inoltre, lo Stato è responsabile della condotta dei suoi organi anche quando questi abbiano agito oltre le competenze interne o in violazione di divieti[33] ed è, altresì, responsabile quando agenti di Stati esteri agiscano sul suo territorio[34].
Invero, è possibile affermare che dall’art. 3 non sorga alcun obbligo di introduzione di una fattispecie penale ad hoc contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. Tuttavia, la Corte EDU, con riguardo all’ordinamento italiano, ha in diverse occasioni sottolineato l’esigenza di adottare misure idonee a far cessare la violazione contestata e a cancellarne le conseguenze[35]. Con la sentenza relativa al caso Cestaro c. Italia del 2015 e la sentenza del 2017 nel caso Blair e altri c. Italia[36], entrambe relative ai gravi e reiterati atti di tortura commessi da agenti delle forze dell’ordine a margine del G8 di Genova del 2001, i giudici di Strasburgo hanno accertato la violazione dell’art. 3 CEDU da parte dell’Italia, in quanto condotte integranti la fattispecie della tortura e riconducibili agli agenti delle forze dell’ordine non erano state adeguatamente punite, mancando nell’ordinamento nazionale un’autonoma fattispecie che sanzionasse gli atti di tortura. È stata, in tal modo, evidenziata e stigmatizzata la mancanza nell’ordinamento italiano di una precisa normativa penale in materia di tortura. In questo caso, pertanto, la violazione della Convenzione da parte dell’Italia è stata considerata di natura strutturale. Le condanne provenienti da Strasburgo sono state un importante impulso all’introduzione del reato di tortura nel Codice penale italiano.
- L’art. 613 bis c.p. – L’art. 1, co. 1, L. 14 luglio 2017, n. 110[37] ha introdotto nel Codice penale – Titolo
XII (Delitti contro la persona), Capo III (Delitti contro la libertà individuale), Sez. III (Delitti contro la libertà morale) – l’art. 613 bis, che disciplina il delitto di tortura[38]. Il primo comma punisce con la reclusione da quattro a dieci anni «chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagioni sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa», se il fatto è commesso «mediante più condotte ovvero comporta un trattamento degradante per la dignità della persona».
La scelta di prevedere la fattispecie come reato comune è stata salutata con favore da una parte della dottrina, la quale ha sottolineato che il fenomeno della tortura «non è appannaggio esclusivo della forza pubblica»[39]. Ed invero, la giurisprudenza ci mostra come casi di tortura si verifichino nell’ambito privato[40]. Tale scelta legislativa è stata, invece, fortemente criticata da altra parte di dottrina, nonché dal Comitato CAT e dal Commissario per i diritti umani[41]. In particolare, è stato rilevato che la definizione della tortura non è conforme alla descrizione contenuta nell’art. 1 CAT[42] e che, dunque, l’Italia non ha correttamente adempiuto all’obbligo di punire la tortura realizzata dal soggetto qualificato[43]. È stato anche affermato che in Italia non vi era la reale necessità di incriminare la “tortura privata”, posto che il Codice penale disponeva già di efficaci norme contro i maltrattamenti commessi dai privati[44].
Dubbi sulla natura di reato comune sono, invece, pervenuti ad una dottrina[45] in ragione della delimitazione dei possibili soggetti passivi del reato che fa l’art. 613 bis c.p. Stando alla lettera della norma, sarebbe necessario un accertamento in ordine al rapporto intercorrente tra l’autore del fatto e la persona offesa, richiedendo, in alternatività con gli altri due presupposti, che la vittima si trovi affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza del soggetto agente. L’uso del termine «affidata» farebbe pensare a un rapporto qualificato[46], un rapporto che sia idoneo a far sorgere certi obblighi di tutela a carico del soggetto attivo. Nel selezionare le possibili persone offese, la norma avrebbe pertanto selezionato anche i possibili autori del reato.
Quanto al presupposto della «privazione della libertà personale», la norma non richiede che questa sia dovuta ad un provvedimento giurisdizionale e, dunque, deve ritenersi che la persona offesa possa trovarsi privata della libertà personale per qualunque ragione[47]. Di talché, letto in combinato disposto con l’art. 13 Cost., l’art. 613 bis, co. 1 c.p. permetterebbe di estendere la tutela penale alle forme di tortura commesse dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
La dottrina ha, inoltre, espresso dubbi in ordine alla scelta di prevedere la «minorata difesa» quale condizione in cui deve versare la vittima. È stato evidenziato che la minorata difesa è un concetto non sufficientemente determinato da assurgere a elemento costitutivo della responsabilità penale, ponendosi in un possibile contrasto con l’art. 25, co. 2 Cost.[48] Sembra, in effetti, che il Legislatore abbia inteso richiamare la nozione di minorata difesa prevista dall’art. 61, n. 5 c.p. come circostanza aggravante[49]; spetta all’interprete, dunque, stabilire caso per caso se la persona offesa poteva o meno definirsi particolarmente vulnerabile al momento del fatto.
L’elemento materiale del delitto di tortura consiste nella realizzazione di violenze o minacce gravi, oppure di un’azione connotata da crudeltà. Dunque, le violenze o le minacce devono essere necessariamente plurime[50], non potendo integrare la fattispecie un solo atto di violenza o di minaccia; mentre un singolo atto, che sia crudele, se comporta un trattamento inumano e degradante può integrare la condotta[51]. La giurisprudenza di legittimità[52] ha interpretato la norma nel senso che è possibile ritenere integrato il reato anche qualora la tortura sia stata determinata da un unico atto lesivo che comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona[53]. Ed infatti, la Suprema Corte ha affermato che il delitto di tortura si configura come un reato solo eventualmente abituale e che, ai fini dell’integrazione del primo comma dell’art. 613 bis c.p., la locuzione «mediante più condotte» non va riferita soltanto ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico[54].
Le violenze o le minacce devono essere «gravi»; in alternativa, l’azione deve connotarsi per la sua «crudeltà». Anche qui il Legislatore implicitamente richiama la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 4 c.p., che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato essere di natura soggettiva e «caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole», atteggiamento interiore la cui sussistenza deve essere accertata «alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo»[55].
