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PENALE  

Nuovi termini per l’esercizio dell’azione penale e rischio depotenziamento della tutela cautelare

  Penale 
 martedì, 1 agosto 2017

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Spunti per un correttivo alla Riforma Orlando

di GAETANO BONO – Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Crotone

 

 

 
 

O soddisfacimento di esigenze cautelari o violazione del nuovo termine per l’esercizio dell’azione penale.

 

Potrebbero trovarsi di fronte a questo dilemma i magistrati del Pubblico Ministero dopo il 3 agosto 2017, data di entrata in vigore della Legge 103/2017 (nota anche come riforma Orlando dal nome del Guardasigilli in carica), potendo trovarsi costretti a scegliere tra la rinuncia agli strumenti di tutela cautelare e il rispetto della nuova disposizione che, novellando l'art. 407 c.p.p. e introducendovi il comma 3-bis, così recita: “In ogni caso il pubblico ministero è tenuto a esercitare l'azione penale o a richiedere l'archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all'articolo 415-bis”; salva la facoltà di richiedere al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di prorogare, con decreto motivato, il termine per non più di tre mesi (peraltro, nel solco del doppio binario vigente nel nostro ordinamento per determinate fattispecie penali, tale termine è di quindici mesi per i reati di cui all’art. 407 co. 2, lett. A nn. 1, 3 e 4). Ciò in quanto, secondo il novellato art. 412 co. 1 c.p.p. secondo “il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, se il pubblico ministero non esercita l’azione penale o non richiede l’archiviazione nel termine previsto dall’art. 407 co. 3-bis c.p.p., dispone, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini preliminari”.

 

La ratio che ha animato il legislatore nell’innovare la disciplina dei termini de quibus va individuata nell’introduzione nell’ordinamento processuale di un rimedio all’inerzia del pubblico ministero, nella comune accezione di inattività o inoperosità, sempre che siano scaduti i termini di durata delle indagini preliminari. Rispetto alla disciplina previgente, la novella normativa detta tempi certi per il subingresso dell’organo di controllo deputato all’avocazione, ossia alla sottrazione della titolarità dei poteri del pubblico ministero determinante una vera e propria interferenza funzionale da parte del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello.

 

La questione si pone allorché la possibilità di rispettare il nuovo termine di tre mesi di cui all’art. 407 co. 3-bis c.p.p. (o di sei mesi ove fosse prorogato giusta decreto motivato del Procuratore Generale) non dipenda unicamente dal pubblico ministero procedente, ma dal Giudice per le indagini preliminari, avendo il primo depositato una richiesta di misura cautelare personale o reale e ritenendo opportuno attendere l’eventuale ottenimento della stessa, prima di emettere l’avviso di conclusione indagini prodromico all’esercizio dell’azione penale.

 

Si noti bene: il problema sorge ove, per ragioni di opportunità, il P.M. –dopo aver concluso le indagini o dopo la scadenza del relativo termine massimo– non intenda chiedere la proroga del termine semestrale delle indagini ai sensi dell’art. 406 c.p.p., norma che farebbe salvo il rispetto dei termini. Il punto è che, nella maggior parte dei casi, risulta inopportuno o persino controproducente chiedere la proroga, poiché tale richiesta va notificata alla persona sottoposta a indagine con conseguente discovery dell’esistenza stessa dell’indagine, della notizia di reato e dei motivi che giustificano la proroga.

 

Ecco il vicolo cieco: per potere rispettare i nuovi termini introdotti dalla riforma Orlando il P.M. è costretto ad avvisare l’indagato notificandogli o l’avviso ex art. 415-bis c.p.p. o la richiesta di proroga delle indagini, ma così l’eventuale provvedimento cautelare avrebbe in concreto scarsa efficacia venendo meno l’effetto sorpresa.

 

Qualche esempio può aiutare a comprendere i termini della questione.

Esempio 1: se il P.M., prima di eseguire il provvedimento cautelare (magari nelle more che venga concesso dal G.I.P.), avvisasse uno stalker particolarmente pericoloso o un marito violento accusato di maltrattamenti in famiglia, notificandogli l’avviso di conclusione indagini prodromico all’esercizio dell’azione penale o la richiesta di proroga del termine delle indagini, l’indagato potrebbe vendicarsi di essere stato denunciato aggravando la propria condotta a danno della vittima o arrivando persino a commettere gravi delitti di violenza alla persona.

Esempio 2: se il P.M. –che sta svolgendo un’indagine complessa a carico di un truffatore seriale, scoprendone il modus operandi che gli ha consentito di frodare migliaia di euro a danno di una pluralità di vittime– fosse costretto, per le ragioni suddette, a notiziare l’indagato dell’esistenza dell’indagine, ciò equivarrebbe a dare al truffatore un enorme vantaggio temporale tale per cui, allorquando si arrivasse finalmente all’esecuzione della misura cautelare reale del sequestro preventivo, non solo il P.M. non troverebbe alcun bene da apprendere, ma addirittura l’indagato sarebbe stato messo nelle condizioni di inquinare le prove così da ottenere l'assoluzione.

