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Magistratura Indipendente

CIVILE  

IL DIRITTO “(ES)TEMPORANEO” DELLE SOCIETÀ

  Civile 
 mercoledì, 20 maggio 2020

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LA CRISI DI IMPRESA AL TEMPO DEL COVID-19

di VINCENZO VITO CHIONNA, Ordinario di Diritto commerciale
Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari “A. Moro”

 
 

Sommario: 1. Premessa. 2. Il diritto “temporaneo” delle società. 3. Il diritto “temporaneo” delle procedure concorsuali. 4. Il diritto “(es)temporaneo” dell’impresa nel tempo del COVID-19.

1. Premessa.
1.1. L’improvvisa emergenza sanitaria scoppiata in Italia a fine febbraio 2020 ha prospettato rapidamente, tra tanto altro, una altrettanto improvvisa e grave emergenza economica in ragione delle necessarie e rigorose misure di c.d. “distanziamento sociale” che per gran parte delle attività produttive hanno segnato in concreto l’immediata interruzione.
In una “alluvione normativa” ancora in corso, dal ritmo ben più incessante di quello che determinò Gustavo Minervini a coniare l’espressione all’inizio degli anni novanta [1] per il profluvio di norme (primarie e secondarie) in quel periodo dedicate al mercato finanziario, si segnala soprattutto il d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. “decreto liquidità”; d’ora innanzi d.l. 23/2020) che dall’art. 4 all’art. 14 introduce una serie di “misure urgenti per garantire la continuità delle imprese colpite dall’emergenza Covid-19”.
A dispetto di questa rubrica del Capo II in parte impropria perché lascerebbe intendere una limitazione soggettiva della sfera di estensione delle norme che, come vedremo, in realtà non esiste, si tratta di una disciplina temporanea e dell’emergenza, orientata a offrire immediato sostegno a tutte le imprese in un momento in cui sono improvvisamente cambiati gli scenari economici di riferimento rispetto ai quali ciascuna di esse fino ad allora aveva potuto organizzare i mezzi della produzione per il proficuo svolgimento delle loro attività produttive, con l’aspettativa di generare valore e benessere.
Più precisamente, riprendendo un metodo già sperimentato tra il 2007 e il 2015 [2] con le plurime novelle della legge fallimentare (quando il legislatore, in piena crisi economica, incentivò il ricorso alle soluzioni negoziate della crisi introducendo regole societarie e concorsuali di eccezionale favore per l’utile esperimento di tali procedure [3]), si è tornati ad utilizzare la leva giuridica – del diritto societario e del diritto concorsuale – per cercare di governare una crisi economica, allentando temporaneamente vincoli normativi nati nel diritto comune a tutela soprattutto dei terzi e, così, auspicando di rendere meno difficile per l’imprenditore resistere nella sua continuità aziendale, la cui interruzione – anche per i terzi – sarebbe stata ancor più irrimediabilmente pregiudizievole.

1.2. La temporaneità delle modifiche agli istituti giuridici ha però oggi una caratterizzazione diversa rispetto alla richiamata legislazione del 2008-2015. Mentre in quel caso, infatti, una parte delle regole incentivanti vennero via via meno con nuovi atti normativi adottati dal 2015 in poi quando la crisi economica cominciò ad attenuarsi senza più dare giustificazione alla compressione delle tutele dei terzi [4], oggi invece è la stessa norma di legge che introduce le regole incentivanti a fissarne ab origine, caso per caso, un tempo di efficacia molto limitato che, di regole, non si spinge oltre il 31 dicembre 2020 [5].
In questa prospettiva, a prioritario sostegno e tutela della continuità aziendale dell’impresa (che l’art. 7 d.l. 23/2020, come vedremo, arriva addirittura a presumere), il d.l. 23/2020 ha previsto una sorta di moratoria per l’applicazione di una serie di regole societarie e concorsuali secondo due principali direttici di intervento: l’una tesa a favorire la riorganizzazione e l’incentivazione di diverse forme di finanziamento dell’attività di impresa (artt. 6-8 per il diritto societario), l’altra tesa a permettere una rimodulazione delle procedure di soluzione negoziata della crisi dell’impresa (art. 9-10 per il diritto concorsuale).
Si tratta, insomma, come si vedrà, di un complesso di norme che, con le altre del Capo II del d.l. 23/2020, descrive una sorta di “diritto temporaneo” dell’impresa nel tempo dell’epidemia COVID-19 teso, in fin dei conti, a dare più tempo che denaro agli imprenditori per affrontare la crisi economica e nel quale la bilancia delle tutele di interessi confliggenti tende a pendere – eccezionalmente e temporaneamente, rispetto a fattispecie riconducibili a relazioni economiche più “business to business” che “business to consumer” – più a favore dell’imprenditore che dei terzi creditori.

1.3. Anche per iniziare a capire che impresa concorrerà a consegnarci la cessazione di efficacia di queste norme di legge, la questione di fondo – alla quale queste brevi note cercherà di proporre risposta attraverso una prima ricognizione delle nuove regole “a termine” – resta, pertanto, quella della reale efficacia ed adeguatezza della leva giuridica approntata dal d.l. 23/2020, anche di fronte alle compressioni imposte alle tutele dei terzi; insomma, per cercare di capire se, in fin dei conti, il Capo II del d.l. 23/2020 concorra a descrivere, non solo un regime normativo “temporaneo” ma, in fondo, un intervento “estemporaneo” in chiave giuridica, dal grado di effettiva utilità ed efficacia, in realtà, solo parziale.

2. Il diritto “temporaneo” delle società.
2.1. Le misure urgenti riconducibili al diritto societario sono quelle disposte dagli artt. 6-8 d.l. 23/2020 e consistono, in buona sostanza, in tre generi di interventi:
a) nella temporanea disapplicazione fino al 31 dicembre 2020 di alcune regole attinenti all’obbligo di intervento sul capitale sociale di s.p.a., s.a.p.a. e s.r.l. in caso di perdite qualificate (art. 6);
b) nella temporanea disapplicazione, sempre fino al 31 dicembre 2020, dell’obbligo di postergazione dei finanziamenti eseguiti dai soci, dal 9 aprile 2020 in poi, pur in un momento di squilibrio patrimoniale della s.r.l. (art. 8);
c) nella temporanea deroga al principio contabile della continuazione dell'attività (c.d. going concern) nella “redazione del bilancio d’esercizio in corso al 31 dicembre 2020” (art. 7).
Le tre disposizioni hanno in comune un ambito soggettivo di estensione generale, identico a quello già proprio delle disposizioni del codice civile di cui viene sancita la temporanea disapplicazione o deroga.
A dispetto dell’improprietà del tenore letterale della rubrica del Capo II (“misure urgenti per garantire la continuità delle imprese colpite dall’emergenza Covid-19”), infatti, sotto questo aspetto, il chiarissimo tenore letterale di ciascuna disposizione rende pacifico che le norme trovino applicazione indipendentemente dal fatto che gli imprenditori siano o meno direttamente attinti da vicende COVID-19 ovvero, su altro piano, indipendentemente dal fatto siano o meno già in uno stato di crisi.
Si tratta, quindi, come passiamo rapidamente a registrare per ciascuno dei tre casi, di misure che – con una costante compressione di tradizionali tutele dei terzi a favore della protezione dell’interesse alla continuità aziendale delle società di capitali – vanno a ridisegnare gli ordinari equilibri di tutela tradizionalmente propri del diritto comune.