La condotta deve poi cagionare un determinato evento lesivo[56]: la causazione di acute sofferenze fisiche o di un verificabile trauma psichico. Quanto al trauma psichico la Suprema Corte ha ritenuto che non debba necessariamente tradursi in una sindrome duratura da “trauma psichico strutturato”, ma può consistere anche in una condizione temporanea che risulti, per le sue caratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, così da minacciarne la coesione mentale. La lesione deve essere verificata senza ricorrere necessariamente ad un accertamento tecnico, potendo assumere rilievo gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della persona offesa, dal suo comportamento successivo alla condotta dell’agente, dalle concrete modalità del fatto[57].
In ordine alle «acute» sofferenze fisiche, la Corte di Cassazione ha ritenuto che non sia necessario che la vittima abbia subito lesioni[58].
Un vivace dibattito si è svolto attorno all’elemento psicologico richiesto dall’art. 613 bis c.p. La norma richiede un dolo generico, anche eventuale. Parte della dottrina ha criticato il discostamento dalla definizione contenuta nella CAT, che richiede invece un dolo intenzionale e specifico in capo all’agente. Il dolo intenzionale avrebbe distinto tra eventi meritevoli di essere puniti a titolo di tortura ed altri sanzionabili ricorrendo a diverse fattispecie[59]. È stato, però, rilevato che molto spesso l’evento offensivo non rappresenta lo scopo ultimo della condotta dell’agente e che, quindi, il dolo intenzionale avrebbe ristretto eccessivamente l’operatività della disposizione[60]. La previsione del dolo generico amplierebbe, invece, la tutela offerta dalla norma, poiché permette che rientrino nell’ambito di applicazione anche eventi compiuti senza un preciso scopo e, pertanto, non costituisce una violazione della Convenzione CAT.
Occorre ora analizzare la vexata quaestio della natura giuridica del secondo comma dell’art. 613 bis c.p.: circostanza aggravante o fattispecie autonoma di reato?
La norma dispone che «se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni». La disposizione disciplina la c.d. “tortura di Stato”, ossia quella nella quale il soggetto attivo è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, ai sensi rispettivamente degli artt. 357 e 358 c.p.
Il richiamo ai «fatti di cui al primo comma» lascia intendere che gli elementi costitutivi previsti al primo comma devono sussistere anche quando il soggetto agente è qualificato. E difatti, un elemento dirimente per la qualificazione come circostanza aggravante è costituito proprio dal richiamo al primo comma[61].
Secondo una parte della dottrina il secondo comma dell’art. 613 bis c.p. disciplina una fattispecie autonoma di reato[62]. Il terzo comma dispone che «il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti», ciò escluderebbe la natura circostanziale del secondo comma[63]. Inoltre, il quarto comma contempla delle circostanze aggravanti e fa riferimento alle «pene di cui ai commi precedenti». Orbene, se il secondo comma configura una circostanza aggravante, allora il quarto comma dovrebbe qualificarsi come «un’aggravante di un’aggravante»[64]. Ma vi è di più. Se si considerasse il secondo comma come un’aggravante, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio sarebbe punibile ai sensi del primo comma anche nel caso in cui sussistesse la causa di esclusione della punibilità. Una simile soluzione sarebbe illogica e andrebbe contro le intenzioni del Legislatore. Di talché, la dottrina ritiene che il rinvio ai «fatti di cui al comma 1» contenuto nel capoverso dell’art. 613 bis andrebbe riferito al solo evento, non anche alla condotta, che per il soggetto qualificato potrebbe consistere in qualsiasi atto[65].
Nella giurisprudenza di legittimità non si è ancora consolidata una posizione al riguardo; in un caso la Suprema Corte ha aderito alla ricostruzione come circostanza aggravante[66]; ritenendo successivamente che in realtà si tratta di un reato autonomo[67], valorizzando la natura del soggetto attivo, l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e la necessità di un reato autonomo derivante dagli obblighi internazionali.
Si consideri, però, che l’art. 191, co. 2 bis c.p.p. prescrive l’inutilizzabilità delle dichiarazioni ottenute mediante «il delitto di tortura», considerando la tortura un’unica fattispecie di reato.
Emerge, dunque, una norma penale confusa, non abbastanza determinata da rendere prevedibile la sua applicazione. La qualificazione come circostanza aggravante o come reato autonomo della “tortura di Stato” comporta delle conseguenze applicative di non poco conto; anzitutto, il rischio che nel giudizio di bilanciamento la pena maggiore prevista dal secondo comma non venga applicata[68].
Ci si chiede in che modo l’Italia possa adempiere – efficacemente – agli obblighi internazionali con una norma di difficile interpretazione e che rischia di lasciare impuniti i responsabili di atti di tortura. Sarebbe stato sicuramente preferibile prevedere due distinte fattispecie di reato[69], l’una propria e l’altra comune.
Il quarto comma prevede delle circostanze aggravanti che vengono collegate alla causazione di lesione personali con aumenti di pena fino a un terzo se si tratta di lesioni lievi; di un terzo nell’ipotesi di lesioni gravi e della metà in caso di lesioni gravissime. Le aggravanti anzidette si configurano solo nel caso in cui la condotta si sia estrinsecata attraverso una pluralità di azioni, come si evince dal riferimento letterale «ai fatti».
Qualche dubbio è sorto in dottrina sull’opportunità di configurare un’aggravante nel caso di lesioni lievi; è stato affermato che la lesione lieve sia intrinseca alla condotta e che il disvalore che dovrebbe connotare la circostanza sia già contenuto dell’ipotesi base[70].
Il quinto comma disciplina l’ipotesi in cui alla tortura segua la morte della persona offesa, prevedendo la pena della reclusione di anni trenta nel caso in cui la morte sia una conseguenza non voluta e dell’ergastolo[71] nel caso in cui l’agente abbia volontariamente causato la morte[72]. È l’unica ipotesi in cui il Legislatore ha espressamente richiesto che l’evento aggravatore sia sorretto dal dolo; ciò ha indotto parte della dottrina a ritenere che sarebbe improprio far riferimento al paradigma dei delitti aggravati dall’evento, dovendosi più correttamente affermare che la disposizione sia un’applicazione dell’art. 84 c.p.