Esempio 3: in un’indagine in materia di bancarotta fraudolenta (in cui si è scoperto che il bancarottiere abbia trasferito l’attivo societario a un prestanome compiacente svuotando di fatto la vecchia società di cui è stato dichiarato il fallimento e continuando a operare con una nuova veste societaria), se il P.M. avvisasse l’indagato prima di sequestrargli il complesso dei beni oggetto di distrazione, gli si darebbe il tempo di organizzarsi per porre in essere un’ulteriore operazione distrattiva dell’attivo patrimoniale e ottenere l’impunità penale e la salvezza dalla responsabilità patrimoniale che ricadrebbe unicamente sui prestanome.

Esempio 4: se si avvisasse l’indagato di reati fiscali, notificandogli l’avviso di conclusione indagini o la richiesta di proroga del termine delle stesse, egli potrebbe facilmente compiere manovre elusive onde risultare nullatenente così da impedire allo Stato il recupero dei proventi del reato o potrebbe darsi alla fuga, trasferendosi col tesoro accumulato in Paesi che non consentono l’estradizione, così da frustrare definitivamente la pretesa punitiva dello Stato.

 

Gli esempi potrebbero essere molteplici e, in tutti i casi sopra menzionati, non coglierebbe nel segno l’argomento, volto a controbattere alla tesi qui sostenuta dallo scrivente, secondo cui la richiesta di misura cautelare, non essendo atto d’indagine e servendo finalità peculiari e differenti da quelle sottese all’esercizio dell’azione penale, può essere chiesta e ottenuta in qualunque momento e non è soggetta ai termini di cui all’art. 407 co. 3-bis c.p.p. Se ciò è vero, tuttavia è altrettanto vero che, spesso, un efficace esercizio dell’azione penale passa per la tempestiva irrogazione di provvedimenti cautelari.

E ciò è ancora più significativo se rapportato a delitti aventi come vittime soggetti deboli, per cui l’assicurazione del bene protetto (l’incolumità e la libertà personale nell’esempio dello stalking o il recupero del maltolto, che può corrispondere ai risparmi di una vita, nell’esempio della truffa) passa proprio per un tempestivo ed efficace ricorso agli strumenti cautelari personali e reali.

 

Purtroppo, il risultato concreto dell’attuale formulazione normativa è che non sempre potranno essere contemporaneamente assicurati un efficiente risultato dell’azione penale e il rispetto dei termini imposti dalla legge.

In altre parole il pubblico ministero potrebbe, spesso, essere esposto alla scelta se sacrificare la tutela cautelare per rispettare i termini o se sacrificare i termini per approntare la tutela cautelare: nel primo caso farebbe salva la forma, ma sacrificherebbe la sostanza; viceversa nel secondo caso, quando addirittura il P.M. dovrebbe scientemente decidere di non rispettare i termini di cui all’art. 407 co. 3-bis c.p.p. pur di dare esecuzione al provvedimento cautelare prima dell’atto di discovery dell’indagine.

 

Se così stanno le cose, il vero rischio è che la novella legislativa spingerà il magistrato verso il rispetto dei termini con rinuncia ai provvedimenti cautelari, sia perché è chiara l’impostazione normativa per cui l’obbligo di rispettare i termini di legge risulta prevalente sull’onere di chiedere misure cautelari rimesso alla facoltà del P.M., sia perché il mancato rispetto dei termini potrebbe esporre il magistrato a responsabilità disciplinare ai sensi dell’art. 2 lett. q) L. 109/2006, parlando la lettera della legge di “reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni”; laddove non è scontato che il ritardo possa considerarsi “non ingiustificato” sol perché il P.M. abbia richiesto misure cautelari e, comunque, il magistrato potrebbe ritenersi condizionato dal rischio di incorrere in responsabilità disciplinare e dunque potrebbe rinunciare a priori a richiedere misure cautelari; ovvero, nella migliore delle ipotesi, ricorrerebbe alle misure cautelari dopo un atto di discovery, pur consapevole della probabile intervenuta inefficacia delle stesse.

 

Alla luce delle superiori considerazioni sorge il dubbio che ci si trovi di fronte a una lacuna normativa dovuta, verosimilmente, a un difetto di coordinamento con le norme che disciplinano le misure cautelari personali e reali; se così non fosse, ci troveremmo di fronte a una voluntas legis dalle conseguenze paradossali: per un verso il legislatore si preoccupa del cittadino (coinvolto in un procedimento penale quale persona indagata o persona offesa o danneggiata dal reato) al punto da garantirgli (condivisibilmente a parere di chi scrive) la certezza dei tempi procedimentali, ma per altro verso il legislatore sacrifica la possibilità che il processo conduca a un risultato soddisfacente, in termini di ristoro del danno da reato e di esercizio della potestà punitiva da parte dello Stato, che verrebbero meno nel caso in cui non si chiedessero più misure cautelari reali volte a recuperare il provento del reato, prima che il reo ne faccia perdere definitivamente le tracce, o misure cautelari personali volte a evitare la commissione ulteriori reati o il pericolo di fuga o l’inquinamento delle prove.

