IL DIALOGO TRA LE CORTI E LA TUTELA INTEGRATA DELLA DIGNITA’ DEI DETENUTI: L’ERGASTOLO OSTATIVO
E IL CASO “VIOLA CONTRO ITALIA”*
Sommario: 1. L’ergastolo ostativo e la sentenza della Corte EDU nel caso “Viola contro Italia”. – 2. La decisione della Corte EDU nell’affaire “Viola contro Italia” e la tutela della dignità dei detenuti ex art. 3 CEDU. – 3. La piattaforma ermeneutica nazionale su cui interveniva la decisione della Corte EDU nell’affaire “Viola contro Italia”. – 4. La sentenza della Corte costituzionale 22 ottobre 2019, n. 253 e il richiamo della giurisprudenza sovranazionale consolidatasi con la decisione del caso “Viola contro Italia”. – 5. La tutela integrata della dignità dei detenuti, i richiami della Corte costituzionale e l’approvazione del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162.
1. L’ergastolo ostativo e la sentenza della Corte EDU nel caso “Viola contro Italia”
La sentenza pronunciata dalla Corte EDU nel caso “Viola contro Italia”[1] costituisce una rappresentazione esemplare del sistema di tutela integrata dei diritti fondamentali del detenuto che trae origine dai rapporti, sempre più simbiotici, esistenti tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento sovranazionale, che, nella materia del diritto penitenziario, ha assunto connotazioni assolutamente peculiari.
Si consideri che con questa sentenza la Corte EDU, per la prima volta, affermava l’incompatibilità dell’istituto dell’ergastolo ostativo, previsto dall’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, con il principio della dignità del detenuto, condannando l’Italia, contro cui aveva proposto ricorso Marcello Viola, per violazione dell’art. 3 CEDU.
La condanna dell’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU derivava dal fatto che, nella configurazione dell’istituto dell’ergastolo ostativo censurata dalla Corte di Strasburgo, le possibilità di liberazione di cui dispone un ergastolano ostativo erano eccessivamente limitate, non consentendo, se non eccezionalmente, la riduzione della pena dell’ergastolo e determinando, in questo modo, una violazione del principio della dignità del condannato sottoposto al trattamento sanzionatorio perpetuo.
L’importanza di questa decisione è anche la conseguenza del fatto che la pronuncia in esame si inseriva in un dibattito giurisprudenziale particolarmente avvertito nel nostro sistema penale, su cui interveniva la sentenza della Corte costituzionale 22 ottobre 2019, n. 253[2], sostanzialmente coeva alla pronuncia sovranazionale in esame.
A sua volta, la decisione della Corte EDU nel caso “Viola contro Italia” interveniva dopo alcuni mesi dall’emissione dell’ordinanza con cui la Corte di cassazione sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis Ord. pen.[3], per violazione degli artt. 3 e 27, comma terzo, Cost., dai cui argomenti i Giudici di Strasburgo traevano spunto, citando alcuni passaggi del provvedimento di remissione alla Corte costituzionale a sostegno delle proprie conclusioni.
In questa, stratificata, cornice, interveniva la Corte EDU che si pronunciava sul ricorso proposto da Marcello Viola, che era un detenuto condannato alla pena dell’ergastolo, con due anni e due mesi di isolamento diurno, per una pluralità di reati unificati dal vincolo della continuazione. Tra questi reati figuravano il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p. e alcuni delitti-fine, quali l’omicidio, il sequestro di persona e il porto illegale di armi da fuoco; tutti i delitti fine erano aggravati dall’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, novellato dall’art. 416-bis.1, c.p.
Deve, inoltre, precisarsi che il ricorrente, durante il primo periodo detentivo, protrattosi per sei anni, veniva sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis Ord. pen., che, a seguito di reclamo, veniva revocato dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, che fondava il suo giudizio favorevole al reclamante sul suo proficuo percorso trattamentale. L’autorità giudiziaria, infatti, valorizzava i progressi compiuti da Marcello Viola nel corso della sua detenzione, evidenziando che il Ministero della Giustizia non aveva tenuto conto dell’assenza di elementi che dimostrassero i perduranti contatti con l’ambiente mafioso di provenienza del detenuto, indispensabili per giustificare il mantenimento del regime detentivo speciale.