- Sulla necessità di un reato proprio. – Nella Relazione illustrativa della Proposta di
legge di abrogazione degli artt. 613 bis e 613 ter c.p., emerge che l’obiettivo perseguito[73] è quello di evitare una «eccessiva penalizzazione del legittimo operato delle forze di polizia» ed evitare che siano disincentivate nel loro lavoro. Inoltre, secondo i promotori, in Italia non risulta «che ci sia una recrudescenza di reati e di abusi in genere commessi da appartenenti alle Forze dell’ordine nell’esercizio della loro funzione tale da giustificare l’introduzione del nuovo reato» e, comunque, «esiste già una batteria di norme repressive».
La proposta di legge desta non poche perplessità.
È vero che la dottrina ha duramente criticato la formulazione dell’art. 613 bis c.p., mettendone in luce le incongruenze e la indeterminatezza; ma è anche vero che l’introduzione di questa norma è stato considerato un decisivo passo in avanti nella tutela della dignità umana.
L’attuale previsione di due fattispecie autonome di reato[74] è da apprezzare perché tiene distinta la tortura “privata” dalla tortura “di Stato”. La tortura privata consiste essenzialmente in una forma speciale di maltrattamenti, la cui offensività deriva dalla lesione di una relazione di fiducia o di tutela. La tortura di Stato ha, invece, un disvalore maggiore; la sua offensività deriva dal “tradimento” della funzione pubblica e dallo sviamento del potere conferito alle autorità. È su quest’ultima forma di tortura che si concentrano gli obblighi internazionali, perché è la più frequente nella prassi e per le caratteristiche stesse delle Convenzioni internazionali. La necessità di punire la tortura di Stato, dunque, deve sicuramente considerarsi prioritaria.
Una norma penale che la sanzioni deve esistere nel nostro ordinamento per adempiere agli obblighi assunti sul piano internazionale, ma ancor prima per una ragione culturale e sociale che impone di rendere effettiva l’inviolabilità dei diritti umani. La Costituzione, dopo aver dichiarato all’art. 2 che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, stabilisce all’art. 13, co. 4 che è punita «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà»[75], e all’art. 27 che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La tortura di Stato è un reato plurioffensivo: in primo luogo, lede la dignità umana della persona; in secondo luogo, lede il corretto andamento della pubblica amministrazione e dell’amministrazione della giustizia. Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando dei suoi poteri o agendo in violazione dei suoi doveri, commette atti di tortura deve risponderne. E deve risponderne in forza di un reato autonomo, perché il rischio che la circostanza aggravante entri nel giudizio di bilanciamento ed annulli completamente il disvalore della tortura di Stato, è concreto. Pertanto, si ritiene che la Proposta di legge non farebbe altro che ricreare un vuoto di tutela.
Ma se non bastasse il panorama internazionale e la Costituzione per affermare la perdurante necessità di un delitto di tortura, si guardi allora alla realtà concreta.
Prima dell’introduzione del reato di tortura, l’orientamento della Corte di Cassazione[76] era nel senso di ricomprendere all’interno dell’art. 572 c.p. anche le pratiche persecutorie realizzate nell’ambito di un rapporto “para-familiare”, ossia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole nei confronti del soggetto in posizione di supremazia, posizione connotata dall’esercizio di un potere disciplinare o direttivo tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione. La giurisprudenza di legittimità qualificava come rapporto para-familiare quello tra detenuto e gli agenti di polizia penitenziaria, con la conseguenza che fatti di tortura venivano puniti ai sensi dell’art. 572 c.p.[77]
Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha qualificato il fatto imputato a quattro agenti di polizia come «crimine […] di tortura»[78], nonostante gli imputati furono condannati ai sensi degli artt. 589, 51, 55, 113 c.p., rimarcando l’inadempienza dell’Italia nei confronti degli obblighi imposti dal diritto consuetudinario e dalle Convenzioni internazionali.
Il rapporto del 2012 di Amnesty International annovera l’Italia tra i paesi dove casi di tortura e altri maltrattamenti sono stati denunciati e accertati[79]. Il rapporto del CPT pubblicato nel 2013 e relativo al sopralluogo compiuto in Italia nel maggio 2012, constata il frequente ricorso alla forza da parte della polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine all’interno delle carceri[80].
Dunque, diverse disposizioni del Codice penale hanno supplito alla carenza di una norma ad hoc per la tortura; ciò non significa, però, che quelle norme erano efficaci a contrastare il fenomeno[81]. Si pensi ai fatti di Bolzaneto, nonostante siano stati accertati i gravi abusi perpetrati dalle forze dell’ordine, dei quarantacinque imputati soltanto otto sono stati condannati in via definitiva, quattro sono stati assolti e per tutti gli altri il reato è stato dichiarato estinto per sopravvenuta prescrizione[82]. La Corte EDU affermerà che gli atti di violenza perpetrati nella Caserma di Bolzaneto configuravano una tortura e che i principi fondamentali dello Stato di diritto furono soppressi[83].
La Corte di Cassazione qualificava come tortura anche i fatti avvenuti nella scuola Diaz[84], dove 93 persone hanno passato la notte in balia della condotta «cinica e sadica» tenuta dagli agenti di polizia. Nonostante la tortura era stata accertata, anche questo giudizio si concluse con una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, mancando ancora una norma sul delitto di tortura.
Ancora, è intervenuta la prescrizione per i fatti avvenuti nel carcere di Asti, dove il Tribunale ha accertato che nel carcere esisteva una «pratica generalizzata di maltrattamenti», maturata in un clima di impunità, dovuto anche alla tolleranza degli alti livelli dell’amministrazione del carcere[85].
Le vicende poste al vaglio della giurisprudenza ora citata, seppur sinteticamente, dimostrano che la tortura è una pratica attuale e, per questo, deve essere prevenuta e contrastata con norme adeguate.