2.2. L’art. 6 d.l. n. 23/2020 riproduce, a prima vista pressoché integralmente, il testo dell’art. 182-sexies l.f., introdotto nella legge fallimentare nel 2012 sull’onda di quella legislazione di sostegno e incentivazione delle soluzioni negoziate della crisi cui si faceva cenno in apertura.
Per le “fattispecie verificatesi entro gli esercizi chiusi” tra il 9 aprile 2020 e il 31 dicembre 2020, l’art. 6 d.l. 23/2020:
a) sospende fino al 31 dicembre 2020 gli obblighi di riduzione del capitale sociale previsti per le società di capitali in caso di perdite qualificate;
b) non sospende, sempre in caso di perdite qualificate, gli obblighi di rilevamento, informazione e convocazione “senza indugio” dell’assemblea dei soci “per gli opportuni provvedimenti” (gli artt. 2446, primo comma, e 2482-bis dal primo al terzo comma c.c. non sono richiamati dall’art. 6 d.l. 23/2020);
c) sospende, infine, l’operatività della causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, primo comma, n. 4 c.c. e, per le cooperative, dall’art. 2545 c.c. (riduzione o perdita del capitale sociale).
Ai fini della valutazione di fondo che anima le presenti brevi note, vale occuparsi delle sole tre novità rispetto al testo dell’art. 182-sexies l.f. riscritto (quasi) integralmente nell’art. 6 d.l. 23/2020 tanto che, per la soluzione dei suoi singoli problemi applicativi, resta prezioso serbatoio il diritto giurisprudenziale formatosi in questi anni attorno alla disposizione della legge fallimentare.
In prima battuta, l’espressione “fattispecie verificatesi entro gli esercizi chiusi” vale a segnare in termini di ben significativa ampiezza l’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 6 d.l. 23/2020 considerando qualificanti  da un canto, quale “fattispecie”, qualsiasi perdita “qualificata” rilevante ai sensi degli artt. 2446, 2447, 2482-bis e 2482-ter c.c. (e che ogni amministratore e sindaco continua sempre ad avere l’obbligo di accertare costantemente durante l’esercizio) e dall’altro la manifestazione temporale di detta perdita qualificata rispetto a tutti i possibili generi di “esercizi” societari – e, così, non solo quello coincidente con l’anno solare (cioè chiuso al 31 dicembre 2020) – che vivano un periodo temporale, ancorché minimo, che cada tra il 9 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2020 (cioè tutti gli esercizi chiusi anche prima del 31 dicembre 2020 ma dopo il 9 aprile 2020); e tutto ciò indipendentemente dai termini di approvazione dei bilanci di esercizio che restano del tutto irrilevanti ai fini dell’applicazione dell’art. 6 d.l.23/2020.
Vale osservare che, naturalmente, ad un ambito di applicazione più ampio dell’art. 6 d.l. 23/2020 corrisponde una più estesa compressione delle tutele dei terzi.
Ferme, infatti, le responsabilità di amministratori e sindaci per eventuali ritardi di rilevamento e intervento, sollevare i soci dal dover intervenire per eliminare le perdite significa essenzialmente dare alle proprietà di tutte le imprese tempo di reperire mezzi finanziari senza che, però, fino al 31 dicembre 2020, i terzi possano in alcun modo contare sulla funzione di garanzia di un capitale sociale integro, così sensibilmente affievolita, come invece da sempre prevede tipicamente il regime di responsabilità per le obbligazioni sociali delle imprese societarie di capitali; e non è poi da escludere, tra l’altro, che, in questo periodo, i terzi chiedano di andare a negoziare (o rinegoziare) condizioni di fornitura e garanzie diverse, maggiori e più costose.
Ai nostri fini, di certo, sono ancor più interessanti le due differenze – formali e sostanziali – tra l’art. 6 d.l. 23/2020 e l’art. 182-sexies l.f. e cioè (a) i termini della temporanea disapplicazione delle norme societarie sulla ricostituzione del capitale sociale e (b) le condizioni, per così dire, “di uscita” da tale disapplicazione.
Nel caso dell’art. 182-sexies l.f. per un verso la sospensione ha il suo dies a quo nel giorno del deposito della domanda di concordato preventivo (anche nella forma del concordato in bianco) oltre che della domanda per l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis e, pur nel silenzio della norma, il suo dies ad quem nel provvedimento di omologazione; per altro verso, sul piano della ratio, è pacifico che la misura temporaneamente agevolativa abbia la funzione di allentare sull’imprenditore la pressione finanziaria (non anche economica) durante la procedura concorsuale, per poter predisporre con minore difficoltà un piano di soluzione della crisi che, subito dopo l’omologazione, nella sua fase esecutiva, preveda comunque – per effetto dell’esdebitazione concordataria o di una vera e propria ricapitalizzazione – la ricostituzione del capitale sociale minimo [6].
Insomma, nell’art. 186-sexies l.f. la temporanea compressione di tutela del terzo creditore si spiega e si giustifica essenzialmente perché è prevista ad intimo servizio di una continuità aziendale “concorsuale” e non più generica: cioè di una continuità che dall’imprenditore deve riorganizzare attraverso la procedura di crisi sotto il controllo giudiziario, col rigido vincolo di costante equilibrio economico per evitare pregiudizio ai creditori (p.e. art. 182-bis, ultimo comma, l.f.) e con una profonda modifica di prospettiva perché, dal deposito del ricorso, la continuazione dell’attività di impresa viene funzionalizzata in via prioritaria alla soddisfazione dei creditori concorsuali – maggiormente tutelati – e non più alla creazione di valore nell’interesse prioritario dell’imprenditore.
Pertanto, appare chiaro come il temporaneo affievolimento della funzione di garanzia per i terzi del capitale sociale prevista dall’art. 182-sexies l.f. concorre a garantire al terzo – al termine del periodo di sterilizzazione degli obblighi ricostitutivi del capitale sociale, che coincide con l’intero svolgimento della procedura di soluzione negoziata della crisi – la certezza di un piano industriale e finanziario attraverso il quale, anche attraverso la continuità aziendale, il suo debitore deve offrirgli la migliore soddisfazione possibile del credito.
L’art. 6 d.l. 23/2020 – pur facendo proprio il testo dell’art. 186-sexies l.f. – pare invece del tutto lontano da questa dinamica tanto che l’analoga compressione delle tutele del terzo creditore pare giustificarsi meno agevolmente.
Il periodo di riferimento – che vede esattamente determinati dies a quo (9 aprile 2020) e dies ad quem (31 dicembre 2020) – è del tutto slegato non solo da una procedura giudiziale di risanamento aziendale ma, ancor più radicalmente, dalla stessa situazione di crisi attuale della società, in realtà solo potenziale per alcuni, più che verosimilmente a materializzarsi da marzo 2020 in poi per l’emergenza sanitaria COVID-19 [7]: insomma, non è in alcun modo legato a quella stessa continuità aziendale “concorsuale” alla base dell’art. 182-sexies l.f. e alle sue plurime regole.
In questo caso, la ricostituzione del capitale sociale – di certo non necessariamente strumentale alla redazione di un piano giudiziale di risanamento e non accompagnata, p.e., da “ombrelli protettivi” di alcun genere (v., p.e., divieto inizio o prosecuzione procedure esecutive e cautelari individuali ex art. art. 168 l.f.; sull’inammissibilità della domanda di fallimento ex art. 10 d.l. 23/2020 v. infra § 3) – il 1° gennaio 2021 tornerà ad essere improvvisamente un obbligo per una società che ne ha potuto godere non tanto per pensare come dover pagare meglio i suoi creditori (o come mantenere la fiducia, con la costante integrità del capitale sociale, di quelli divenuti tali dopo il marzo 2020) ma soprattutto per vedersi temporaneamente sollevato dall’obbligo di finanziamento dell’impresa con mezzi propri e, così, permettere una continuità aziendale apparentemente ordinaria ma, ormai, solo “presunta” e dalle evoluzioni del tutto incerte.
Proprio il favore normativo per una mera presunzione di ordinaria continuità aziendale – come a breve vedremo, forse ridotta a “fictio juris” dall’art. 7 d.l. 23/2020 – ha già portato parte dei primi commentatori [8] a registrare la sostanziale inadeguatezza della sospensione della sola causa di scioglimento riferita al capitale sociale (art. 2484, primo comma, n. 4 c.c.) non accompagnata dall’analoga sospensione dell’operatività dell’altra causa di scioglimento che si assume toccata dall’art. 7 d.l. 23/2020, quella della sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale (art. 2484, primo comma, n. 2 c.c.), determinata dalla perdita del c.d. “going concern” a causa dal COVID-19; cioè, appunto, della ordinaria continuità aziendale.

