Sommario:
1. Il quadro normativo
2. Sentenze ed ordinanze con effetti reali
3. La giurisprudenza di legittimità sulla dichiarata regolarità edilizia e catastale degli immobili trasferiti
4. Le criticità del giudizio di merito. Alcune proposte in chiave istruttoria.
1. Il quadro normativo.
La conclusione di atti negoziali tra privati aventi per oggetto il trasferimento o la costituzione o lo scioglimento della comunione di diritti reali, relativi a beni immobili, è soggetta alla previsione dell’art. 46 del d.P.R. 380/2001 (ovvero art. 40, comma 2, legge 47/1985 per gli edifici costruiti anteriormente al 17.3.1985), nonché a quella dell’art. 29, comma 1 bis, legge 52/1985, norme che comminano la sanzione della nullità in ipotesi di trasferimento di immobili ove siano presenti talune irregolarità edilizie.
La prima delle suddette norme così recita al comma 1: “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria”.
A sua volta, l’art. 29, comma 1 bis, prevede: “Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale (…)”.
2. Sentenze ed ordinanze con effetti reali.
Il primo problema da affrontare riguarda l’applicabilità delle suddette norme – dettate, come visto, con riferimento ad atti negoziali - alle sentenze (ed ai provvedimenti giurisdizionali in generale) che producono effetti traslativi, nello specifico, sentenze ex art. 2932 c.c. e ordinanze di scioglimento della comunione.
Nonostante alcune voci dottrinarie contrarie, la giurisprudenza di legittimità è unanimemente orientata ad affermare l’applicabilità delle norme in commento anche ai provvedimenti giudiziari che producono effetti reali, sulla base della motivazione che può sinteticamente riassumersi nella considerazione che la pronuncia giudiziale, avendo funzione sostitutiva di un atto negoziale, non può realizzare un effetto maggiore e diverso da quello che sarebbe stato possibile alle parti né, comunque, un effetto che eluda le norme di legge che governano, nella forma e nel contenuto, l’autonomia negoziale delle parti. In altri termini, l’ordinamento giuridico non può consentire che le parti, attraverso il ricorso al giudice, conseguano un effetto giuridico ad esse precluso per via negoziale, così aggirando il complesso sistema di sanzioni posto a tutela dell'ordinato assetto del territorio.
In questo senso, in materia di divisione e con riferimento alla regolarità edilizia, è sufficiente citare, per tutte, la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 25021/2019 che così afferma in una delle massime che ne sono state tratte: “Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall'art. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall'art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell'azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della "possibilità giuridica", e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell'ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell'edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio.”
È il caso di puntualizzare che il richiamato indirizzo non trova applicazione nelle divisioni c.d. endo-esecutive, cioè che originino da procedure di esecuzione immobiliare in cui il pignoramento abbia ad oggetto una quota indivisa, in virtù dell’esenzione prevista dal comma 5 dell’art. 46 D.P.R. 380/2001, come ha avuto modo di chiarire la stessa Cass. n. 25021/2019, valorizzando il nesso di dipendenza strumentale che sussiste tra il giudizio di divisione endo-esecutiva e la procedura espropriativa da cui esso origina e di cui costituisce un’articolazione procedimentale.
Con riferimento alle sentenze ex art. 2932 c.c., vi è copiosa giurisprudenza, costante negli anni, che, in tema di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, afferma il principio che non può essere emanata sentenza di trasferimento coattivo prevista dall'art. 2932 c.c. in assenza dell’indicazione, contenuta nel preliminare o successivamente prodotta in giudizio, degli estremi del titolo edilizio, che costituisce requisito richiesto a pena di nullità dall'art. 46 d.P.R. 380/2001 (e, per edifici costruiti anteriormente al 17.3.1985, dall’art. 40 comma 2 legge 47/1985) e, sul piano processuale, integra una condizione dell'azione ex art. 2932 c.c. (Cass. n. 1199/1997, n. 5902/2002, n. 9647/2006, 13225/2008, n. 8489/2016, n. 1505/2018, n. 21721/2019 ed altre).
Le ragioni poste a fondamento di tali orientamenti giurisprudenziali sono quelle cui si accennava sopra e cioè che, per dirla con Cass. n. 25021/2019, l’ordinamento giuridico non può consentire “che le parti, attraverso il ricorso al giudice, conseguano un effetto giuridico ad esse precluso per via negoziale, così aggirando il complesso sistema di sanzioni posto a tutela dell’ordinato assetto del territorio”.