Accanto alla necessità di – continuare a – sanzionare penalmente la tortura, si auspicano misure volte a prevenire e reprimere gli atti di tortura, nonché ad incentivare la collaborazione da parte delle forze dell’ordine ai fini dell’accertamento dei fatti. Per rendere effettiva la tutela, però, il Legislatore dovrebbe intervenire su quei luoghi dove sono ristrette le persone, come le carceri, le REMS, gli hotspot. Questi luoghi meritano un’attenzione particolare perché in essi è più facile che si sviluppino atti di violenze che sfocino in torture o trattamenti inumani o degradanti e perché in essi questi episodi spesso non vengono alla luce.
Si pensi, da ultimo, ai drammatici fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020: oltre trecento detenuti sono stati sottoposti a violenze e «umiliazioni degradanti» nel corso di una «perquisizione straordinaria»[86]. Ancora, il 9 marzo 2023 il Tribunale di Siena ha condannato alcuni agenti di polizia penitenziaria, ritenuti responsabili del delitto di tortura ai danni di una persona detenuta nel carcere di San Gimignano[87].
La criminalizzazione della tortura è imposta dalla Costituzione e dagli obblighi internazionali pattizi e consuetudinari (artt. 10 e 117 Cost.) ed è insita in uno Stato di diritto che tutela la persona umana in tutte le sue forme. L’art. 613 bis c.p. presenta certamente alcune criticità, di cui peraltro si è detto; tuttavia, la sua abrogazione non sembra, a parere di chi scrive, la soluzione migliore.
[1] Invero il Codice Penale Militare di Guerra vieta espressamente gli atti costituenti tortura o trattamenti inumani (art. 185 bis). V. A. Lanzi, T. Scovazzi, Una dubbia repressione della tortura e di altri gravi crimini di guerra, in Riv. dir. int., 2004, p. 685 ss.
[2] In questi termini nelle sentenze della Corte EDU v. Tyrer c. Regno Unito, 25 aprile 1978, par. 33; nonché, più di recente in Corte EDU, Bouyid c. Belgio, 28 settembre 2015, par. 81. Per la dottrina, ex multis, v. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 49 ss.
[3] Corte Internazionale di Giustizia (CIG), Questioni concernenti l’obbligo di perseguire o estradare, Belgio c. Senegal, 20 luglio 2012; par. 99: «[i]n the Court’s opinion, the prohibition of torture is part of customary international law and it has become a peremptory norm (jus cogens)».
[4] Art. 5 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: «No one shall be subjected to torture or to cruel, inhuman or degrading treatment or punishment».
[5] Art. 7 ICCPR: «No one shall be subjected to torture or to cruel, inhuman or degrading treatment or punishment. In particular, no one shall be subjected without his free consent to medical or scientific experimentation».
[6] V. art. 2, co. 2 ICCPR: «Where not already provided for by existing legislative or other measures, each State Party to the present Covenant undertakes to take the necessary steps, in accordance with its constitutional processes and with the provisions of the present Covenant, to adopt such laws or other measures as may be necessary to give effect to the rights recognized in the present Covenant».
[7] V. Declaration on the Protection of All Persons : «For the purpose of this Declaration, torture means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted by or at the instigation of a public official on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or confession, punishing him for an act he has committed or is suspected of having committed, or intimidating him or other persons. It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to, lawful sanctions to the extent consistent with the Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners». È rilevante nella definizione il coordinamento con le Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners, adottate a Ginevra nel 1955 in occasione del First United Nations Congress on the Prevention of Crime and the Treatment of Offenders, utilizzate come parametro (internazionale) di differenziazione tra condotte legittime e condotte integranti la fattispecie della tortura.
[8] Art. 1, co. 2 Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o ad altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti: «Torture constitutes an aggravated and deliberate form of cruel, inhuman or degrading treatment or punishment».
[9] Art. 1 CAT: «For the purposes of this Convention, the term "torture" means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or a confession, punishing him for an act he or a third person has committed or is suspected of having committed, or intimidating or coercing him or a third person, or for any reason based on discrimination of any kind, when such pain or suffering is inflicted by or at the instigation of or with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity. It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to lawful sanctions».
[10] V. Kirsanov c. Russia, 06.06.2014, CAT/C/52/D/478/2011, par. 11.2. Un diverso orientamento distingue la tortura dai trattamenti crudeli, inumani o degradanti avendo riguardo all’elemento soggettivo, il dolo specifico, e la condizione di impotenza in cui si trovi la vittima. V. sul punto P. Lobba, Punire la tortura in Italia. Spunti ricostruttivi a cavallo tra diritti umani e diritto penale internazionale, in Dir. Pen. Cont., 10, 2017, p. 191.
[11] Art. 2 CAT: «1. Each State Party shall take effective legislative, administrative, judicial or other measures to prevent acts of torture in any territory under its jurisdiction. 2. No exceptional circumstances whatsoever, whether a state of war or a threat of war, internal political instability, or any other public emergency, may be invoked as a justification of torture. 3. An order from a superior officer or a public authority may not be invoked as a justification of torture».
[12] Art. 4 CAT: «Each State Party shall ensure that all acts of torture are offences under its criminal law. The same shall apply to an attempt to commit torture and to an act by any person which constitutes complicity or participation in torture. 2. Each State Party shall make these offences punishable by appropriate penalties which take into account their grave nature».
[13] Art. 16 CAT: «Each State Party shall undertake to prevent in any territory under its jurisdiction other acts of cruel, inhuman, or degrading treatment or punishment which do not amount to torture as defined in article I, when such acts are committed by or at the instigation of or with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity. In particular, the obligations contained in articles 10, 11, 12 and 13 shall apply with the substitution for references to torture of references to other forms of cruel, inhuman or degrading treatment or punishment».
[14] V. gli artt. 19-22 CAT per le citate competenze del Comitato CAT.
[15] I rapporti sull’Italia del Comitato contro la tortura sono consultabili sul sito del Consiglio d’Europa.