Dopo la revoca del regime speciale ex art. 41-bis Ord. pen., Marcello Viola formulava due istanze dirette a ottenere la concessione di permessi premio, alle quali faceva seguire la richiesta di usufruire del beneficio penitenziario della liberazione condizionale.
Queste istanze venivano rigettate dal Tribunale di sorveglianza di Roma sull’assunto che i soggetti condannati per uno dei delitti previsti dall’art. 4-bis Ord. pen. – tra i quali è compresa l’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p. – possono accedere ai benefici penitenziari solo a condizione che collaborino con la giustizia ovvero nelle ipotesi di collaborazione impossibile o irrilevante, che non ricorrevano nel caso di specie. Il ricorrente, del resto, non solo non aveva prestato alcuna forma di collaborazione processuale, ma si era sempre professato innocente, con la conseguenza che la sussistenza delle condizioni ostative stabilite dall’art. 4-bis Ord. pen. imponeva il respingimento delle istanza presentate da Marcello Viola finalizzate a ottenere i permessi premio e la liberazione condizionale.
Il Tribunale di sorveglianza di Roma, inoltre, rigettava le richieste di Marcello Viola finalizzate a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis Ord. pen. per contrasto con il principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27, comma terzo, Cost. A seguito del rigetto di tali, ulteriori, richieste il condannato decideva di rivolgersi alla Corte EDU, lamentando l’impossibilità de facto di essere liberato e di ottenere la riduzione della pena dell’ergastolo che gli era stata irrogata, che concretizzava una violazione dell’art. 3 CEDU.
Secondo il ricorrente, la violazione dell’art. 3 CEDU discendeva dal fatto che la previsione dell’art. 4-bis Ord. pen. poneva il condannato di fronte a un’alternativa incompatibile con i parametri convenzionali e con il principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27, comma terzo, Cost. Infatti, se decideva di collaborare con la giustizia, il detenuto rinunciava alla sua convinzione di essere innocente e accettava il rischio di mettere in pericolo la sua vita e quella dei suoi familiari; se, viceversa, decideva di non collaborare, rinunciava a ogni possibilità di accedere alla liberazione condizionale, stante l’effetto ostativo stabilito dall’art. 4-bis Ord. pen.
2. La decisione della Corte EDU nell’affaire “Viola contro Italia” e la tutela della dignità dei detenuti ex art. 3 CEDU.
La Corte EDU, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da Marcello Viola, riteneva che la disciplina dell’ergastolo ostativo prefigurata dall’art. 4-bis Ord. pen. determinava una violazione del principio di dignità dei detenuti, affermato dall’art. 3 CEDU, nella parte in cui restringeva alle sole ipotesi di collaborazione con la giustizia la possibilità per il ricorrente di accedere alla liberazione condizionale.
Per giungere a queste conclusioni, la Corte EDU sviluppava un percorso argomentativo incentrato sul rispetto del principio di dignità dei detenuti, stabilito dall’art. 3 CEDU e collegato al principio di rieducazione del reo affermato dall’art. 27, comma terzo, Cost., che esplicava i suoi effetti sulla configurazione dell’istituto dell’ergastolo ostativo, così come disciplinato dall’art. 4-bis Ord. pen.
I Giudici di Strasburgo, innanzitutto, muovevano dalla rilevanza del principio di dignità dei detenuti, che era stato elaborato nelle decisioni dei casi “Vinter e Hutchinson c. Regno Unito”[4] e “Murray c. Paesi Bassi”[5], evidenziando che il sistema convenzionale di tutela dei diritti dei detenuti non impediva, in quanto tale, l’applicazione di una sanzione penale perpetua, in presenza di reati caratterizzati da un elevato disvalore.