2.3. L’art. 7 d.l. 23/2020, infatti, pare effettivamente descrivere tale singolare fictio juris quando, per sostenere in questo periodo di crisi i valori patrimoniali e i piani di gestione, per la redazione del “bilancio d’esercizio in corso al 31 dicembre 2020” delle società che non adottano i principi contabili internazionali, consente una deroga temporanea ed eccezionale al principio della prospettiva della continuazione dell'attività (c.d. going concern) fissato dall’art. 2423-bis, primo comma, n. 1), c.c.
Più esattamente, con quella che la dottrina ha giustamente bollato come una sorta di “disattivazione di fatto” del concetto di continuità aziendale (“divenuto finalmente centrale, nel diritto della crisi, grazie all'interpolazione dell'art. 2086 c.c., già in vigore, ed a proposito del quale il Legislatore “di guerra” sembra aver rinunziato a priori a qualsiasi tentativo di adattamento interpretativo alla situazione eccezionale prospettatasi” [9]), la disposizione consente eccezionalmente di continuare comunque ad adottare in questi bilanci – per la cui approvazione resta ferma la possibilità di proroga del termine ex art. 106, d.l. 17 marzo 2020 n. 18 – quale criterio valutativo delle poste di bilancio quello della continuità aziendale ex art. 2423-bis comma 1, n. 1 c.c. alla sola condizione che tale continuità aziendale risulti sussistente nell’ultimo bilancio di esercizio “chiuso” in data anteriore al 23 febbraio 2020; fermo l’obbligo di informativa espressa e specifica nella “nota informativa anche mediante il richiamo alle risultanze del bilancio precedente”.
L’art. 7, secondo comma, d.l. 23/2020 descrive poi una significativa ampiezza applicativa della norma eccezionale disponendo la sua applicabilità anche “ai bilanci chiusi entro il 23 febbraio 2020 e non ancora approvati”.
La dottrina ha iniziato ad affrontare singoli problemi applicativi della disposizione, apprezzandone in ogni caso l’opportunità perché “si concede di sospendere ogni valutazione (…) operando una valutazione prospettica della continuità aziendale sulla base del dato storico riveniente dal bilancio dell’esercizio precedente; in altre parole si consente alle imprese che prima della crisi presentavano una regolare prospettiva di continuità di conservare tale aspettativa sterilizzando il periodo di emersione degli effetti delle misure di contrasto della pandemia, nella redazione dei bilanci degli esercizi in corso nel 2020” [10].
La relazione illustrativa al d.l. 23/2020 riferisce, poi, che “la previsione deriva dagli effetti dirompenti ed abnormi dell’epidemia di COVID-19, ed in particolare delle ricadute, profonde ma temporanee, che essa può determinare sulle prospettive di continuità” tanto che “si rende, quindi, necessario neutralizzare gli effetti derivanti dall’attuale crisi economica conservando ai bilanci una concreta e corretta valenza informativa anche nel confronto dei terzi, consentendo alle imprese che prima presentavano una regolare prospettiva di continuità di conservare tale prospettiva nella redazione dei bilanci degli esercizi in corso nel 2020” .
In buona sostanza, i ragionevoli dubbi sulle prospettive di continuità aziendale vengono sterilizzati per un esercizio di bilancio per le sole imprese che, con un dato storico di reale continuità aziendale, non erano già in crisi prima dell’emergenza COVID-19; e, di conseguenza, a cascata, vengono temporaneamente disapplicate tutte quelle norme a tutela dei terzi che l’ordinamento fa scattare quando i conti annuali denotano, anche in prospettiva prudenziale, il venir meno della continuità aziendale.
Pertanto, in questo caso, in prima approssimazione può dirsi che il temporaneo affievolimento delle tutele dei terzi diventa conseguenza solo indiretta della norma introdotta dall’art. 7 d.l. 23/2020.
Restano ferme, per altro verso, le corrette valutazioni – con i conseguenti rischi per i terzi – dell’impatto pratico di una disposizione intervenuta quando il termine di approvazione dei bilanci 2019, di regola, non era ancora scaduto: “Risulta (…) evidente che altrettanto difficilmente i c.d.a. delle società italiane avranno approvato i progetti di bilancio relativi all'esercizio 2019, prima del 23 febbraio 2020; nel qual caso dovrà farsi riferimento ai bilanci del 2018; e la Legge non individua d'altro canto modalità per considerare attendibili le effettive datazioni dei bilanci approvati successivamente; non pare però potersi dubitare che il Legislatore abbia accettato di “fidarsi” di documenti comunque datati prima di tale spartiacque, a prescindere dalla “certezza” del riferimento temporale. Nel Paese di Pulcinella, dunque, l'invito a precostituirsi disinvoltamente le condizioni per l'applicazione delle norme “di favore” mi pare palpabile; con l'analogo risultato di concedere una esenzione dall'applicazione di norme poste a tutela dei terzi per qualsiasi impresa, a prescindere dal fatto che essa sia stata realmente interessata dalle conseguenze della crisi CoVid, e dalle dimensioni concrete di tale influsso” [11].

2.4. Esaurisce le misure di diritto societario introdotte dal d.l. 23/2020 la temporanea disapplicazione degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. “ai finanziamenti effettuati a favore della società” dal 9 aprile 2020 al 31 dicembre 2020 disposta dall’art. 8.
Si tratta, in buona sostanza, di un incentivo al finanziamento dell’impresa con mezzi propri che – senza essere in contraddizione con la sospensione dell’obbligo di ricapitalizzazione ex art. 6 d.l. 23/2020 che cristallizza una logica di finanziamento del tutto difesa (in quel caso di tratterebbe di versamenti obbligatori imputati in conto capitale e non invece facoltativi in conto credito) – per i finanziamenti eseguiti dai soci di società di capitali nel periodo in questione, prevede la disapplicazione dell’obbligo di postergazione nella restituzione dopo l’avvenuta soddisfazione degli altri creditori della società. Insomma, in via eccezionale, il socio potrà legittimamente vedersi restituito quanto versato a titolo di finanziamento – pur eseguito in una situazione di “eccessivo squilibrio dell'indebitamento” o di “situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento” – senza aspettare di dover prima pagare gli altri terzi creditori.
In questo caso, la compressione delle tutele dei terzi creditori è evidente sotto diversi aspetti, quanto meno da un canto per l’ampiezza applicativa della regola della postergazione ex art. 2467 c.c. come maturata in circa quindi anni di diritto giurisprudenziale e dall’altro per il fatto che all’incentivo al finanziamento della società mediante mezzi propri si accompagnano forti incentivi al finanziamento con mezzi di terzi (soprattutto mediante capitale di credito garantito dallo Stato come prevede, tra l’altro, l’art. 1 d.l. 23/2020) dalle ricadute giuridiche forse non del tutto leggere.
Sul primo versante vale ricordare che, dal 2003 in poi, dottrina e giurisprudenza hanno via via assecondato interpretazioni spesso estensive della lettera dell’art. 2467 c.c così tendendo a dilatare in concreto l’applicabilità dell’obbligo di postergazione espressamente a potenziamento della tutela dell’interesse del terzo creditore a non subire pregiudizio dai tentativi di aggiramento della norma da parte del socio: oggi, invece, pare lecito dedurre che la temporanea sospensione di efficacia dell’art. 2467 c.c. finisca col privare il terzo di quelle tutele dall'intensità così acquisita nel tempo.
Vale ricordare solo in brevissima rassegna taluno di questi profili del diritto giurisprudenziale per cogliere meglio la misura della compressione delle tutele dei terzi creditori prodotta dall’art. 8 d.l. 23/2020 e così registrare:
a) quanto alla sfera soggettiva di estensione, un ambito di applicazione della disposizione pacificamente esteso a tutte le società di capitali e non solo alla s.r.l. per la quale, a stretto rigore, è formalmente prevista [12];
b) quanto all'espressione "finanziamento", che "nella nozione di «finanziamento», deve ritenersi rientrino non solo i contratti che prevedono il trasferimento o la messa a disposizione della società di una somma di denaro con obbligo di rimborso, ma anche i negozi giuridici nei quali sia individuabile una prevalente finalità creditizia e, in particolare, anche il credito derivante da dilazione di pagamento del prezzo relativo a forniture di merci alla società o da altri rapporti «commerciali»" [13] (in coerenza con questa interpretazione estensiva, tra gli altri, sono stati considerati "finanziamenti" ai sensi dell'art. 2467 c.c. il pagamento da parte di un socio - p.e. per delegazione - di un debito della società [14], le prestazioni di garanzie reali o personali dei soci [15], le forniture di beni e servizi qualora si accerti, sotto il profilo finanziario, che abbiano assolto alla stessa funzione della dazione in danaro [16]);
c) quanto al presupposto della crisi al momento del finanziamento, “il giudice del merito deve verificare se la situazione di crisi (…) sussista, oltre che al momento della concessione del finanziamento, anche a quello della decisione” [17] senza che l'art. 2467 c.c. trovi “solo in caso di crisi o insolvenza sopravvenuta della società, ma anche in situazioni equiparabili, quali l'insufficienza di risorse economiche per soddisfare le obbligazioni assunte per l'avvio dell'attività imprenditoriale” [18];
d) quanto, infine, alla qualità di socio per la durata del rapporto di finanziamento, che l'uscita dalla compagine sociale del socio finanziatore non esclude la postergazione del rimborso delle somme da questo erogate alla società  [19].
Pertanto, sospendere l’applicazione dell’art. 2467 c.c. significa, in sostanza, sospendere le relative tutele del terzo creditore con l’ampia concreta estensione maturata nell’interpretazione giurisprudenziale per rendere effettiva “la chiara finalità antielusiva della formula (…) che lasci prevalere la sostanza sulla forma” [20].
Per altro verso, come accennato, non è da escludere che sensibili analoghe compressioni delle tutele degli interessi dei terzi possano nascere indirettamente anche dall’altro versante dell’incentivo al finanziamento delle società, quello al finanziamento con mezzi di terzi mediante capitale di credito garantito dallo Stato come prevede, tra l’altro, l’art. 1 d.l. 23/2020.
Si pensi, p.e., alle conseguenze negative per tutti gli altri terzi creditori – in termini di compressione del loro credito chirografo – di possibili prededuzioni dei crediti (p.e. anche solo in base all’art. 182-quater, secondo comma, l.f.) nell’ambito di verosimilmente diffuse procedure di crisi successive al 31 dicembre 2020 delle società in difficoltà oppure, in concreto, alla legittima ritrosia delle società ad approfittarne perché veicolati dalle banche (le prime ad avere interesse al rientro di vecchi crediti) oppure perché consapevoli che – dovendo avere a che fare con un mercato che per un certo tempo prospetta ricavi ben minori – non si tratta di finanziamenti per investimenti tesi alla crescita economica dell’attività bensì di finanziamenti utili solo per fare momentaneamente fronte all’attuale carenza di liquidità e, quindi, alle scadenze del 2020 ma che comportano nuovi impegni di debito, solo spostati al 2021 ed oltre.
Non a caso, come riferisce autorevole stampa quotidiana, “da un’indagine della Cgia emerge che sinora i mini prestiti fino a 25 mila euro introdotti dal «decreto liquidità» si sono rivelati un flop con soltanto l’1% di richieste”  [21].
Diventa quindi ragionevole dedurre che con queste disposizioni di incentivo al finanziamento (sia con mezzi propri, sia con capitale di credito di terzi) introdotte dagli artt. 8 e 1 del d.l. 23/2020, ancora una volta, il legislatore pare offrire alle società di capitali tempo (con l’occasione di migliori condizioni di finanziamento dell’attività, seppur proceduralmente non sempre semplici, anche con il creditore bancario che le deve intermediare [22]) e non denaro (p.e., contributi a fondo perduto o affrancamento dal debito fiscale) per sostenere la sua continuità aziendale nel periodo di crisi economica: e ciò sempre con sensibili compressioni delle tutele degli interessi dei terzi creditori.