[16] Corte EDU, E. e altri c. Regno Unito, 26 novembre 2002; Corte EDU, M.C. c. Bulgaria, 4 dicembre 2003.
[17] V. art. 15 CEDU, che esclude la possibilità di deroga da parte degli Stati in caso di stato di guerra o di altro pericolo pubblico che metta in pericolo la vita della Nazione.
[18] V. Zagrebelsky-R. Chenal-L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europea, Il Mulino, Bologna, 2019.
[19] Tuttavia, in diverse occasioni la Corte ha accertato la violazione dell’art. 3 senza specificare quale ipotesi si sia in concreto verificata; v. Corte EDU, M. C. c. Bulgaria, 4 dicembre 2003, par. 148-187.
[20] Corte EDU, Selmouni c. Francia, 28 luglio 1999, par. 100.
[21] V. Corte EDU, Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978, par. 167; Corte EDU, Selmouni c. Francia, 28 luglio 1999, par. 100; Corte EDU, Soering c. Regno Unito, 07 luglio 1989, par. 78.
[22] A. Colella, C’è un giudice a Strasburgo. In margine alle sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l’inadeguatezza del quadro normativo italiano in tema di repressione penale della tortura, in Riv. it. dir. e proc. pen., p. 1815-1817; P. Lobba, Punire la tortura in Italia, cit.; F. Trione, Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, p. 41.
[23] La stessa Corte EDU prende atto dell’espansione che la portata applicativa dell’art. 3 ha subito, v. Selmouni c. Francia, 28 luglio 1999, par. 101, ove si legge che «Tenuto conto della circostanza che la Convenzione è uno strumento vivente che deve essere interpretato alla luce delle condizioni di vita attuali, la Corte ritiene che taluni atti un tempo qualificati come trattamenti inumani e degradanti e non tortura, potrebbero ricevere una qualificazione differente in futuro. La Corte osserva, infatti, che il crescente livello di sensibilità in materia di protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali implica, parallelamente e ineluttabilmente, una maggiore fermezza nella valutazione dei valori fondamentali delle società democratiche». V. sul punto P. Lobba, Punire la tortura in Italia, cit., p. 202.
[24] Corte EDU, Gäfgen c. Germania, 10 gennaio 2010, par. 101 ss.
[25] Corte EDU, Denezi e altri c. Cipro, 23 maggio 2001, par. 384-386; Corte EDU, Krastanov c. Bulgaria, 30 settembre 2013, par. 53.
[26] A. Colella, C’è un giudice a Strasburgo, cit., p. 1817.
[27] Corte EDU, V. Varnava e altri c. Turchia, 18 settembre 2009, par. 181 ss.; Corte EDU, Slimani c. Francia, 27 luglio 2004, par. 27-32; Corte EDU, Portu Juanenea e Sarasola Yarzabal c. Spagna, 13 febbraio 2018, par. 73-85.
[28] Corte EDU, Tomasi c. Francia, 27 agosto 1992.
[29] Si tratta, tuttavia, di una giurisprudenza non trasferibile nel nostro ordinamento, essendo i criteri di responsabilità dello Stato diversi da quelli posti alla base della responsabilità penale degli individui.
[30] Corte EDU, Valiulienè c. Lituania, 23 marzo 2013, par. 73-75.
[31] Corte EDU, A. c. Regno Unito, 23 settembre 1998, par. 24; Corte EDU, G. U. c. Turchia, 18 ottobre 2016, par. 59-82; Corte EDU, Talpis c. Italia, 2 marzo 2017, par. 95-132; Corte EDU, V.C. c. Italia, 1 febbraio 2018, par. 88-112.
[32] Nel caso Gäfgen c. Germania, 10 gennaio 2010, par. 218-226, la Corte censura la Germania in quanto le pene inflitte sono state ritenute manifestamente sproporzionate e non sufficientemente severe per avere un effetto deterrente; e non invece per la mancanza nell’ordinamento di una fattispecie autonoma di reato di tortura.
[33] Corte EDU, Irlanda c. Regno Unito, 10 settembre 2018, par. 159.
[34] Corte EDU, Al Nashiri c. Polonia, 24 luglio 2014, par. 452.
[35] Corte EDU, Scozzari e Giunta c. Italia, 13 luglio 2000, 39221/98, par. 249; Scoppola c. Italia, 17 settembre 2009, par. 154; Corte EDU, Cestaro c. Italia, 7 aprile 2015; Corte EDU, Bartesaghi e altri c. Italia, 22 giugno 2017.
[36] Corte EDU, Cestaro e altri c. Italia, 7 aprile 2015; Corte EDU, Blair e altri c. Italia, 26 ottobre 2017.
[37] Legge 14 luglio 2017, n. 110, recante “Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”. La legge ha introdotto nel Codice penale anche l’art. 613 ter (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura). Inoltre, ha modificato l’art. 191 c.p.p., introducendo il comma 2 bis che dispone l’inutilizzabilità delle dichiarazioni o delle informazioni ottenute mediante il delitto di tortura, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale; modificato l’art. 19 D. lgs. n. 286/1998 (Testo Unico Immigrazione), introducendo il comma 1.1 che prescrive il divieto di respingimento, espulsione o estradizione di una persona verso uno Stato, quando vi siano «fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura». Infine, la legge ha previsto l’esclusione dall’immunità diplomatica agli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale; in tali casi lo straniero è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, in caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, verso il tribunale stesso o lo Stato individuato ai sensi dello statuto del medesimo tribunale.
[38] Cass., Sez. III, 25 maggio 2021, n. 32380, ha puntualizzato che, se la collocazione sistematica «induce a ritenere che l’oggettività giuridica criminosa “generica” debba identificarsi nella tutela della c.d. libertà morale o psichica della persona, intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni fisiche e psichiche» deve tuttavia considerarsi che «l’oggettività giuridica criminosa “specifica”, ossia il bene giuridico tutelato dall’incriminazione, ha un contenuto più pregnante […] il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della “dignità umana”». Di diverso avviso Cass., Sez. V, 8 luglio 2019, n. 47079, che ritiene la «libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente» il bene giuridico tutelato dalla norma.