Si evidenziava, al contempo, che il riconoscimento di una tale soluzione sanzionatoria postulava il rispetto del divieto di trattamenti inumani e degradanti imposto dall’art. 3 CEDU, che comporta che la pena detentiva può essere, in astratto e in concreto, ridotta. Tutto questo imponeva che l’ordinamento giuridico italiano doveva prevedere la revisione della condanna a una pena detentiva perpetua, offrendo al condannato, decorso un adeguato periodo di detenzione e in presenza di percorso di revisione critica del suo vissuto criminale, la possibilità di essere liberato.
Infatti, il principio della dignità umana del detenuto riconducibile alla previsione dell’art. 3 CEDU, che rappresenta il fulcro del sistema di protezione dei diritti fondamentali della persona prefigurato dalla Convenzione EDU, non consente di privare le persone della libertà senza assicurare loro la possibilità, a determinate condizioni e dopo un adeguato periodo di valutazione, di potere riacquistare la condizione di individui liberi.
Ne discendeva che, per valutare l’eventuale incompatibilità della pena perpetua con il principio della dignità umana del detenuto stabilito dall’art. 3 CEDU, occorreva verificare se la disciplina dell’ergastolo ostativo prefigurata dall’art. 4-bis Ord. pen. consentisse, in astratto e in concreto, una riduzione del trattamento sanzionatorio irrogato al condannato.
In questa cornice, la Corte EDU rilevava che l’art. 4-bis Ord. pen. non precludeva, in termini assoluti, la possibilità per l’ergastolano di accedere alla liberazione condizionale, atteso che riconosceva una tale facoltà, pur subordinandola alla collaborazione con la giustizia.
Tuttavia, la possibilità per il soggetto condannato all’ergastolo di accedere alla liberazione condizionale era condizionata negativamente dalle modalità con cui, secondo quanto previsto dall’art. 4-bis Ord. pen., la scelta di collaborare con la giustizia del detenuto si sarebbe dovuta concretizzare.
Si evidenziava, innanzitutto, che, frequentemente, la scelta del detenuto di non collaborare con la giustizia non è tanto causata da una persistente adesione ai valori negativi dell’ambiente mafioso di provenienza, quanto, piuttosto, dalla preoccupazione di non mettere in pericolo la propria vita e quella dei familiari a seguito della collaborazione. Queste condizioni, però, non consentivano di ritenere la scelta del detenuto ergastolano di collaborare o non collaborare con la giustizia libera e volontaria[6].
Non poteva, per altro verso, essere trascurata l’ipotesi di una collaborazione con la giustizia determinata da finalità esclusivamente opportunistiche, che, all’evidenza, rendono la scelta di collaborare incompatibile con un percorso di rivisitazione critica del vissuto criminale del detenuto, fondato sulla definitiva interruzione dei contatti con l’ambiente mafioso di provenienza dell’ergastolano[7].
La Corte EDU, al contempo, evidenziava che l’equiparazione operata dall’art. 4-bis Ord. pen. tra la mancata collaborazione con la giustizia e la presunzione assoluta di pericolosità del condannato finisca, nella sostanza, finiva per considerare la pericolosità sociale del condannato con riferimento al solo momento della commissione del fatto, senza tenere in alcun conto l’eventuale percorso di rieducazione del reo e gli eventuali progressi compiuti durante l’esecuzione della pena. Tutto questo determinava un’eccessiva limitazione degli spazi di verifica dell’avvenuta collaborazione con la giustizia del condannato, non essendo consentita una valutazione individualizzata del percorso rieducativo compiuto dal detenuto e dei suoi, eventuali, progressi trattamentali[8].
In questo modo, si trascurava di considerare, come evidenziato nell’ordinanza con cui la Corte di cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis Ord. pen.[9], espressamente richiamata dalla Corte EDU, che la personalità del soggetto condannato all’ergastolo non poteva essere valutata con riferimento al solo momento del suo ingresso in carcere, potendosi evolvere in conseguenza del percorso rieducativo intrapreso, portando il detenuto a una rivisitazione critica del suo vissuto criminale, che renderebbe eccessivamente afflittivo un trattamento sanzionatorio perpetuo.