Per quanto riguarda la conformità catastale, e dunque la prescrizione di cui all’art. 29 comma 1 bis legge 52/1985, possono citarsi Cass. n. 12654/2020 e n. 20526/2020, in cui si afferma che “Nel giudizio di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto di trasferimento immobiliare relativo ad un fabbricato già esistente, la conformità catastale oggettiva di cui all'art. 29, comma 1 bis, della l. n. 52 del 1985, costituisce una condizione dell'azione e deve formare oggetto di accertamento da parte del giudice, che non può accogliere la domanda ove la presenza delle menzioni catastali difetti al momento della decisione”.
Dunque, anche relativamente alle menzioni catastali operano i medesimi criteri che hanno orientato la giurisprudenza di legittimità con riguardo al tema della rilevanza delle menzioni edilizie ed urbanistiche nel giudizio di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre. Anche per le menzioni catastali si tratta di una condizione dell’azione che deve sussistere al momento della decisione e resta sottratta alle preclusioni regolanti la normale attività di deduzione e produzione delle parti, potendo intervenire in corso di causa ed anche nel giudizio d’appello (Cass. n. 12654/2020).
Il mancato riscontro, da parte del giudice investito di una domanda di adempimento del contratto in forma specifica ex art. 2932 c.c., della sussistenza della condizione dell'azione costituita dalla presenza in atti delle menzioni catastali di cui al comma 1 bis dell'art. 29 della l. 52 del 1985 costituisce un "error in judicando", censurabile in sede di gravame e non un vizio di contenuto-forma produttivo di nullità della sentenza; gli effetti di tale errore, pertanto, si esauriscono all'interno del processo e non producono alcuna conseguenza sul piano della idoneità della sentenza ad essere trascritta nei registri immobiliari (ancora Cass. n. 12654/2020).
Non si rinvengono specifici precedenti di legittimità sul tema delle c.d. menzioni catastali nei giudizi di scioglimento delle comunioni, ma, con le premesse fatte, non può dubitarsi dell’applicabilità della relativa disciplina normativa anche ai giudizi di divisione, dal momento che l’art. 29 comma 1 bis legge 52/1985 menziona espressamente “lo scioglimento di comunione”, pertanto, tornando alla ratio dell’estensione della disciplina normativa ai provvedimenti giudiziari, per cui il ricorso al giudice non può trasformarsi in uno strumento elusivo di norme imperative, non può che concludersi che anche nei giudizi di scioglimento delle comunioni deve sussistere “la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale” ovvero, in alternativa, “un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale”.
Alla luce della trattazione che precede, può concludersi che ove un provvedimento giudiziario produca gli effetti degli atti negoziali menzionati negli artt. 46 T.U. Edilizia e art. 29 comma 1 bis legge 52/1985, il relativo giudizio soggiace alla disciplina prevista dalle suddette norme per gli atti negoziali.
3. La giurisprudenza di legittimità sulla dichiarata regolarità edilizia e catastale degli immobili trasferiti.
Tale conclusione apre, però, ad un altro nodo problematico, che attiene all’interpretazione delle suddette norme ed all’operatività concreta.
In particolare, con riguardo alla regolarità edilizia, si era determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in relazione alla natura formale della nullità comminata dall’art. 46 T.U. Edilizia, dunque derivante dalla mera assenza nel contratto della dichiarazione del venditore, ovvero sostanziale, quindi afferente alla difformità tra bene immobile e progetto assentito.
Come è noto, il contrasto è stato risolto dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 8230/2019 la cui massima così recita: “La nullità comminata dall'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985 va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità "testuale", con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un'unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell'immobile. Pertanto, in presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato”.
Le Sezioni Unite hanno aderito alla c.d. teoria formale, per cui, per non incorrere nella nullità dell’atto, è sufficiente che siano menzionati “gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria” (realmente esistente e riferibile all’immobile) ovvero della SCIA in caso di interventi realizzati “ai sensi dell'articolo 23, comma 01” (comma 5 bis dell’art. 46), senza che rilevi la conformità dello stato di fatto rispetto al progetto assentito ovvero senza che debba porsi un problema di distinguere tra difformità “essenziali” o “non essenziali”, “totali” o “parziali” come suggerivano alcune pronunce. Osservano le Sezioni Unite che una tale distinzione comporterebbe “un sistema sostanzialmente indeterminato, affidato a graduazioni di irregolarità urbanistica di concreta difficile identificazione ed, in definitiva, inammissibilmente affidato all’arbitrio dell’interprete”.
L’interpretazione della nullità comminata dall’art. 46 T.U. edilizia in termini di nullità di carattere testuale e formale è motivata dalla Cassazione valorizzando il dato letterale della norma, che in nessun modo contempla il profilo della conformità o meno della costruzione al titolo edilizio, dovendo trovare applicazione il principio che le norme che, ponendo limiti all’autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei beni, sanciscono la nullità degli atti, debbono ritenersi di stretta interpretazione, sicché esse non possono essere applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse da quelle in esse previste.
