Esattamente anno fa (nell’aprile 2022) veniva pubblicato per i tipi del Mulino il libro di Vittorio Manes, dedicato alla Giustizia mediatica.
Il volumetto, preceduto da una premessa, è diviso in tre parti: dapprima una sezione descrittiva del fenomeno sul piano del diritto sostanziale e processuale, poi un’analisi delle distorsioni provocate sulle garanzie individuali, infine alcune proposte per un’ecologia dell’informazione giudiziaria.
Di quest’opera si tenterà di fornire in questa sede una rappresentazione, se si vuole, al tempo stesso un poco estrosa ed audace, perché a sua volta mediata dalle opinioni espresse dai primi commentatori non tanto per iscritto, quanto attraverso i più significativi fra gli innumerevoli convegni, pubblicati sui siti web (basti compulsare i canali YouTube e il sito di Radioradicale), che se ne sono occupati, registrando l’intervento di alcune delle voci più autorevoli dell’Accademia e della Magistratura.
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Il 23 giugno 2022, il Professor Manes discuteva del proprio lavoro con Paolo Mieli, illustre giornalista, nel corso della trasmissione Radiocarcere.
L’editorialista del Corriere della sera non perdeva l’occasione di segnalare che il fenomeno della cosiddetta mediatizzazione dei processi, con lo schieramento dell’opinione pubblica fra innocentisti e colpevolisti, non è affatto un fenomeno nuovo, risalendo quantomeno alla seconda metà dell’Ottocento, quando i giornalisti si resero conto delle enormi potenzialità di aumentare la tiratura dei quotidiani suscitando l’interesse per i casi di cronaca giudiziaria (celebre il caso Dreyfus).
Oggi, poi, dopo Tangentopoli, la rivelazione di notizie giudiziarie rilevanti prima ancora della loro diffusione è divenuta un imperativo per i direttori dei giornali, e con l’avvento dei social tale moda non andrà prevedibilmente incontro a un declino, ma semmai ad una enorme moltiplicazione.
Veniva poi affrontato il quesito se depenalizzare il reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, contravvenzione prevista dall’art. 684 c.p., dimostratasi assolutamente inidonea a prevenire il fenomeno, e della sua sostituzione con una disciplina ad impianto sanzionatorio/risarcitorio/interdittivo (sul piano amministrativo o civilistico); soluzione però definita anche questa inappagante, perché da un lato fomite di sperequazioni fra testate “ricche” e “povere”, e dall’altro comunque facilmente aggirabile.
Circa le ripercussioni sulla imparzialità del giudice, e prima ancora sulla sua c.d. verginità cognitiva, sottolineava Mieli come la naturale propensione dei giornali alla denuncia dei fatti, già in pendenza della fase delle indagini preliminari, eserciti poi una fortissima pressione contro il sacro principio della presunzione di innocenza nei confronti di quel Giudice che sia poi chiamato alla deliberazione della sentenza.
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Il 5 luglio 2022, Vittorio Manes aveva poi potuto presentare il proprio libro a Napoli, ospite dell’Università Federico II.
Qui, sotto la presidenza del Professor Vincenzo Maiello, fra gli interventi meritevoli di essere rammentati, segnaliamo quello del direttore del Dipartimento di giurisprudenza, Sandro Staiano, che istituiva un parallelismo fra il libro di Manes e quello di Satta (“Il mistero del processo”), paventando il rischio che i media possano compromettere le garanzie e il teleologismo interno al processo, profanandone l’intimo “mistero” da sempre dato dalla sua capacità di autoaffermarsi come giudizio.
Lo stesso Vincenzo Maiello stigmatizzava la degradazione del processo a istituzione di scopo, chiamato a fornire risposte rassicuranti alla collettività, nell’inerzia del Legislatore ed a causa dell’eccesso di supplenza per tale via delegato, di fatto, alla Magistratura.
Prendeva poi la parola Lucio D’Alessandro, rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa, citando immediatamente Virgilio e il libro IV dell’Eneide, dove l’amore fra Enea e Didone viene rivelato all’intero orbe terracqueo da un vero e proprio essere mostruoso, la dea Fama.
Il Professore si soffermava poi sul sistema del processo accusatorio, chiedendosi se il clamore generato da inchieste come Tangentopoli fosse ormai entrato nella fisiologia dell’azione giudiziaria, intesa come una rivoluzione permanente, indicando il libro di Manes come uno strumento di profilassi.
Seguiva la breve relazione del professor Alberto Lucarelli, titolare della cattedra di diritto costituzionale nell’Università Federico II, che inquadrava il tema nella metamorfosi dello Stato liberale; collocava poi il libro nell’alveo dei principi costituzionali e CEDU; prendeva infine le distanze dallo scetticismo dell’Autore circa i benefici ricavabili dall’attuazione giurisprudenziale del d.lgs. 188/2021 sulla presunzione di innocenza.
Prendeva quindi la parola Domenico Airoma, Procuratore di Avellino; esordiva con una domanda, che a suo avviso il libro del Professor Manes, avrebbe fra i primi così ben suscitato: dove si colloca, oggigiorno, il giudizio? Nel processo o fuori dal processo? Stigmatizzava poi la posa assunta fin troppo spesso da Magistrati del Pubblico Ministero, che si sentono investiti di una funzione di moralizzazione della vita pubblica. Ciò che comporta, correlativamente, molto spesso l’anticipazione del baricentro del giudizio etico al momento delle indagini e della formulazione dell’imputazione. Non è senza prudenza che i Magistrati del PM debbano fornire agli organi giornalistici le informazioni pur già rese pubbliche.