Si evidenziava, in ogni caso, che non era possibile limitare, fino a eliminarlo, il diritto alla dignità dei detenuti riconosciuto dall’art. 3 CEDU, in ossequio agli obiettivi di tutela della collettività perseguiti dal legislatore italiano, che, pur essendo legittimi alla luce della pervasività dei fenomeni criminali mafiosi, non potevano comportare una compressione, non superabile, di prerogative individuali irrinunciabili.
Ne discendeva che la scelta del legislatore italiano di considerare la collaborazione con la giustizia quale unica prova possibile della dissociazione del detenuto rendeva, in concreto, non riducibile la pena dell’ergastolo ostativo, privando il condannato della possibilità di ottenere, a determinate condizioni, la libertà, concretizzando la violazione dell’art. 3 CEDU censurata da Marcello Viola.
3. La piattaforma ermeneutica nazionale su cui interveniva la decisione della Corte EDU nell’affaire “Viola contro Italia”
Occorre, a questo punto, soffermarsi sulla piattaforma ermeneutica su cui si innestava la decisione della Corte EDU nell’affaire “Viola contro Italia”, atteso che tale pronuncia interveniva alcuni mesi dopo l’ordinanza con cui la Corte di cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis Ord. pen. ed era di poco precedente alla sentenza con cui la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dello stesso art. 4-bis.
Non può, del resto, non rilevarsi che la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen. si pone in una linea di continuità con alcuni precedenti interventi della Corte costituzionale, che, in linea con i parametri convenzionali, hanno ridefinito il sistema delle presunzioni collegate all’applicazione della stessa disposizione.
Questa ricostruzione sistematica – necessitata dal percorso argomentativo posto a fondamento della sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019 – postula il riferimento iniziale alla sentenza 9 gennaio 2014, n. 239[10], con cui veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., nella parte «in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge» e nella parte «in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti»[11].
Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, la scelta legislativa di accomunare nel regime detentivo prefigurato dall’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen. fattispecie e misure alternative tra loro eterogenee risultava lesiva dei parametri costituzionali, essendo illogica rispetto all’obiettivo di incentivare la collaborazione processuale quale strategia di contrasto alla criminalità organizzata. Infatti, la subordinazione dell’accesso ai benefici penitenziari a un effettivo ravvedimento del condannato è giustificata solo quando si discuta di misure alternative che mirano alla rieducazione del condannato e non quando «al centro della tutela si collochi un interesse “esterno” ed eterogeneo […]»[12].
Analogo rilievo ermeneutico deve essere attribuito alla sentenza 12 aprile 2017, n. 76[13], con cui la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità della norma dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, Ord. pen., limitatamente all’inciso «salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis,»[14].
Con tale pronuncia, la Corte costituzionale introduceva un ulteriore elemento di censura alle norme previste in materia di benefici penitenziari, con riferimento alla detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies, comma 1-bis, Ord. pen., affermando l’inammissibilità di presunzioni assolute che neghino l’accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare in concreto la pericolosità sociale della condannata e facendo ricorso a indici presuntivi che comportano «il totale sacrificio dell’interesse del minore»[15].
Questo percorso ermeneutico proseguiva con la sentenza 11 luglio 2018, n. 149[16], con cui la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità dell’art. 58-quater, comma 4, Ord. Pen., nella parte «in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato»[17] e nella parte «in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 289-bis del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato»[18].
Si ribadivano, in tal modo, i principi della progressività trattamentale e della flessibilità della pena radicati nell’art. 27, comma terzo, Cost., che garantisce il graduale inserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale, evidenziando che, rispetto a tali scopi, la normativa censurata frustrava gli obiettivi perseguiti dalla liberazione anticipata, che costituisce «un tassello essenziale del vigente ordinamento penitenziario […] e della filosofia della risocializzazione che ne sta alla base […]»[19].