3. Il diritto “temporaneo” delle procedure concorsuali.
3.1. Ancora più evidente è la compressione delle tutele dei creditori dell’imprenditore quando divenuti “concorsuali” in ragione della pendenza di una delle procedure giudiziarie di soluzione della crisi.
Pare preliminarmente emblematico sotto questo aspetto il rinvio al 1° settembre 2021 dell’entrata in vigore del Codice della crisi (già adottato con d. lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 che sarebbe dovuto entrare in vigore nell’agosto 2020) , disposto dall’art. 5 d.l. 23/2020, e, così, dell’entrata in vigore di “una riforma – qual è il Codice della crisi – creditor oriented, che completi il processo avviato con quella che in tanti hanno chiamato la “controriforma” del 2015” [23].
Ciò è stato letto ora come una occasione utile per perfezionare ulteriormente un testo normativo mai entrato in vigore seppur in Gazzetta Ufficiale dal gennaio 2019 (che, forse, si perfeziona a convenienza nel tempo con l’esegesi della dottrina e, soprattutto, del diritto giurisprudenziale più che con continui decreti “correttivi” che rischiano di far perdere la linearità di un intervento sistematicamente coerente [24]); ora come una sorta di misura di protezione per non “bruciare” la riforma di fronte al paventato congestionamento giudiziario verosimilmente dovuto alla crisi economica da COVID-19; ora come un modo per temperare – in questa prospettiva di grave crisi economica – le responsabilità degli esponenti di governance chiamati a vigilare e intervenire con maggiore attenzione in ragione dei nuovi obblighi dovuti alla c.d. “allerta”.
A parte tutto questo, resta in ogni caso ragionevole pensare che si sia trattato di una scelta tesa ad evitare di far entrare in vigore una normativa che, sul piano  dei profili di garanzia, facesse pendere la bilancia più verso le tutele dei creditori che dell’imprenditore in crisi; e cioè il Codice della crisi e dell’insolvenza non fosse del tutto coerente e in armonia con la filosofia dell’intervento di emergenza – come piano piano sta emergendo da queste brevi riflessioni – della legislazione temporanea che stiamo vivendo per la emergenza COVID-19.

3.2. In questa particolare prospettiva – sulla quale, come vedremo, intervengono pesantemente gli artt. 9 e 10 d.l. 23/2020 – in via preliminare occorre fondamentalmente tenere presente che il tempo di soddisfazione del creditore (con la misura e le modalità) costituisce una delle scriminanti decisive della effettività di tutela nella soddisfazione concorsuale.
Vale solo ricordare, p.e., tra tanto altro, l’obbligatoria e decisiva valutazione comparativa dei tempi di soddisfazione (anche per l’attestabilità del piano) delle proposte concordatarie rispetto alla soddisfazione propria dell’alternativa fallimentare [25]; oppure, per altro verso, la ormai troppo trascurata disposizione dell’art. 181, ultima parte, l.f. che pur imporrebbe – proprio a tutela dei creditori concordatari – l’intervento dell’omologazione “nel termine di nove mesi dalla presentazione del ricorso” introduttivo salvo unica proroga di “sessanta giorni” ma che, in concreto, tende ormai ad essere dimenticata (v., p.e., le proroghe concesse, spesso discutibilmente, per gli adempimenti dei commissari giudiziali o dei loro consulenti valutatori) contando solo sull’idea ormai prevalente – peraltro, non decisiva sul piano risarcitorio – della natura dilatoria (e non perentoria) del termine; oppure ancora alla compressione di durata, nel fallimento, di ogni procedimento legato all’accertamento del passivo o alla liquidazione dell’attivo.
Insomma, il tempo celere e più possibile compresso della procedura e della soddisfazione concorsuale è da sempre considerato dal nostro diritto positivo una delle principali e decisive forme di tutela del creditore concorsuale.
Ebbene, proprio (e solo) sul tempo delle procedure concorsuali – ma allungandolo sistematicamente in ogni fase delle diverse procedure – intervengono gli artt. 9 e 10 del d.l. 23/2020 per offrire scadenze meno stringenti a tutti gli imprenditori chiamati ad affrontare la procedura di crisi d’impresa nel periodo dell’emergenza COVID-19, senza che i creditori possano avere alcuno spazio di tutela di fronte a tale dilatazione dei tempi alla quale può ricorrere il debitore in procedura.

3.3. Più esattamente, passando in veloce rassegna – nei ristretti limiti di quanto necessario ai fini della presente riflessione – le disposizioni ormai già oggetto di attenta e ricca esegesi critica cui si rinvia [26], per i concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione annotiamo:
a) per le procedure già omologate, la proroga ex lege di sei mesi dei termini di adempimento aventi scadenza tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021 (art. 9, primo comma, d.l. 23/2020);
b) per i procedimenti di omologazione (con voto concordatario favorevole già acquisito) pendenti al 23 febbraio 2020, la possibilità per il debitore di presentare, sino all’udienza fissata per l’omologa, istanza per la fissazione di un nuovo termine - non superiore a 90 giorni, non prorogabile, a decorrere dal provvedimento che lo concede – per la presentazione di un nuovo piano e di una nuova proposta concordataria ovvero di un nuovo accordo di ristrutturazione (art. 9, secondo comma, d.l. 23/2020) non necessariamente migliorativo per la soddisfazione dei creditori concorsuali;
c) per i medesimi procedimenti di omologazione (con voto concordatario favorevole già acquisito) pendenti al 23 febbraio 2020, la possibilità per il debitore di presentare, sino all’udienza fissata per l’omologa, una documentata “memoria contenente l’indicazione dei nuovi termini” di adempimento del concordato o dell’accordo di ristrutturazione, non superiore a “sei mesi rispetto alle scadenze originarie”, con la conseguenza che, in caso di omologa, senza possibilità per i creditori di poter eccepire nulla in merito, il Tribunale potrà recepire tali nuovi termini differiti di adempimento (art. 9, terzo comma, d.l. 23/2020);
d) per le procedure che si trovano nel c.d. “periodo finestra” ex art. 161, sesto comma, l.f. a seguito di deposito di c.d. “concordato in bianco”, la possibilità di poter ottenere una speciale e ulteriore proroga “fino a novanta giorni” del termine (“che sia stato già prorogato dal Tribunale” ex art. 161, sesto comma, l.f.) di deposito, sulla base delle documentate esigenze sorte per “fatti sopravvenuti per effetto dell’emergenza epidemiologica Covid-19”; e ciò “anche nel caso in cui è stato depositato ricorso per la dichiarazione di fallimento” (art. 9, quarto comma, d.l. 23/2020);
e) la proroga fino a ulteriori novanta giorni del termine del c.d. automatic stay (cioè la sospensione delle azioni esecutive e cautelari individuali nel periodo delle trattative anteriore all’accodo di ristrutturazione) già ottenuto ex art. 182-bis, settimo comma, l.f. sempre a condizione che la necessità di tale proroga si fondi sulla prova di fatti sopravvenuti per effetto della crisi COVID-19 (art. 9, quinto comma, d.l. 23/2020).
In tutto questo effettivamente si ritrova quel filo rosso innanzi accennato in ipotesi che cuce sul piano delle logiche di garanzia le disposizioni introdotte dagli artt. 9 e 10 d.l 23/2020 e, così, finisce per descrivere con sufficiente chiarezza la filosofia di intervento sulla leva giuridica del diritto concorsuale per governare l’emergenza improvvisa della crisi economica da COVID-19.
Ai creditori concorsuali si prospettano, infatti, misure che vanno sempre nella stessa direzione, quella – del tutto opposta ai canoni tradizionali della loro tutela – della sistematica dilazione dei tempi senza la benché minima possibilità di avere voce in capitolo: dalla proroga ex lege di sei mesi dei termini di adempimento dei concordati già omologati (protratta singolarmente, nel possibile dies a quo, fino al 31 dicembre 2021 e non al 31 dicembre 2020); alla possibilità di vedersi reintrodotta improvvisamente e senza possibilità di esprimersi – dopo una riapertura dei termini di redazione di una nuova proposta (verosimilmente peggiorativa, viste le mutate condizioni economiche del mercato) – una nuova fase di votazione; al concreto rischio di vedersi imporre nella fase dell’omologa nuovi e più lunghi termini di adempimento rispetto alla proposta già approvata (sempre senza poter eccepire nulla in merito, neanche come specifico motivo di opposizione all’omologa); ad una dilatazione preliminare della procedura che può arrivare all’assurdo paradosso di vedere descritta dalla legge una fase preliminare (il c.d. “periodo finestra” ex art. 161, sesto comma, l.f.) dalla durata incredibilmente più lunga dell’intera procedura di concordato preventivo [27].