[39] Così F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei Deputati, Parere reso nel corso dell’audizione svoltasi presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati il 24 settembre 2014, in Dir. pen. cont., 2014, p. 6-7.
[40] V. Trib. Monza, 10 giugno 2016; Trib. Como, 27 aprile 2017; Cass., Sez. I, 15 maggio 2018, n. 37317; Cass., Sez. V, 8 luglio 2019, n. 47079, secondo cui, includere nella fattispecie di tortura anche quella commessa da privati «tiene conto dell’esperienza proveniente dalla realtà criminologica che dimostra come la tortura possa assumere anche una dimensione inter-privatistica» e «risulta maggiormente coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che interpreta il divieto di tortura di cui all’art. 3 CEDU come riferito a tutti i soggetti dell’ordinamento, pubblici o privati che siano»; Cass., Sez. III, 25 maggio 2021, n. 32380.
[41] V. S. Amato-M. Passione, Il reato di tortura, in Dir. pen. cont., 2019; G. Lanza, Verso l’introduzione del delitto di tortura nel codice penale italiano: una fatica di Sisifo, in Dir. pen. cont., 2016, p. 20 ss.; A. Pugiotto, Una legge sulla tortura, non contro la tortura. Riflessioni costituzionali suggerite dalla l. n. 110 del 2017, in Quad. cost., 2018, p. 400-402; E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Carucci, Bari, 2018, p. 263 ss.; Report del Comitato CAT sull’Italia 2017, in Dir. pen. cont., con nota di F. Cancellaro. V. invece, P. Lobba, Obblighi internazionali e nuovi confini della nozione di tortura, in Dir. pen. cont., 2019, p. 27, secondo l’Autore, l’art. 613 bis c.p. contiene due autonome figure di reato e, pertanto, l’aver disciplinato la tortura anche come reato comune non ha affievolito la tutela contro la tortura di Stato: «il reato comune funzionerebbe insomma come fattispecie di completamento che estende la tutela ad altre condotte in tutto assimilabili a quelle ricomprese nel nucleo forte della tortura, fatta eccezione per il profilo pubblicistico dell’abuso del potere». V. anche P. Lobba, Punire la tortura in Italia, cit.
[42] Il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa ha inviato una lettera ai presidenti delle Camere in data 12 giugno 2017, con la quale ha segnalato la possibilità di violazioni dell’art. 3 CAT e della Convenzione contro la tortura. È stata rilevata anche la mancanza di una norma che escludesse la prescrizione, la grazia, l’amnistia e l’indulto per il delitto di tortura.
[43] A. Pugiotto, Una legge sulla tortura, non contro la tortura (riflessioni costituzionali suggerite dalla L. n. 110 del 2017), in L. Stortoni-D. Castronuovo (a cura di), Nulla è cambiato? Riflessioni sulla tortura, p. 91-92, l’Autore considera il secondo comma dell’art. 613 bis c.p. una «aggravante ad effetto speciale» e criticava la scelta della formulazione del delitto di tortura come delitto comune: «l’interpretazione sistematica conferma che, costituzionalmente, il divieto di tortura riguarda prioritariamente il rapporto di potere […] tra individuo e autorità pubblica. Ed esige, dunque, che la tortura sia punita innanzitutto come reato proprio, non quale delitto comune».
[44] S. Amato-M. Passione, Il reato di tortura, cit., p. 5. Tuttavia, le norme che sopperivano alla mancanza di una fattispecie ad hoc che disciplinasse la tortura non erano affatto adeguate a punire fatti gravi come quello della tortura, tant’è che sopravveniva la prescrizione prima della definizione del giudizio. V. Cass., 27 luglio 2012, n. 30780; Corte EDU, Cirino e Renne c. Italia, 26 ottobre 2017, par. 105-116; Corte EDU, Cestaro c. Italia, 7 aprile 2015, par. 242-246.
[45] A. Colella, La repressione penale della tortura: riflessioni de iure condendo, in Dir. pen. cont., 2014, p. 37; I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. pen. cont., 2017.
[46] I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 157; secondo l’Autrice, il termine «affidata» vuole significare l’esistenza di una presa in carico formale.
[47] A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura, in www.altalex.it, «E, d’altra parte, non sarebbe ragionevole escludere la punibilità di torture realizzate dalle forze dell’ordine a seguito di un arresto illegale, oppure nel contesto di un fermo, anche di breve durata, eseguito per procedere all’identificazione di un soggetto; così, neppure vi è motivo di estromettere dall’ambito dell’art. 613-bis le ipotesi in cui l’autore della restrizione personale sia un privato (come accade nel sequestro di persona). Al contrario, in relazione a tale aspetto riteniamo che la nuova fattispecie rischi di creare un vuoto di tutela in relazione alle ipotesi in cui i destinatari della tortura siano soggetti che si trovano in stato di libertà, come potrebbe accadere, ad esempio, nel caso in cui si realizzi una violenta carica della polizia contro pacifici manifestanti, nei confronti dei quali siano inflitte crudeli e gratuite sofferenze». Al contrario, I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 157, ritiene che il presupposto della privazione della libertà personale «sembrerebbe accogliere l’obbligo costituzionale di incriminazione sancito dall’art. 13 co. 4 Cost., relativo all’habeas corpus e quindi alla limitazione della libertà in forza di un provvedimento giurisdizionale». V. Cass., Sez. III, 25 maggio 2021, n. 32380, secondo cui la privazione della libertà personale può risolversi anche in una limitazione della libertà di movimento.
[47] I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 157.
[48] I. Marchi, Il delitto di tortura,cit., p. 157; F. Viganò, Op. cit., p. 12. Secondo l’Autore, sarebbe stato opportuno rinunciare «ad ogni criterio selettivo dei possibili soggetti passivi».
[49] Cass., Sez. V, 8 luglio 2019, n. 47079; Cass., Sez. V, 11 ottobre 2019, n. 50208, che ha ritenuto che per la verifica della minorata difesa si debbano valorizzare le condizioni personali e ambientali che facilitano l’azione criminale e che rendano effettiva la signoria o il controllo dell’agente sulla vittima, agevolando il depotenziamento se non l’annullamento delle capacità di reazione di quest’ultima.