Del resto, tali obiettivi di risocializzazione, che non consentono l’applicazione di presunzioni assolute in materia di benefici penitenziari, erano ulteriormente corroborati dalla giurisprudenza della Corte EDU che, nella decisione della Grande Camera del caso “Vinter e Hutchinson c. Regno Unito”[20], espressamente citata dalla Corte costituzionale, richiamava «la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile […]»[21].
In questa, complessa, cornice ermeneutica, la Corte di cassazione, nell’ordinanza con cui sollevava la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis Ord. pen., a sostegno delle sue argomentazioni, evidenziava che l’assunto secondo cui «la cessazione dei legami consortili di un detenuto con il gruppo criminale di riferimento possa essere dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena, solo attraverso le condotte collaborative di cui all’art. 58-ter Ord. pen. è affermazione che non può assumere valore incontrovertibile e assurgere a canone valutabile in termini di presunzione assoluta, a prescindere dalle emergenze concrete»[22].
Tale assunto ermeneutico, infatti, non sembrava «trovare copertura nella giurisprudenza costituzionale prima richiamata che, come ha bandito dal sistema le presunzioni assolute di pericolosità, così non può avallare la conclusione che la scelta collaborativa costituisca prova legale esclusiva di ravvedimento»[23].
Si evidenziava, al contempo, che la rilevanza, riconosciuta dalla Corte costituzionale nella sentenza 26 marzo 2015, n. 148[24], di «elementi specifici da cui, pur in presenza di comportamenti criminosi riconducibili alla sfera di operatività di un’organizzazione mafiosa, si possa ricavare l’insussistenza di esigenze cautelari ovvero la possibilità che queste possono essere soddisfatte con altre misure, rende non manifestamente infondato il dubbio circa la ragionevolezza dell’equiparazione assoluta tra la mancata collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter Ord. pen. e la condizione di perdurante pericolosità sociale del condannato»[25].
D’altra parte, le ragioni che possono indurre un condannato all’ergastolo ostativo a non effettuare una scelta collaborativa ex art. 58-ter Ord. pen. «non risultano univocamente dimostrative dell’attualità della pericolosità sociale e non necessariamente coincidono con la volontà di rimanere legato al sodalizio mafioso di provenienza»[26].
4. La sentenza della Corte costituzionale 22 ottobre 2019, n. 253 e il richiamo della giurisprudenza sovranazionale consolidatasi con la decisione del caso “Viola contro Italia”
Nel contesto ermeneutico descritto nel paragrafo precedente si inseriva la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019, che, nell’emettere la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., si muoveva nel solco della propria giurisprudenza consolidata e dei principi affermati nella decisione della Corte EDU nel caso “Viola contro Italia”.
Occorre, innanzitutto, evidenziare che la Corte costituzionale – muovendosi nel solco ermeneutico prefigurato dalla Corte EDU nel caso “Viola contro Italia”, che, come detto, riportava in termini adesivi ampi stralci dell’ordinanza di rimessione pronunciata dalla Corte di cassazione il 20 novembre 2018 – ribadiva in termini generali la legittimità del regime delle presunzioni di pericolosità sociale vigente per i benefici penitenziari e dichiarava, limitatamente alla concessione dei premessi premio, la «illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 […], nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti»[27].
Si muoveva nella stessa direzione la declaratoria di incostituzionalità consequenziale, per effetto della quale veniva dichiarata «l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti»[28].
In questa cornice, la Corte costituzionale precisava in quale contesto sistematico doveva inserirsi la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., evidenziando che il «permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento […]», consentendo al detenuto di acquisire «a fini rieducativi, i primi spazi di libertà […]» e svolgendo un’insostituibile «funzione “pedagogico-propulsiva” […]»[29].
Tale peculiare connotazione trattamentale, peraltro, era stata già affermata dalla Corte costituzionale in precedenti interventi, espressamente citati dalla sentenza in esame, in cui si evidenziava che la «giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006)»[30].
La presunzione assoluta affermata dall’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., pertanto, impediva, in evidente contrasto con la previsione dell’art. 27, comma terzo, Cost., la realizzazione di un percorso trattamentale individualizzato del condannato, atteso che «l’inammissibilità in limine della richiesta del permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada»[31].