3.4. Altrettanto evidenti – e del tutto coerenti con le indicazioni fin qui emerse – sono le conseguenze per i creditori derivanti dalle (poche) regole dedicate alla procedura fallimentare dall’art. 10 d.l. 23/2020.
La previsione dell’improcedibilità di tutti i ricorsi per la dichiarazione di fallimento e dello stato di insolvenza depositati tra il 9 marzo e il 30 giugno 2020 [28] salvo quelli depositati dal solo Pubblico Ministero che contengano richieste di provvedimenti cautelari o conservativi ex art 15, ottavo comma, l.f., infatti, se da un canto nella Relazione illustrativa al d.l. 23/2020 viene presentata come una norma deflattiva dell’attività giudiziaria e soprattutto tesa ad evitare una diffusa improvvisa moria di imprese segnate da una ineluttabile liquidazione fallimentare [29], dall’altro resta in piena contraddizione con lo spirito delle più recenti evoluzioni del diritto concorsuale ispirate alla massima solerzia nel far emergere le crisi e ad evitare che la procedura intervenga quando ormai poco o nulla si possa ricostruire in termini di attivo liquidabile o di continuità aziendale.
Impedire a qualsiasi creditore – già stressato nei suoi diritti dai tempi e dalle difficoltà di una procedura esecutiva individuale – di attivare la procedura fallimentare, nella sostanza, significa innanzi tutto privarlo della possibilità di “costringere” ad una decisione il suo debitore: insomma, significa sostanzialmente privarlo della possibilità di chiamare in termini ultimativi l’imprenditore in crisi alla responsabilità delle necessarie determinazioni per evitare la dissoluzione fallimentare dell’impresa. Basti pensare solo per un momento a quanti ricorsi per concordato preventivo ex art. 161, sesto comma, l.f. vengono depositati dall’imprenditore in crisi soltanto quando (troppo tardi) diventa assolutamente indispensabile contrastare una istanza di fallimento del creditore (o del P.M.) rispetto alla quale non si hanno reali e concreti argomenti di difesa nel merito; cioè quando ormai è incontestabile la legittimazione del creditore e lo stato di insolvenza della propria impresa.
Impedirlo, poi, con i creditori, anche al debitore stesso con motivazioni che trascurano ancora una volta del tutto le tutele dei creditori e accomunano indistintamente le crisi di impresa comunque originate (derivino o meno dall’emergenza COVID-19) [30], tra l’altro, significa:
a) allungare i tempi di accesso ad istituti di particolare favore per alcuni ceti creditori quale, p.e., come già osservato da taluno, quello previsto per i “lavoratori (dipendenti della impresa debitrice fallenda) che non hanno percepito le retribuzioni e/o il TFR e che, anche grazie all'apertura del fallimento, possono – dopo l'ammissione al passivo del loro credito – farsi anticipare le somme dal Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto” [31];
b) vedere progressivamente aggravarsi il passivo, con proporzionale diminuzione delle possibilità di soddisfazione innanzi tutto chirografaria, per i nuovi debiti sorti in ragione, p.e., della inutile prosecuzione dell’esecuzione di contratti dai quali non ci si può sciogliere (come invece si potrebbe fare ex art. 72 e ss. l.f.) oppure del prodursi di oneri finanziari per i debiti pecuniari (che, invece, scadrebbero ex art. 55 l.f. il giorno del fallimento);
c) rendere, di fatto, sempre più difficile e improbabile – per la prosecuzione “forzata” dell’attività ma sempre più pregiudizievole per i creditori a causa della progressiva disgregazione del patrimonio aziendale (v., p.e., ciclo incassi/pagamenti negativo e insostenibile nel periodo COVID-19) – la possibilità di ricorrere ad istituti fallimentari (esercizio provvisorio e affitto di rami di azienda) che tendono a sostenere più proficui programmi di liquidazione assecondando vendite in blocco e non meramente atomistiche, con valore di avviamento che solo in questi casi resta un quid pluris dell’attivo fallimentare.

3.5. Ciò che, per altro verso, rende ancor meno comprensibile la scelta di ritardare l’emersione della crisi, congelando temporaneamente il trattamento giudiziario (fino al 30 giugno 2020, salvo proroghe) a scapito delle tutele dei creditori, è infine la previsione di una unica eccezione alla temporanea improcedibilità dell’azione di fallimento, quella esercitata dal solo Pubblico Ministero che contenga richieste di provvedimenti cautelari o conservativi ex art 15, ottavo comma, l.f.
La Relazione illustrativa la giustifica come strumento di prevenzione delle condotte dissipative a rilevanza penale che rischierebbero di essere sostanzialmente permesse dalla generale improcedibilità delle domande di fallimento: “(…) Viene invece contemplata al comma 2 un’unica eccezione alla improcedibilità, limitata ai casi in cui il ricorso sia presentato dal pubblico ministro e contenga la richiesta di emissione dei provvedimenti cautelari o conservativi di cui all’art. 15, comma 8, l. fall. In questi casi, infatti, la radicale improcedibilità verrebbe ad avvantaggiare le imprese che stanno potenzialmente mettendo in atto condotte dissipative di rilevanza anche penale con nocumento dei creditori, compromettendo le esigenze di repressione di condotte caratterizzate da particolare gravità”.
La valutazione del legislatore – con l’intervento normativo che ne è conseguito con l’art. 10 d.l. 23/2020 – appare, forse, ancora una volta riduttiva ed estemporanea se ponderata, per quanto qui possibile, rispetto allo scenario sistematico con cui l’art. 10 d.l. 23/2020 è comunque chiamato a fare i conti sul piano tecnico-giuridico.
In questa prospettiva è di particolare interesse ricordare da un canto che i rimedi cautelari ex art. 15, ottavo comma, l.f. non sono tipicamente strumentali ad impedire condotte dissipative dalla necessaria rilevanza penale e dall’altro che il Pubblico Ministero, pur portatore di un interesse pubblico, nel processo di fallimento (come in ogni altra procedura concorsuale) altro non è che una parte processuale come lo può essere qualsiasi creditore, legittimata ex artt. 69 c.p.c. e 7 l.f. all’iniziativa (o ex art. 70 c.p.c. all’intervento) di una azione pur sempre dai profili di garanzia a rilevanza esclusivamente civile; cioè strumentale all’attivazione di tutele patrimoniali civilistiche nell’interesse dei creditori concorsuali.
Sul primo versante, infatti, per giurisprudenza ormai pacifica – salvo che per i profili processuali del cautelare, ancora di discussa riconducibilità alla disciplina unitaria di diritto comune (in quanto compatibile) ovvero a quella atipica dell’art. 15 l.f. – “l'adozione di provvedimenti cautelari a tutela del patrimonio o dell'impresa di cui all'art. 15, R.D. n. 267/1942 (legge fallimentare) ha la funzione di assicurare la temporanea conservazione del patrimonio dell'impresa in vista del fallimento o del rigetto della relativa istanza (…)” [32] e non certo di prevenire o di interrompere il compimento di condotte di reato oppure di cautelare (tanto meno a fini di confisca) il c.d. “profitto da reato”  o il c.d. “prezzo del reato”: si tratta, insomma, di provvedimenti (anche atipici) previsti appositamente “a tutela del patrimonio o dell'impresa” [33] da mettere quanto prima a disposizione della soddisfazione concorsuale dei creditori e non certo ad altri fini di tutela.
Sul secondo, invece, vale ricordare come ogni disposizione di legge che tassativamente legittima ex art. 69 c.p.c. il Pubblico Ministero all’esercizio dell’azione in sede civile, compreso l’art. 7 l.f., richieda precise condizioni e requisiti di strumentalità dell’iniziativa a fini di tutela meramente civilistica di interessi patrimoniali ancorché pubblici e diffusi (massa dei creditori concorsuali, fisco, ecc.), senza che, in ogni caso, come ancor di recente ribadito dalla giurisprudenza con estrema chiarezza, sia necessaria alcuna notizia di reato e, quindi, alcun motivo di specifica tutela cautelare economico-patrimoniale ad essa legata: “Il Pubblico Ministero è legittimato a richiedere il fallimento, ai sensi dell'art. 7, n. 1, l.fall., non solo qualora apprenda la "notitia decoctionis" da un procedimento penale pendente, ma anche ogni qualvolta la decozione emerga dalle condotte specificamente indicate nella norma sopra indicata, le quali non sono necessariamente esemplificative di fatti costituenti reato e non presuppongono come indefettibile la pendenza di un procedimento penale” [34].
Se tutto questo è vero – e cioè se è vero che la tutela cautelare dell’art. 15, ottavo comma, l.f. può anche prescindere del tutto dalla stessa esistenza di un reato e costituire lo strumento di tutela dell’unico interesse patrimoniale protetto (la migliore soddisfazione possibile del creditore concorsuale), indipendentemente da chi l’ha attivata – diventa veramente difficile comprendere la scelta di vedere limitata la procedibilità dell’azione di fallimento connessa a tale tutela cautelare al solo Pubblico Ministero e non anche a chi, il creditore, forse può conoscere anche meglio di lui la necessità e l’urgenza di una tutela cautelare ex art. 15, ottavo comma, l.f.