 

L’attuale portato della novella di cui alla Legge 103/2017 si potrebbe sintetizzare con la seguente espressione: certezza nei tempi, incertezza nel soddisfacimento della pretesa di giustizia.

 

Ciò posto, de iure condendo, sarebbe opportuno prevedere già da subito un correttivo nella disciplina dei termini di cui all’art. 407 co. 3-bis c.p.p.

 

Una prima ipotesi di correttivo potrebbe constare nell’introduzione di un’eccezione al diritto dell’indagato di ricevere l’avviso della proroga del termine ex art. 406 c.p.p., allorché risulti pendente una richiesta di misura cautelare, magari prevedendo la notifica contestualmente all’applicazione della stessa ove il G.I.P. la disponesse o, in caso di rigetto della richiesta cautelare, prevedendo l’obbligo per il P.M. di notiziare immediatamente la persona indagata dell’avvenuta richiesta di proroga.

 

Oppure il legislatore potrebbe prevedere una speciale ipotesi di sospensione del termine di cui all’art. 407 co. 3-bis c.p.p. nel caso in cui il pubblico ministero abbia tempestivamente depositato una richiesta di misura cautelare personale o reale.

 

Tra le due opzioni, a parere di chi scrive, sarebbe preferibile la seconda.

 

A ben vedere, difatti, sospendere il termine consentirebbe di colmare una lacuna normativa in misura del tutto coerente con la ratio legis del nuovo comma 3-bis, consistente nell’introdurre un inedito rimedio all’inerzia del pubblico ministero. Orbene, allorquando un P.M. abbia fatto richiesta di un provvedimento cautelare e sia in attesa della determinazione del G.I.P., non può parlarsi di inerzia, nella comune accezione di inattività o inoperosità, ma al contrario di tempestivo esercizio delle funzioni volte a garantire il soddisfacimento di esigenze cautelari non altrimenti tutelabili. Ne consegue che sarebbe iniquo infliggere al P.M. la sanzione procedimentale dell’avocazione dell’indagine da parte del Procuratore Generale. Del pari iniquo risulterebbe, in mancanza di adeguato correttivo all’attuale disciplina, un sistema che surrettiziamente indurrebbe il pubblico ministero o a rinunciare alla tutela cautelare o a ricorrervi dopo la discovery degli atti all’indagato, allorché il provvedimento cautelare risulterebbe inefficace.

 

In conclusione, nonostante permanga nello scrivente l’auspicio che il legislatore introduca una modifica ut supra illustrato, si intende comunque offrire una soluzione de iure condito. Ovverossia, in caso di mancata introduzione di correttivi di sorta, si reputa che la soluzione possa ricavarsi per via interpretativa facendo il seguente ragionamento.

 

Se la ratio legis del nuovo termine di cui all’art. 407 co. 3-bis c.p.p. è quella di rimediare all’inerzia del P.M. e se non può ritenersi inerte il pubblico ministero che abbia avanzato richiesta di misura cautelare e attenda l’eventuale accoglimento della stessa in guisa che il rispetto dei termini non dipenda più da lui, allora si potrebbe ipotizzare la sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra il Procuratore Generale e i singoli Procuratori della Repubblica del relativo distretto di Corte d’Appello.

 

Nella specie, si pensi a un protocollo che detti una previsione generale e astratta secondo cui non si dà luogo ad avocazione tutte le volte in cui il P.M. abbia avanzato richiesta di misura cautelare, prima della conclusione delle indagini o comunque prima che spiri il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo o comunque entro gli ulteriori tre mesi concessi giusta decreto motivato del Procuratore Generale; chiaramente sarebbe opportuno prevedere, in tali casi, un obbligo del P.M. di informare il Procuratore Generale dell’eventuale superamento dei termini per la pendenza di una richiesta di misura.

 

Tale soluzione appare in linea con le nuove disposizioni di cui all’art. 412 co. 1 c.p.p. considerando che la novella non ha modificato la previgente forma verbale “dispone” che, pertanto lascerebbe un certo margine di scelta nelle concrete modalità di azione da parte del Procuratore Generale il quale, dunque, ben potrebbe dettare una disciplina che regolamenti l’esercizio del proprio potere.

E, a maggior ragione, tale disciplina diverrebbe auspicabile tutte le volte in cui, com’è nel caso di specie, essa servirebbe a garantire l’uniformità applicativa di un istituto.

Per di più, nel caso che ci occupa, il pubblico ministero si troverebbe ad operare con maggiore serenità, potendo esercitare le proprie funzioni, ivi comprese quelle concernenti l’ottenimento di provvedimenti cautelari, senza trovarsi esposto al dilemma di scegliere tra la rinuncia ad essi o il ricorso ad atti di discovery che ne frusterebbero l’efficacia (per tacere della possibilità di lasciare scadere il termine senza dare avvisi, violando il disposto del nuovo comma 3-bis).

 

 

 
 
 
 
 
 

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