Senza considerare che le presunzioni assolute di cui la disposizione dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen. è espressione, come evidenziato in un precedente intervento della Corte costituzionale, anch’esso richiamato nella sentenza in esame, soprattutto «quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit […]»[32].
Ne discendeva l’irragionevolezza della presunzione assoluta prevista dall’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen. e il suo contrasto con la funzione rieducativa della pena, così come prefigurata dall’art. 27, comma terzo, Cost., non essendo possibile affermare l’esistenza di un regime presuntivo che «a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto, presupponga l’immutabilità, sia della personalità del condannato, sia del contesto esterno di riferimento»[33].
La Corte costituzionale, al contempo, evidenziava che le peculiarità sistematiche del reato di cui all’art. 416-bis c.p. e delle fattispecie che vi sono collegate imponevano di improntare la valutazione degli elementi idonei a superare la presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata del detenuto a criteri particolarmente rigorosi, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio mafioso, dal quale si esige un allontanamento definitivo e irreversibile.
La necessità di un accertamento rigoroso di tale distacco consortile comporta che «la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi»[34].
L’acquisizione di elementi, concreti e specifici, che attestino il definitivo distacco consortile del condannato risponde alla stessa logica alla quale è ispirata la disposizione dell’art. 4-bis Ord. pen. e deve essere svolta dalla magistratura di sorveglianza in collegamento con tutte le autorità competenti in materia. Tale collegamento istituzionale, secondo la Corte costituzionale, è indispensabile per verificare quale sia stata la condotta assunta dal carcerato durante l’esecuzione della pena e quale sia il contesto criminale esterno in cui il detenuto potrebbe reinserirsi, sia pure temporaneamente, in occasione di un permesso premio, vanificando gli obiettivi di prevenzione, generale e speciale, connessi all’istituto in esame.
Occorre, pertanto, una verifica rigorosa degli elementi, concreti e specifici, acquisiti nei confronti del detenuto, tale da escludere sia la permanenza di collegamenti con gli ambienti della criminalità organizzata da cui proviene, sia il pericolo di un loro ripristino, che devono essere sottoposti a un vaglio analitico da parte della magistratura di sorveglianza. Si tratta, come detto, di un accertamento connaturato alla stessa funzione preventiva dell’art. 4-bis Ord. pen., che mira a impedire che il detenuto possa commettere ulteriori reati, che non può essere vanificata da una valutazione superficiale della posizione del detenuto ergastolano.
In altri termini, in presenza di una richiesta di permesso premio avanzata da un soggetto condannato per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per le fattispecie che vi sono collegate, la magistratura di sorveglianza dovrà decidere «sia sulla base di tali elementi, sia delle specifiche informazioni necessariamente ricevute in materia dalle autorità competenti […]»[35], dovendosi precisare ulteriormente «che – fermo restando l’essenziale rilievo della dettagliata e motivata segnalazione del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore distrettuale […], – se le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongono in senso negativo, incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno […]»[36].
5. La tutela integrata della dignità dei detenuti, i richiami della Corte costituzionale e l’approvazione del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162.
Dopo la sentenza n. 253 del 2019 la Corte costituzionale interveniva altre due volte sulla costituzionalità della disciplina dell’ergastolo ostativo, muovendosi in entrambi i casi nel solco della sentenza della Corte EDU dell’affaire “Viola contro Italia”.
Si consideri che, una prima volta, la Corte costituzionale interveniva con l’ordinanza 15 aprile 2021, n. 97[37], con cui veniva accerta l’illegittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, senza che a tale accertamento conseguisse la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis Ord. pen., sollevata con riferimento alle modalità di accesso alla liberazione condizionale del detenuto.