3.6. Di certo, questa scelta poco giustificabile sul piano sistematico porta a dover prendere atto ancora un volta che, anche nella prospettiva fallimentare, analogamente a quanto già registrato nella prospettiva concordataria, il diritto temporaneo concorsuale introdotto dagli artt. 5, 9 e 10 d.l. 23/2020 si propone di governare la crisi economica da COVID-19 più con una discutibile generale dilatazione dei tempi di procedura e di soddisfazione dei creditori che non con misure di segno opposto [35], invece, fino ad oggi caratteristiche della filosofia di intervento del legislatore nei tempi più recenti: proprio come accaduto, p.e., nel Codice della crisi e dell’insolvenza che, non a caso, l’art. 5 d.l. 23/2020 ha rinviato nella sua integrale entrata in vigore al 1° settembre 2021. 
Senza prevedere, come forse sarebbe stato più prudente e corretto, “un set di strumenti ad hoc per le imprese “contagiate” (…) come già avviene per i malati CoVid, e la istituzione di strutture sanitarie “dedicate” al loro trattamento, separate da quelle comuni” [36], con il d.l. 23/2020, insomma, il legislatore pare abbia scelto di governare l’emergenza economica provocata dal COVID-19 assecondando temporaneamente una sistematica ritardata emersione giudiziale della crisi di impresa – anche se del tutto indipendente dal COVID-19 – che, però, è difficile negare si risolva, in fin dei conti, in una sensibile compressione generale delle tutele dei creditori, spesso ingiustificata sul piano tecnico-giuridico se non addirittura pericolosa in chiave economica quando si è chiamati a ragionare di fronte ad un sistema economico “business to business” in cui l’affievolimento delle tutele del credito può diventare la più pericolosa forma di contagio della crisi per l’intero sistema economico.

4. Il diritto “(es)temporaneo” dell’impresa al tempo del COVID-19.
4.1. A voler tirare le fila del discorso, la pur sintetica ricognizione del diritto temporaneo societario e concorsuale cristallizzato dal d.l. 23/2020 mette a disposizione una serie di indicazioni sufficientemente nette per iniziare a capire cosa concorrerà a consegnarci la cessazione di efficacia di queste norme di legge, per definizione, “temporanee”.
Il primo dato da registrare è la costante compressione delle tutele dei terzi creditori i quali, sul piano dei profili di garanzia, più di ogni altro, sono quelli chiamati a pagare il prezzo reale del tentativo di conservare in continuità aziendale – spesso solo apparente, come visto – l’attività delle imprese per l’intero 2020.
Insomma, per usare una immagine di grande attualità, la moratoria degli istituti di diritto societario e concorsuale toccati dal d.l. 23/2020 tende a mostrarsi come una misura che rischia di agire allo stesso modo dei farmaci in corso di sperimentazione: producono quasi sempre qualche effetto positivo sulla patologia che si vorrebbe curare ma hanno anche inevitabilmente controindicazioni e effetti collaterali negativi, talvolta maggiori dei benefici.
In secondo luogo, altro dato da non trascurare che ci consegna la riflessione è la mancata calibrazione della sfera soggettiva di applicazione di dette misure rispetto alle reali esigenze che hanno mosso l’intervento normativo. Le plurime regole con le quali il legislatore ha cercato di agevolare gli imprenditori nel periodo COVID-19, infatti, non vedono mai descritto il loro ambito soggettivo di estensione nei limiti delle imprese che dimostrino un qualche, ancorché minimo, nesso di causalità tra rischi della continuità aziendale e crisi sanitaria da Covid-19.
Esse trovano applicazione in via generale e assoluta rispetto a tutti gli imprenditori, senza distinzioni tanto che tutto ciò se da un canto cristallizza una estensione massima del nuovo – seppur temporaneo ed eccezionale – bilanciamento degli interessi alla base delle norme di diritto societario e concorsuale trattate dal d.l. 23/2020, dall’altro legittima la sensazione che la costruzione di questo “diritto temporaneo” abbia riposato tanto più sull’idea – rectius, sull’ipotesi tutta da verificare – che tutti gli imprenditori (o l’assoluta maggioranza) siano già in crisi di continuità aziendale che sulla prudente consapevolezza che un così esteso e prolungato affievolimento delle tutele del credito alla fine possa lasciare sul campo, a catena, molte più imprese in crisi di continuità di quelle attuali.
In terzo luogo, almeno per il momento e salvo alluvioni normative che già in tal senso si preannunciano, resta evidenza di una filosofia di intervento del legislatore in cui la leva giuridica della continuità aziendale è stata utilizzata per dare agli imprenditori più tempo che denaro; insomma, il d.l. 23/2020 tende a dilazionare temporaneamente i termini per il pagamento dei debiti dell’imprenditore o, offrendo occasioni di finanziamento, a novarne i rapporti obbligatori che ne hanno costituito titolo ma, di certo, non li estingue del tutto.

4.2. In questa prospettiva, provando per un momento a spostare in avanti lo sguardo alla cessazione di efficacia del diritto societario e concorsuale di cui al d.l. 23/2020, in conclusione, non pare azzardato ipotizzare che le modalità di sostegno alla continuità di impresa messe in campo da questa normativa temporanea – pur forse a prima vista efficaci nel breve periodo della situazione di emergenza, soprattutto se accolte dalla parte di quell’imprenditore già in crisi non causa del COVID-19 – rischiano, dopo il 31 dicembre 2020, di lasciare sul campo nuovi seri problemi di bilanciamento degli interessi.
Il tempo e, soprattutto, l’accesso facilitato al credito – e cioè le uniche vere risorse sostanzialmente attivate dalle norme fin qui considerate, con costante sensibile compressione delle tutele dei terzi creditori  –  finiscono per rivelare come forse il legislatore abbia fin qui inteso i problemi della continuità di impresa dovuti al Covid-19 quale portato di una temporanea crisi finanziaria (di mera liquidità) e non invece conseguenza di una vera e propria crisi economica in cui da un canto un così ampio dilatarsi del tempo di soddisfazione dei crediti rischia di comprimere eccessivamente le tutele dei terzi creditori (a loro volta, in massima parte imprenditori) e dall’altro la finanza agevolata messa a disposizione delle imprese – in un mercato dei consumi che, purtroppo, temporaneamente è in grave crisi – non pare poter essere destinata proficuamente ad investimenti strumentali ad un aumento (o al consolidamento) di ricavi ma solo a fare fronte alle scadenze immediate; di fatto solo rinviando il termine per onorare l’impegno finanziario.
Se tutto questo è vero, come già autorevolmente percepito [37], nella certa prosecuzione dell’alluvione normativo in corso, sono da auspicare ulteriori provvedimenti del legislatore sul diritto dell’impresa più radicali e strutturali, anche per cercare di evitare che il d.l. 23/2020 possa essere ricordato, più che in termini di diritto “temporaneo” delle società e della crisi d’impresa, come un intervento normativo “estemporaneo” caduto nel tempo del COVID-19.