Rispetto alla facile obiezione che in questo modo verrebbe consentita, mediante negozi giuridici o addirittura provvedimenti giudiziari, la libera circolazione di immobili definibili “abusivi” o “irregolari” dal punto di vista urbanistico, la Cassazione ricorda come la finalità di contrasto al fenomeno dell’abusivismo edilizio sia affidata al sistema sanzionatorio amministrativo ed anche penale ed a tale finalità concorra anche la normativa in esame, sebbene mediatamente, venendo in rilievo, invece, come oggetto immediato di tutela, l’esigenza, squisitamente civilistica, di certezza e stabilità dei traffici giuridici e di protezione del soggetto acquirente.
Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, osserva la Suprema Corte che con la menzione dei titoli edilizi il soggetto acquirente è posto in grado di svolgere le indagini ritenute più opportune per appurare compiutamente la regolarità urbanistica del bene, anche sotto il profilo della corrispondenza della costruzione al titolo dichiarato ed in tal modo valutare la convenienza dell’affare, rispetto, ad esempio, alla possibile irrogazione di sanzioni amministrative ovvero ai costi di una sanatoria.
L’approdo ermeneutico cui giungono le Sezioni Unite, dunque, appare quello che meglio rappresenta la sintesi tra esigenze di tutela dell’acquirente, di tutela dell’interesse alla certezza e sicurezza dei traffici giuridici e quelle di contrasto all’abusivismo: la ricostruzione della nullità in termini di nullità di carattere formale e testuale assicura, infatti, la certezza della circolazione e della stabilità degli atti negoziali, essendo la nullità circoscritta al mero dato, obiettivo, di agevole riscontro e non suscettibile di variabili interpretative, della mancata menzione del permesso di costruire, permesso in sanatoria o SCIA; la menzione del titolo abilitativo diventa veicolo per la comunicazione di informazioni o per la conoscenza di documenti, con valenza, dunque, essenzialmente informativa per la parte acquirente, la quale, per effetto della prescritta informazione, utilizzando la diligenza dovuta in rebus suis, è posta in grado di svolgere le indagini ritenute più opportune per appurare la regolarità urbanistica del bene e così valutare la convenienza dell’affare anche in riferimento ad eventuale mancata rispondenza della costruzione al titolo dichiarato; la tutela dell’acquirente si sposta dal piano dell’invalidità dell’atto (che potrebbe anche non essere per lo stesso conveniente, perdendo la proprietà dell’immobile e imponendogli l’onere di recuperare quanto pagato) al piano dell’inadempimento, poiché il venditore di un immobile affetto da irregolarità edilizie, indipendentemente dalla prestazione di una garanzia in tal senso, ne risponde nei confronti dell’acquirente, salva l’ipotesa della conoscenza della medesima irregolarità (Cass. n. 25357/2014).
Per quanto concerne, invece, la declinazione concreta della “conformità catastale” di cui all’art. 29 comma 1 bis della legge 52/1985, è utile rammentare che la finalità di questa disposizione è di contrasto all’evasione fiscale, mirando all’emersione di qualunque variazione dell’imponibile catastale dei fabbricati urbani; in pratica la norma è finalizzata ad evitare riduzioni della rendita catastale dovute ad una non corretta rappresentazione dell’immobile; per questo non ogni “non conformità” è rilevante, ma solo appunto quelle che incidono sulla corretta determinazione della rendita. A tal fine, può essere utile, anche in ausilio del giudice nell’individuazione delle “non conformità rilevanti”, la lettura della circolare dell’Agenzia del Territorio n. 2 del 9.7.2010 con cui è stato chiarito quali difformità siano effettivamente rilevanti, evidenziando, ad es., che non assumono rilievo “le variazioni dei toponimi, dei nomi dei confinanti e di ogni altro elemento, anche di carattere grafico – convenzionale, non influente sulla corretta determinazione della rendita”, così come non assumono rilievo “lievi modifiche interne, quali lo spostamento di una porta o di un tramezzo, che, pur variando la superficie utile dei vani interessati, non variano il numero di vani e la loro funzionalità”.
4. Le criticità del giudizio di merito. Alcune proposte in chiave istruttoria.
Sebbene chiari nella loro enunciazione astratta, i principi espressi dalla Corte di Cassazione nella materia in esame assumono carattere maggiormente problematico quando si tratta di “calarli” nella pratica giudiziaria dei processi di merito, in particolare di primo grado, dove si svolge l’istruttoria. Spesso questo tipo di giudizi vedono l’espletamento di consulenze tecniche d’ufficio e altrettanto di frequente subiscono rilevanti battute d’arresto, che condizionano la ragionevole durata del processo, proprio in conseguenza dell’emersione, dalla c.t.u., di profili di irregolarità edilizia e catastale che le parti si impegnano a sanare, spesso non con la dovuta tempestività.