In quell’occasione, la Corte costituzionale rinviava al 10 maggio 2022 la trattazione nel merito della questione di legittimità, ritenendo che un intervento esclusivamente censorio avrebbe compromesso la tenuta della normativa di contrasto alla criminalità organizzata. Si imponeva, quindi, in un’ottica di collaborazione istituzionale, un rinvio della trattazione della questione di costituzionalità, nell’attesa di un tempestivo intervento del legislatore italiano, che veniva ritenuto improcrastinabile.
Nelle more, veniva varato un progetto di legge[38], finalizzato a riformare la disciplina dell’ergastolo ostativo, che non veniva approvato entro la data del 10 maggio 2022, costringendo la Corte costituzionale a intervenire una seconda volta sulla questione della legittimità costituzionale dell’art. 4-bis Ord. pen.
Veniva, pertanto, adottata l’ordinanza 10 maggio 2022, n. 122, con cui la Corte costituzionale disponeva l’ulteriore rinvio all’8 novembre 2022 della questione di legittimità sottoposta al suo vaglio e motivando il rinvio con lo stato avanzato del percorso parlamentare finalizzato a riformare la disciplina dell’ergastolo ostativo.
Infine, la complessa vicenda della riforma della disciplina dell’ergastolo ostativo giungeva, almeno per il momento, a compimento per effetto dell’approvazione del decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 304.
Questa normativa introduce alcuni significativi elementi di novità nella disciplina dell’ergastolo ostativo, così come prefigurata dall’art. 4-bis Ord. pen., sui quali occorre, sia pure sinteticamente, soffermarsi, muovendo dalle condizioni in presenza delle quali il detenuto non collaborante può godere dei benefici penitenziari, previste dall’art. 1, lett. a), n. 2, del decreto-legge n. 162 del 2022[39].
Occorre, in proposito, precisare che il decreto-legge n. 162 del 2022 opera una distinzione tra i vari illeciti che compongono il catalogo dei reati previsti dall’art. 4-bis Ord. pen.
Il decreto-legge n. 162 del 2022, innanzitutto, disciplina i delitti compresi nel catalogo dei reati riconducibili alla criminalità organizzata, ai quali dedica le previsioni contenute nell’art. 4-bis, commi 1-bis, Ord. pen.
Si dedica, invece, una disciplina separata per i residui delitti, compresi nel catalogo dei reati previsti dall’art. 4-bis Ord. pen. ma non riconducibili alla criminalità organizzata, che sono elencati nel comma 1-bis.1 della stessa disposizione.
Più precisamente, secondo quanto previsto dall’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. pen., per gli autori di reati riconducibili alla criminalità organizzata, la concessione dei benefici penitenziari presuppone che i detenuti «dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile […]».
Nell’ultimo periodo dell’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. pen., infine, si stabilisce: «Al fine della concessione dei benefici, il giudice accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa».
Per i restanti reati, che non sono riconducibili alla criminalità organizzata, secondo quanto previsto dall’art. 4-bis, comma 1-bis.1, Ord. pen., la concessione dei benefici penitenziari postula che i detenuti «dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, con il contesto nel quale il reato è stato commesso, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile […]».
Nell’ultimo periodo dell’art. 4-bis, comma 1-bis.1, Ord. pen., infine, si dispone: «Al fine della concessione dei benefici, il giudice di sorveglianza accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa».
Quanto, invece, agli adempimenti richiesti al tribunale di sorveglianza per decidere sull’istanza presentata dal condannato ergastolano non collaborante, l’art. 1, lett. a), n. 3 del decreto-legge n. 162 del 2022 prescrive l’acquisizione di informazioni presso il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica del luogo di detenzione del condannato e presso la direzione dell’istituto penitenziario in cui è allocato l’istante. Tali informazioni, a loro volta, devono essere correlate agli accertamenti relativi alle condizioni economiche del nucleo familiare del condannato e alle eventuali misure di prevenzione, personali o patrimoniali, disposte nei loro confronti[40].
Accanto a tali acquisizioni informative l’art. 1, lett. a), n. 3 del decreto-legge n. 162 del 2022 prescrive l’acquisizione del parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo di grado; nelle ipotesi di soggetti condannati per reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., invece, il parere deve essere richiesto al procuratore nazionale antimafia e al pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto dove è stata pronunciata la sentenza di primo grado[41].