VINCENZO VITO CHIONNA
Ordinario di Diritto commerciale
Dipartimento di Giurisprudenza
Università degli Studi di Bari “A. Moro”
 


________________________________________
[1] G. MINERVINI, Il controllo del mercato finanziario. L'alluvione delle leggi, in Giur. comm., 1992, I, pp. 5 e ss.

[2] La stagione delle novelle alla legge fallimentare così orientate si aprì con il d. lgs. 12 settembre 2007, n. 169 e, attraverso il progressivo intervento di altri atti normativi, può dirsi che si chiuse con il D.L. 27 giugno 2015, n. 83 conv. in l. 6 agosto 2015, n. 132.

2 Si pensi, p.e., tra l’altro, all’introduzione del c.d. concordato in continuità ex art. 186-bis l.f., alla sospensione degli obblighi di ricostituzione del capitale sociale ex art. 182-sexies l.f., al voto concordatario fondato sul c.d. silenzio-assenso, al concordato “con riserva” ex art. 161, sesto comma, l.f., della prededuzione dei finanziamenti dei soci resi a norma dell’art. 182-quater, terzo comma, l.f. e a tanto altro ancora.

[4] È il caso, p.e., della reintroduzione della percentuale minima di soddisfazione dei chirografi nei concordati liquidatori, dell’eliminazione del voto concordatario per silenzio-assenso, dell’introduzione di offerte e proposte concorrenti.

[5] Se non per rinviare al 1° settembre 2021 l’entrata in vigore di quello che resterà del Codice della crisi e dell’insolvenza già adottato e parzialmente in vigore (v. art. 389, secondo comma, d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14).

[6] Sul punto G. D'ATTORRE, Speciale Decreto Sviluppo. I limiti alla disciplina societaria sulla perdita di capitale, in Il Fallimentarista, Focus del 3 agosto 2012 ripreso da F. LAMANNA L'art. 182-sexies l. fall. e la sospensione delle norme di salvaguardia del capitale sociale al tempo della crisi dell'impresa: effetti positivi, controindicazioni ed effetti collaterali da overshooting, in Il Fallimentarista, Focus del 29 settembre 2015 per il quale “In sostanza, nelle domande di ammissione al concordato preventivo e nei piani, la previsione della ricostruzione del capitale non viene quasi mai dettagliata, e su ciò conviene richiamare l'attenzione degli operatori, poiché non è escluso che il Tribunale possa ravvisarvi un'ipotesi di inammissibilità della domanda. (…) Quando poi l'omologa sopraggiunga, se i soci non abbiano provveduto prima ad adottare le misure di salvaguardia del capitale, dovranno farlo senza dubbio allora, ma, beninteso, solo se ed in quanto permanga, e nella misura in cui permanga, lo stato di sottocapitalizzazione.”.

[7] D’altra parte, di fronte ad una lettera della norma assolutamente chiara, perentoria e generale (tale, pertanto, da non richiedere alcuna attività esegetica), non sembra neanche necessario chiedersi se la fonte delle perdite incida o meno sull’ambito di applicazione della disposizione nel senso che si potrà avere sospensione dell’applicazione delle norme sulla riduzione del capitale sociale e sulla particolare causa di scioglimento solo se la perdita qualificata dovesse trovare origine in fatti riconducibili alla crisi economica determinata dall’emergenza Covid-19 (il dubbio è posto, valorizzando alcuni passaggi della sola Relazione di accompagnamento, da F. URBANI, Covid-19: disposizioni temporanee su riduzione del capitale per perdite e finanziamenti dei soci. Prime note critiche sugli artt. 6 e 8 del Decreto Liquidità, in Il Societario, 30 aprile 2020; per un primo commento v. anche S. LEGNANI, Le nuove disposizioni in materia societaria volte a fronteggiare l’emergenza, in Il Societario, 16 aprile 2020).

[8] M. SPIOTTA, La (presunzione di) continuità aziendale al tempo del Covid-19, in Crisi d’Impresa e Insolvenza, 11 aprile 2020. Per S. AMBROSINI e G. GIANNELLI, L’impatto del “decreto liquidità” sulla continuità aziendale delle imprese e sulle procedure concorsuali pendenti, in corso di pubblicazione in Dir. fall, invece, “l’inoperatività della causa di scioglimento non riguarda l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, ipotesi alla quale in passato era stata ricondotta anche la perdita della continuità aziendale; si deve però ritenere che questa interpretazione non possa giustificare un riespandersi della causa di scioglimento per perdite in quanto abbiano compromesso la possibilità di perseguire l’oggetto sciale, a pena di avallare una interpretazione di fatto abroghi il beneficio concesso dall’art. 6 secondo periodo d.l. n. 23. Piuttosto, ci si può chiedere se la sospensione dell’obbligo di procedere alla riduzione e alla ricapitalizzazione (o allo scioglimento) si giustifichi anche qualora la situazione della società sia tale da non lasciare presagire un incremento del patrimonio netto alla fine del periodo di moratoria cioè dopo il 31 dicembre 2020”. 

[9] D. GALLETTI, Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, in IlFallimentarista, Focus del 14 aprile 2020.

[10] S. AMBROSINI e G. GIANNELLI, L’impatto del “decreto liquidità” sulla continuità aziendale delle imprese e sulle procedure concorsuali pendenti, op. cit.

[11] D. GALLETTI, Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, in IlFallimentarista, Focus del 14 aprile 2020.

[12] Da ultimo, tra tanti, Tribunale Bologna 31 gennaio 2019, n.265 in Redazione Giuffrè, 2020 che riprende Cass. 20 giugno 2018, n.16291 in Riv. Not. 2018, II, 824.

[13] Tribunale Pescara, 22 settembre 2016 in Giur. comm. 2018, 2, II, 346.

[14] Cass. 31 luglio 2019 n. 20649 in Il fallimentarista 2019 nota di CAGLIARI e anche in Il societario 2019 e Trib. Firenze 18 aprile 2016 in Redazione Giuffrè 2016.

[15] Trib. Milano 25 luglio 2018, n.8320 in Redazione Giuffrè 2018 e Trib. Padova 16 maggio 2011 in Banca borsa tit. cred. 2012, II, 222 con nota di G. BALP Questioni di tema di postergazione ex art. 2467 e 2497-quinquies c.c. e Trib. Udine 3 marzo 2011 ivi.

[16] Trib. Reggio Emilia 10 giugno 2015 in Redazione Giuffrè 2015 e Trib. Padova 28 ottobre 2015 in Ilsocietario.it 2015, 18 dicembre.

[17] Cass. 15 maggio 2019, n. 12994 in Giust. Civ. Mass. 2019.

[18] Trib. Milano 6 febbraio 2015, n.1658 in Banca borsa tit. cred. 2017, II, 513 con nota di MECATTI.

[19] Trib. Milano 25 luglio 2018, n.8320 in Redazione Giuffrè 2018 e Trib. Milano 4 giugno 2013, n.7805 in Giur. comma., 2015, II, 160 con nota di PEDERSOLI.

[20] Trib. Pescara 22 settembre 2016, op. cit.
[21] https://www.corriere.it/economia/aziende/20_maggio_02/perche-solo-1percento-imprese-chiede-prestiti-agevolati-25-mila-euro del 2 maggio 2020.

[22] Non a caso è intervenuta subito l’ABI il 24 aprile 2020 con una apposita Circolare alle banche con la quale ha precisato l’impossibilità di compensare – anche ex art. 56 l.f. – debiti bancari preesistenti “anche nella forma dello scoperto di conto corrente” perché ciò “determinerebbe un avvio del rimborso prima dei 24 mesi, facendo decadere la garanzia” dello Stato prevista dal d.l. 23/2020.