Si pone, dunque, l’interrogativo di quali accertamenti, anche istruttori, debba farsi carico il giudice investito di una domanda ex art. 2932 c.c. ovvero di scioglimento della comunione, in una tensione problematica tra i due estremi opposti del mero riscontro della sussistenza di “requisiti formali” e del più pregnante accertamento della “regolarità sostanziale” del cespite immobiliare.
Alla luce dell’analisi di cui sopra su come la giurisprudenza di legittimità abbia interpretato le nullità ex art. 46 D.P.R. 380/2001 e art. 29 comma 1 bis legge 52/1985, si può provare a dare delle soluzioni operative nei seguenti termini, senza pretesa di fornire certezze, per la consapevolezza della complessità della materia e delle innumerevoli implicazioni problematiche.
A) Con riguardo alle cause ex art. 2932 c.c., se nel contratto preliminare o comunque in atti è presente la menzione dell’alienante dei titoli edilizi e la dichiarazione di conformità alle planimetrie, il giudice potrà andare avanti nel giudizio, senza che debba porsi un problema di “regolarità sostanziale”, relativa alla conformità dell’immobile al titolo abilitativo, e senza che sia necessario un controllo di veridicità sulla dichiarazione di coerenza catastale, verifiche che richiederebbero l’espletamento di c.t.u. Sebbene, infatti, le menzioni edilizie e catastali debbano, ovviamente, essere veritiere (come del resto è confermato dalla disciplina in tema di conferma del negozio nullo dettata dall’art. 46 comma 4 D.P.R. 380/2001 e dall’art. 29 comma 1 ter legge 52/1985) esse integrano pur sempre un requisito formale e “testuale” e, ad avviso di chi scrive, non è compito del giudice – come non lo è del notaio – svolgere indagini tecniche per accertare la veridicità delle dichiarazioni negoziali delle parti, ferme, naturalmente, eventuali responsabilità amministrative e penali per il caso di false dichiarazioni.
B) In assenza della dichiarazione nel contratto preliminare o comunque in atti, il promissario acquirente potrà assolvere all’obbligo di legge mediante perizia giurata di tecnico di fiducia che indichi, appunto, i titoli abilitativi ed attesti la conformità catastale (in questo senso, a proposito dei titoli edilizi, Cass. n. 14976/2023). Anche in questo caso, dunque, non pare strettamente necessario l’espletamento della consulenza tecnica di ufficio.
C) Lo svolgimento di una consulenza si prospetta invece necessario nei giudizi di scioglimento delle comunioni, dove il più delle volte è necessario stabilire il valore di stima del cespite o dei cespiti da dividere al fine della formazione delle porzioni, nonché per il richiamo che l’art. 788 c.p.c. fa agli artt. 570 e ss. c.p.c. in materia di espropriazioni immobiliari, ove l’immobile non sia comodamente divisibile, nessuno dei condividenti abbia avanzato istanza di attribuzione dell’intero ai sensi dell’art. 720 c.c. e debba, dunque, procedersi con la vendita a terzi.
In tali ipotesi, stagliandosi esigenze informative e di tutela del terzo acquirente che, come si è visto, la Corte di Cassazione ha valorizzato nell’interpretazione dell’art. 46 T.U. Edilizia e maggiormente avvertite anche per il contesto giudiziale in cui è destinato a prodursi l’effetto traslativo, pare opportuno affidare al consulente un quesito più ampio, che non si limiti all’elencazione dei titoli abilitativi, estendendosi anche alla conformità “sostanziale” dell’immobile al titolo edilizio ed alle planimetrie catastali.
Non pare, in ogni caso, potersi dubitare che, a prescindere dalle dichiarazioni delle parti e poiché esse devono essere veritiere, ove sia stata disposta una consulenza tecnica e dalla stessa sia emersa la non conformità dello stato di fatto alle planimetrie, le parti dovranno procedere alla regolarizzazione catastale che, nella maggioranza dei casi, presuppone anche quella edilizia. Rientra, dunque, “dalla finestra”, il problema della conformità al permesso di costruire ed al progetto assentito che si era visto “uscire dalla porta” in base alla sentenza n. 8230/2019.
Il giudice, per evitare che il processo entri in una fase di stallo destinata a protrarsi indefinitamente nel tempo dovuta ad inerzia delle parti e ad atteggiamenti non collaborativi e strumentali, potrà dare un termine ritenuto congruo per l’espletamento delle pratiche di sanatoria e concedere rinvii solo ove adeguatamente motivati con riferimento ad ostacoli oggettivi incontrati nell’ambito dell’iter amministrativo o dell’esecuzione dei lavori.
IL RILIEVO DELLE IRREGOLARITA’ EDILIZIE E CATASTALI NELLE SENTENZE AD EFFETTI REALI.pdf | 506 Kb