Deve, infine, evidenziarsi che la disciplina del novellato art. 4-bis Ord. pen. non si applica ai detenuti sottoposti al regime detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis Ord. pen.
Dispone, infatti, l’ultimo periodo dell’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., nella sua nuova formulazione, che: «I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi al detenuto o internato sottoposto a regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41-bis solamente dopo che il provvedimento applicativo di tale regime speciale sia stato revocato o non prorogato».
* Questo saggio riproduce, con alcune modifiche, soprattutto riguardanti le note bibliografiche, una parte del contributo fornito dal sottoscritto al progetto intitolato “L'inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune. Il sindacato della Corte costituzionale”, elaborato dalla Scuola Superiore della Magistratura e coordinato da Guido Alpa, Giacinto Bisogni, Margherita Cassano, Maria Giuliana Civinini, Lorenzo D’Ascia, Piero Gaeta, Alberto Giusti.
[1] Si veda Corte EDU, Sez. I, 13 giugno 2019, Viola c. Italia, n. 77633/16; per un commento su questa pronuncia si rinvia a S. Santini, Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo: dalla Corte di Strasburgo un monito al rispetto della dignità umana, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1 luglio 2019.
[2] Si veda Corte cost., 22 ottobre 2019, n. 253; per un commento su questa pronuncia della Corte costituzionale rinvia a M. Ruotolo, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in www.sistemapenale.it, 12 dicembre 2019.
[3] Si veda Cass. pen., 20 novembre 2018, Cannizzaro, n. 57913, in Cass. C.E.D., n. 274659-01; per un commento su questa pronuncia si rinvia a M.C. Ubiali, Ergastolo ostativo e preclusione all’accesso ai permessi premio: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 28 gennaio 2019.
[4] Si veda Corte EDU, Sez. I, 9 luglio 2013, Vinter e Hutchinson c. Regno Unito, n. 57592/08.
[5] Si veda Corte EDU, G.C., Sez. I, 26 aprile 2016, Murray c. Paesi Bassi, 10511/10.
[6] Si veda Corte EDU, Sez. I, 13 giugno 2019, Viola c. Italia, cit.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Si veda Cass. pen., 20 novembre 2018, Cannizzaro, cit.
[10] Si veda Corte cost., 9 gennaio 2014, n. 239.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Si veda Corte cost., 12 aprile 2017, n. 176.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Si veda Corte cost., 11 luglio 2018, n. 149.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Si veda Corte EDU, Sez. I, 9 luglio 2013, Vinter e Hutchinson c. Regno Unito, cit.
[21] Si veda Corte cost., 11 luglio 2018, n. 149, cit.
[22] Si veda Cass. pen., 20 novembre 2018, Cannizzaro, n. 57913, cit.
[23] Ibidem.
[24] Si veda Corte cost., 26 marzo 2015, n. 48.
[25] Si veda Cass. pen., 20 novembre 2018, Cannizzaro, n. 57913, cit.
[26] Ibidem.
[27] Si veda Corte cost., 22 ottobre 2019, n. 253, cit.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] Si veda Corte cost., 21 dicembre 2016, n. 186.
[33] Si veda Corte cost., 22 ottobre 2019, n. 253, cit.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem.
[37] Per un commento su questa pronuncia della Corte costituzionale si rinvia a E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in www.sistemapenale.it, 25 maggio 2021.
[38] Ai richiami della Corte costituzionale il Parlamento italiano rispondeva con la proposta di legge AS 2574, depositato in Senato l’1 aprile 2022, che costituiva il frutto dell’unificazione di quattro precedenti proposte di legge di iniziativa parlamentare presentate tra il 2019 e il 2021.
[39] Per un commento sulle novità normative introdotte dal decreto-legge n. 162 del 2022 si rinvia a E. Dolcini, L’ergastolo ostativo riformato in articulo mortis, in www.sistemapenale.it, 7 novembre 2022.
[40] Ibidem.
[41] Ibidem.