[50] A. Pugiotto, Una legge sulla tortura, cit., p. 93-94, critica la previsione della pluralità delle condotte, la quale sarebbe in contrasto con l’art. 13, co. 4, Cost. che fa riferimento ad «ogni violenza» e con l’art. 1 CAT che vieta «qualsiasi atto». Secondo l’Autore «la tortura non si tara. La sua durata, al pari della gravità o crudeltà dell’atto di violenza, del carattere acuto della sofferenza provocata, della sua verificabilità, non possono pesarsi ex ante per legge, se non altro perché le pratiche di tortura sono perennemente cangianti e sempre più sofisticate».
[51] Cass., Sez. V, 11 ottobre 2019, n. 50208. Tuttavia, rileva A. Colella, Pronunciandosi per la prima volta nel merito sull’art. 613-bis c.p., la Cassazione aderisce alla tesi della tortura c.d. di Stato come fattispecie autonoma di reato, in www.sistemapenale.it, che non «persuade la qualificazione del trattamento inumano e degradante per la dignità della persona alla stregua di un ulteriore elemento costitutivo del reato proposta dalla sentenza in commento […] è verosimile ritenere che il legislatore abbia introdotto quest’espressione nel tentativo di ottemperare all’obbligo di incriminazione espresso anche in riferimento ai trattamenti inumani e degradanti dalla Corte EDU nelle sentenze sul G8 di Genova del 2001».
[52] Cass., Sez. V, 8 luglio 2019, n. 47079.
[53] È opportuno però sottolineare che la tortura va tenuta distinta dal trattamento inumano o degradante. Vero è che la distinzione è labile, ma comunque si tratta di fatti che, per i diversi gradi di gravità che connotano le fattispecie, meritano di essere tenuti distinti.
[54] Cass., Sez. V, 11 ottobre 2019, n. 50208.
[55] Cass., Sez. Un., 23 giugno 2016, n. 40516.
[56] V. sul punto, A. Marchesi, Delitto di tortura e obblighi internazionali di punizione, in Riv. di dir. int., 2018, p. 131 ss.
[57] Cass., Sez. V, 2 marzo 2017, n. 17795; Cass., Sez. V, 8 luglio 2019, n. 47079; Cass., Sez. III, 25 maggio 2021, n. 32380.
[58] Cass., Sez. V, 11 ottobre 2019, n. 50208.
[59] F. Viganò, op. cit., p. 11 ss. V. A. Costantini, op. cit., p. 6, l’Autore critica la previsione del dolo generico soprattutto con riferimento alla tortura realizzata da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, nella quale lo scopo della condotta è «coessenziale al disvalore del fatto, esprimendo il vulnus nel rapporto tra cittadini e autorità derivante dall’uso distorto del potere pubblico».
[60] G. Lanza, op. cit., p. 16. L’Autore accoglie con favore la scelta di eliminare la parola «intenzionalmente» dalla formulazione della norma, perché «conciliare lo standard probatorio di cui all’art. 533, comma 1, c.p.p. con l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 613 bis c.p. con la menzionata locuzione, appariva impresa di non poco momento e il duplice rischio che con tale formulazione normativa si correva sembrava essere, per un verso, quello di lasciar spazio a presunzioni circa la sussistenza di ciò che invece andrebbe dimostrato; per l’altro, quello di lasciare impuniti tutti quei comportamenti per i quali non fosse possibile accertare l’elemento soggettivo richiesto».
[61] Si consideri, inoltre, che nella Relazione illustrativa del Servizio Studi della Camera dei deputati il secondo comma viene qualificato come circostanza aggravante; v. Servizio Studi Camera dei Deputati, Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano, A.C. 2168-B.
[62] COLELLA; P. Lobba, Obblighi internazionali, cit.
[63] Rileva A. Costantini, op. cit., p. 5, che il terzo comma descrive «una situazione incompatibile con gli elementi costitutivi del delitto di tortura di cui al comma 1: se le sofferenze derivano unicamente dall’esecuzione di legittime misure limitative o privative di diritti, comma possono le stesse essere causate da condotte di minaccia, violenza o addirittura crudeltà?».
[64] Così F. Viganò, op. cit.
[65] A. Costantini, op. cit., p. 5.
[66] Cass., Sez. V, 11 ottobre 2019, n. 50208, in www.sistemapenale.it, con note di A. Colella, La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di ‘tortura’ (art. 613 bis c.p.).
[67] Cass., Sez. III, 25 maggio 2021, n. 32380.
[68] Ciò esporrebbe il nostro ordinamento ad altre censure da parte della Corte EDU per inefficacia delle sanzioni inflitte. V. A. Colella, La repressione penale, cit., p. 43, che aveva ipotizzato una soluzione: escludere esplicitamente le circostanze dal giudizio di bilanciamento oppure applicare la disciplina comune dettata dall’art. 586; A. Pugiotto, Una legge sulla tortura, cit., p. 98.
[69] A. Pugiotto, Una legge sulla tortura, cit., p. 96.
[70] I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 161. Si consideri però che le nuove forme di tortura non lasciano segni sul corpo della vittima, si pensi al c.d. waterboarding.
[71] A. Pugiotto, Una quaestio sulla pena dell’ergastolo, in Dir. pen. cont., 2013; E. Scaroina, op. cit., p. 304-305, che rimarca il riferimento alla pena dell’ergastolo, affermando che «in un momento in cui è particolarmente acceso il dibattito sulla compatibilità di detta sanzione con l’evoluzione degli ordinamenti democratici e con la funzione rieducativa della pena sarebbe stato invero auspicabile […] un segnale, rivolto quanto meno al futuro, di rinuncia a tale strumento punitivo»; I. Marchi, Luci ed ombre del nuovo disegno di legge per l’introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano: un’altra occasione persa?, in Dir. pen. cont., 2014, p. 15.