[23] S. AMBROSINI e G. GIANNELLI, L’impatto del “decreto liquidità” sulla continuità aziendale delle imprese e sulle procedure concorsuali pendenti, in corso di pubblicazione in Dir. fall,

[24] Segna infatti, come è noto, una terza fase normativa del nostro diritto concorsuale che, in buona sostanza, sviluppa quanto già accaduto a cavallo degli anni 2006-2015 in punto di approccio alla gestione della crisi di impresa. Dalla legge fallimentare che tendeva a considerare l’imprenditore in crisi un pericolo per l’intero sistema economico (la c.d. “mela marcia”) da eliminare quanto prima dal mercato attraverso la cessazione dell’attività di impresa e la relativa liquidazione giudiziale, infatti, si è passato dapprima alla stagione del tentativo di recuperare ciò che c’era ancora di buono in quella “mela marcia” (pur neutralizzata rispetto al mercato) e cioè quello che del compendio aziendale dell’impresa in crisi poteva essere riorganizzato perché – con l’adesione dei creditori, sempre più protagonisti della gestione della crisi (v., p.e., incentivo alle soluzioni negoziate della crisi) – garantisse, attraverso una fase di controllo giudiziario, non solo una migliore soddisfazione possibile dei creditori ma anche una continuità aziendale riorganizzata a beneficio dei c.d. stakeholders e dell’intero mercato. Il Codice della crisi del 2019, in generale, ha meritoriamente seguito e sviluppato questo approccio cercando di renderlo ancor più efficiente soprattutto quando – attraverso istituti nuovi (p.e. la c.d. allerta o i c.d. OCC) o il potenziamento di poteri vecchi (quelli, p.e., del Pubblico Ministero o degli organi delle procedure) – ha mirato ad anticipare il più possibile l’emersione della crisi tanto da poterla rendere meno grave nel momento in cui arrivava in sede giudiziaria e, così, rendere meno complicato gestirla e risolverla.

[25] Tra le altre, Cass. 23 maggio 2014, n. 11497 in Fall. 2015, p. 497 ss., Cass. 9 maggio 2014, n. 10112 in Foro it., 2014, 11, 1, 3171 per la quale “Il pagamento dei creditori privilegiati in un tempo superiore a quello imposto dai tempi tecnici della procedura di concordato preventivo equivale a soddisfazione non integrale dei medesimi”; danno in qualche misura rilievo ai tempi anche di esecuzione del concordato, tra gli altri, Trib. Forlì 12 dicembre 2013 in Fall., 2014, p. 479 ss., Trib. Siracusa 15 novembre 2013 in Il caso.it, 2013, per il quale “(…) Una anomala dilatazione della tempistica di acquisizione della liquidità necessaria per il pagamento dei creditori concorsuali è incompatibile persino con i dettami della Legge Pinto e si smarca a priori da qualsivoglia sindacato di convenienza del risultato economico conseguibile dai creditori, dovendosi ritenere che un pagamento eccessivamente dilazionato equivalga ad un "non pagamento". Ne deriva la valutazione di inammissibilità giuridica del concordato”.

[26] N. GRAZIANO e L. DE GENNARO, La legislazione di emergenza Covid-19 e l’impatto sulle procedure fallimentari e sulle soluzioni negoziali della crisi di impresa, in Il diritto vivente Rivista giuridica online di Magistratura Indipendente, 24 aprile 2020, D. GALLETTI, Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, in Il Fallimentarista, Focus del 14 aprile 2020, L. DE SIMONE, Gli accordi ad efficacia estesa alla prova del covid‐19, in Dalla crisi all’emergenza: strumenti e proposte anti-covid al servizio della continuità di impresa, a cura di Centro Studi Diritto delle Crisi e dell’Insolvenza, p. 109 e ss., S. GRASSELLI, Normazione di urgenza e concordati in bianco, ivi, p. 129 e ss., S. LEUZZI, L’impatto della pandemia sui concordati preventivi omologati in continuità diretta: l’indagine, le soluzioni, ivi, p. 147 e ss., B. CONCA, Finanziamenti all’impresa in crisi e moratoria annuale ex art.186 bis l.fall.: una lettura prospettica, ivi, p. 179 e ss., F. LAMANNA, Il “blocco” dei procedimenti prefallimentari imposto dal Decreto Liquidità, in Il Fallimentarista, Focus del 14 aprile 2020, G. CORNO e L. PANZANI, La disciplina dell’insolvenza durante la pandemia da Covid-19. Spunti di diritto comparato, con qualche riflessione sulla possibile evoluzione della normativa italiana, in IlCaso.it, F. RASILE e C. PASSERINI, L'improcedibilità della domanda di fallimento in proprio al tempo del Coronavirus: un errore da correggere, in Il Fallimentarista, Blog del 27 aprile 2020, S. MORRI, Il Decreto liquidità e le modifiche alla disciplina fallimentare. Una prima analisi, alcuni spunti critici e delle proposte, in Il Fallimentarista, Blog del 9 aprile 2020.

[27] A fronte dei 270 giorni entro i quali, a norma dell’art. 181, ultima parte, l.f., si dovrebbe esaurire la procedura di concordato preventivo (omologazione “nel termine di nove mesi dalla presentazione del ricorso”), il solo c.d. “periodo finestra” – per il comb. disp. artt. 161, sesto comma, l.f. e 9 d.l. 23/2020 – potrebbe durare 300 giorni: 120 primo termine + 60 proroga ex art. 161, sesto comma, l.f. + 30 sospensione periodo feriale (Cass. 13 giugno 2018, n. 15435, in Il caso.it, 2018) + 90 giorni ex art. 9, quarto comma, d.l. 23/2020. 

[28] Condivisibile il timore di D. GALLETTI, op. cit., per il quale è verosimile che si tratti di un “termine (…) che sembra “naturalmente” destinato ad una o più future proroghe, come tutti quelli introdotti sinora dalla legislazione <<emergenziale>>”.

[29] La Relazione illustrativa poggia la disposizione su “una duplice ragione: da un lato per evitare di sottoporre il ceto imprenditoriale alla pressione crescente delle istanze di fallimento di terzi e per sottrarre gli stessi imprenditori alla drammatica scelta di presentare istanza di fallimento in proprio in un quadro in cui lo stato di insolvenza può derivare da fattori esogeni e straordinari, con il correlato pericolo di dispersione del patrimonio produttivo, senza alcun correlato vantaggio per i creditori dato che la liquidazione dei beni avverrebbe in un mercato fortemente perturbato; dall'altro bloccare un altrimenti crescente flusso di istanze in una situazione in cui gli uffici giudiziari si trovano in fortissime difficoltà di funzionamento”.

[30] “Il blocco si estende a tutte le ipotesi di ricorso, e quindi anche ai ricorsi presentati dagli imprenditori in proprio, in modo da dare anche a questi ultimi un lasso temporale in cui valutare con maggiore ponderazione la possibilità di ricorrere a strumenti alternativi alla soluzione della crisi di impresa senza essere esposti alle conseguenze civili e penali connesse ad un aggravamento dello stato di insolvenza che in ogni caso sarebbe in gran parte da ricondursi a fattori esogeni”.

[31] F. RASILE e C. PASSERINI, op. cit.

[32] Trib. Foggia 2 febbraio 2012, in Il caso.it, 2012; cfr., tra le altre, Trib. Vicenza 15 gennaio 2018 in Giur. comm. 2018, II, pp. 758 e ss., Trib. Bari 17 agosto 2018, in Foro it. 2019, 3, I, cc. 1073 e ss. e Trib. Monza 20 novembre 2009 in Redaz. Giuffrè, 2010.

[33] Trib. Bari 17 agosto 2018, op. cit.

[34] Cass. 14 gennaio 2019, n.646 in Giust. Civ. Mass. 2019; cfr. Cass. 28 ottobre 2019, n.27539 in Dir. Giust. 2019, con nota di G. TARANTINO.

[35] Come, p.e., quelle proposte da D. GALLETTI, op. cit., tutte correttamente ispirate ad una filosofia di intervento di segno del tutto opposto a quella del d.l. 23/2020, quella che ha costituito una sorta di manifesto del Codice della crisi e dell’insolvenza del 2019 e che vede nella rapidità di intervento sulla crisi e nella riduzione dei tempi di procedura e di soddisfazione dei creditori i punti essenziali di riferimento per vedere adeguatamente governata la crisi (1. introduzione di un procedimento, semplice e rapido, affidato al Giudice fallimentare in composizione monocratica; 2. successivo monitoraggio continuo sull'impresa ammessa ai benefici; 3. introduzione temporanea di una nuova procedura concorsuale, semplificata, simile alla vecchia amministrazione controllata, caratterizzata dalla impossibilità di aprire il fallimento, e dal blocco delle azioni esecutive dei creditori).

[36] D. GALLETTI, op. cit.

[37] D. GALLETTI, op. cit. per il quale “La peculiarità assoluta della crisi “Covid19”, crisi di natura non solo finanziaria, ma anche economica, a dispetto di quanto spesso si ode, consiste nella circostanza per cui non risulta possibile, allo stato attuale, pianificare in termini precisi il percorso teso alla ristrutturazione; né è parimenti possibile prevedere, con ragionevole probabilità, gli scenari futuri prospettabili; dunque gli istituti tradizionali del concordato preventivo (ed anche dell'amministrazione straordinaria) appaiono inadeguati a fornire la via d'uscita”.

 
 
 
 
 
 

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