[72] Rileva I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 165, che la pena dell’ergastolo si sarebbe dovuta applicare in ragione della configurazione di tale condotta come omicidio volontario, eventualmente aggravato dall’art. 61 n. 4, ritenendo dunque «inutile» l’aggravante in questione.
[73] Sulle «vere ragioni ostative al reato di tortura» v. A. Pugiotto, Repressione penale, cit., p. 144.
[74] Seppur non era intenzione del Legislatore del 2017, l’art. 613 bis contiene due autonome fattispecie di reato. Se così non fosse, la norma sarebbe in evidente conflitto con la CAT.
[75] V. A. Pugiotto, Repressione penale della tortura e Costituzione: anatomia di un reato che non c’è, in Dir. pen. cont., 2014, p. 133. L’Autore sottolinea che è l’unico articolo della Costituzione che impone una repressione penale; dunque, «è già con l’entrata in vigore d4ella Costituzione italiana del 1948 che sorge l’imperativo legislativo di vietare la tortura e criminalizzarne il ricorso».
[76] Cass., Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594.
[77] Cass., Sez. VI, 27 luglio 2012, n. 30780, nella quale si legge che «la realizzazione di condotte violente, vessatorie, umilianti e denigranti da parte di appartenenti alla polizia penitenziaria ai danni di detenuti in ambiente carcerario integra l’elemento materiale del reato di cui all’art. 572 c.p. […] allorquando le condotte realizzate sono espressione di una pratica reiterata e sistematica». Il caso originava da una sentenza del Tribunale di Asti, del 30 gennaio 2012, che qualificando ai sensi dell’art. 608 c.p. i fatti di tortura commessi da due agenti di polizia penitenziaria ai datti di due detenuti, precisava che «i fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come ‘tortura’» se l’Italia non avesse omesso di dare attuazione alla Convenzione ONU del 1984. Si noti, inoltre, che il giudizio si è concluso con una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato determinata da prescrizione.
[78] Trib. Sorv. Bologna, 21 maggio 2013, n. 1281. Un giovane studente, Federico Aldrovandi, «veniva affrontato dai quattro odierni condannati, insieme, armati di manganelli […], mediante pesantissimo uso di violenza personale. Il giovane veniva, in definitiva, percosso in diverse parti del corpo, proseguendo i quattro agenti la loro azione congiunta, anche quando il ragazzo (appena diciottenne) era ormai a terra, e nonostante le sue invocazioni di aiuto […] fino a sovrastarlo letteralmente di botte».
[79] Amnesty International, Rapporto 2012, in www.amnesty.it.
[80] Report CPT (19 novembre 2013). Più recentemente, Report CPT (21 gennaio 2020); Report CPT (24 marzo 2023); tutti consultabili sul sito del Consiglio d’Europa.
[81] Le disposizioni penali più impiegate per punire fatti qualificabili come tortura erano gli artt. 581, 582, 594, 605, 606, 607, 608, 609, 610, 612, 613 c.p. Rileva A. Pugiotto, Repressione penale, cit., che la Convenzione CAT richiede pene «adeguate alla gravità del reato» e «una pena lieve, dunque soggetta a termini di prescrizioni brevi, espone al rischio dell’impunità». Il decorso dei termini prescrizionali ha rappresentato, in effetti, una causa di impunità di numerosi fatti di tortura.
[82] Cass., Sez. V, 14 giugno 2013, n. 37088.
[83] Corte EDU, Cestaro c. Italia, 7 aprile 2015; Corte EDU, Bartesaghi e altri c. Italia; Corte EDU, Azzolina e altri c. Italia, 26 ottobre 2017; Corte EDU, Blair e altri c. Italia, 26 ottobre 2017. Per una panoramica della giurisprudenza della Corte EDU tra il 2008 e il 2010, v. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), in Dir. pen. cont., 2011, p. 221 ss.
[84] Cass., Sez. V, 5 luglio 2012, n. 38085, nella quale si legge che «tutti gli operatori di polizia, appena entrati nell’edificio, si erano scagliati sui presenti, sia che dormissero, sia che stessero immobili con le mani alzate, colpendo tutti con i manganelli (i c.d. “tonfa”) e con calci e pugni, sordi alle invocazioni di “non violenza” provenienti dalle vittime, alcune con i documenti in mano, pure insultate al grido di “bastardi”». Quella notte 93 persone furono tratte in arresto; 87 di esse riportano lesioni e due hanno rischiato la vita.
[85] Trib. Asti, 30 gennaio 2012; il Tribunale qualifica gli atti commessi dagli imputati come tortura ai sensi della CAT. Successivamente, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 3 CEDU, avendo la Corte riconosciuto che il trattamento subito dai ricorrenti costituiva una tortura ai sensi dell’art. 3 CEDU. V. Corte EDU, Cirino e Renne c. Italia, 26 ottobre 2017. Per un excursus sui fatti di cronaca recenti che hanno visto imputati agenti di forze dell’ordine per atti qualificabili come tortura v. A. Colella, La repressione penale, cit., p. 2 ss.
[86] Cass., Sez. V, 09 novembre 2021, n. 8973; la sentenza, seppur in fase cautelare, afferma che «secondo quanto accertato sulla base delle immagini acquisite dal sistema di videosorveglianza del carcere, nonché dalle chat tra gli agenti di polizia penitenziaria e dalle dichiarazioni dei detenuti, il pomeriggio del 6 aprile 2020, tra ore 15.30 e 19.30, all’interno del reparto Nilo del carcere di S. Maria Capua Vetere, numerosi agenti di Polizia Penitenziaria – giunti anche dalle carceri di Secondigliano e di Avellino – hanno esercitato una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro; i detenuti, costretti ad attraversare il c.d. ‘corridoio umano’ (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venivano colpiti violentemente con i manganelli, o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle. Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti […] Dopo le quattro ore di ‘mattanza’, le sofferenze fisiche e psicologiche venivano perpetrate anche nei giorni immediatamente successivi».
[87] Trib. Siena, 9 marzo 2023. Altri dieci agenti di polizia penitenziaria sono stati condannati per lo stesso fatto dal Tribunale di Siena, il 17.02.2021.