L’avv. Nicolas Balzano si profondeva poi in un accorato richiamo a non stravolgere la funzione di garanzia individuale del diritto penale sull’altare di un diritto della collettività, quello all’informazione.
Infine, la parola giungeva al direttore de “Il Mattino” di Napoli, il quale neo-insediato, poneva l’accento sulla necessità di dare lo stesso risalto alle sentenze di assoluzione che a quelle di condanna; mentre successivamente rievocava come sin dall’antichità i più scabrosi e rilevanti casi giudiziari abbiano sempre inevitabilmente recato con sé una forte eco e un interesse quasi morboso da parte della comunità dei cives, come dimostrano alcuni classici della letteratura e della cinematografia legal. Tracciava poi una linea fra media animati da giornalisti e media governati da showman, privi di regole deontologiche e ispirati dal solo audience. Faceva in ogni caso ammenda sul colpevolismo invalso in tutti gli operatori dell’informazione a partire dall’epoca di Tangentopoli.
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A Milano, l’8 settembre del 2022 si teneva un incontro senz’altro meritevole di menzione.
In tale sede, il Professor Francesco Centonze, premesso che il cittadino non operatore del diritto ha del mondo penalistico una rappresentazione in ogni caso filtrata dai media, dopo aver messo in luce la profondità culturale e l’incisività del libro, ne istituiva un parallelismo con il recente volume del sociologo Maurizio Catino (Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni), dove è analizzato, fra l’altro, il caso Schettino, o Costa Concordia, e concludeva – non senza segnalare la pericolosità dei social media – enucleando quattro fondamentali imperativi per il giornalista di cronaca giudiziaria: 1) dare alla tesi difensiva il medesimo spazio della tesi d’accusa; 2) seguire il caso dall’inizio alla fine; 3) conferire all’esito assolutorio un risalto non inferiore a quello di condanna; 4) condurre uno studio integrale degli atti processuali.
Sempre in seno al Convegno milanese, ben peculiare era la posizione espressa dal Consigliere superiore dott. Nino Di Matteo, il quale ha messo in rilievo come il problema non stia, come sembrerebbe invece di cogliere dal libro in commento, nell’eccesso di esposizione mediatica di un argomento, bensì nella qualità del lavoro giornalistico, poiché questo, in altre e forse passate stagioni, ha saputo formare giovani ed educare coscienze ispirandosi agli elevati canoni dell’approfondimento d’inchiesta, anziché del sensazionalismo scandalistico: citava dunque, ad esempio, il quotidiano palermitano “L’Ora” e la rivista diretta da Giuseppe Fava, “I Siciliani”.
Segnalava inoltre che molto del morbo dell’informazione distorta sta nella scelta dei temi, visto che troppo spesso e ossessivamente sono poste in risalto vicende di tragedie familiari o para-familiari di cronaca nera (Garlasco, Perugia, Erba, Cogne etc.), a discapito di processi di ben altra natura e rilevanza politica e pubblica (come ad es. il processo sulla trattativa Stato-Mafia), i cui esiti d’appello, in termini di accertamento, sono stati coperti non già da un eccessivo frastuono, ma tutto all’opposto da un inspiegabile silenzio mediatico.
Da questo punto di vista, il dott. Di Matteo si diceva fortemente critico verso quelle norme della c.d. Riforma Cartabia che impediscono ai Magistrati del Pubblico ministero, salvo il Procuratore in capo, di divulgare ai giornalisti notizie, ancorché non più coperte da segreto, sul processo che vanno conducendo, almeno sino a sentenza definitiva.
Altro intervento di rilievo era quello di Luigi Ferrarella, noto editorialista del Corriere della sera e storico giornalista di temi giudiziari.
Egli rammentava come, nella precedente consiliatura, il CSM avesse emanato delle linee-guida in materia di comunicazione giudiziaria per i magistrati, che se per quelli del Pubblico Ministero si traducevano nella regolamentazione dei cc.dd. comunicati stampa, invece per i Giudicanti avrebbero dovuto comportare la pubblicazione di un abstract delle future motivazioni da pubblicarsi contestualmente alla lettura del dispositivo, prassi mai inaugurata e che invece avrebbe una grande valenza di sterilizzazione degli aspetti più morbosi della vicenda, passibili di stravolgimento mediatico.
Ferrarella si diffondeva poi sulla virtuosa prassi del circondario di Napoli, nel senso di rilasciare de plano copia integrale della Ordinanza di misura cautelare personale, cosa che ad avviso del medesimo servirebbe ad evitare i principali rischi di abuso giornalistico in termini di enfatica strumentalizzazione di una vicenda, altrimenti opaca e di cui sarebbe facile profittare, per sollevare polveroni e sensazionalismi capaci di provocare un indebito sovrappiù di sofferenza in chi già subisce quella del processo a suo carico.
Infine, prendeva in esame i rimedi proposti dall’Autore del libro:
- il primo, senz’altro da avallare, quello di cancellare la distinzione fra atto e contenuto ai fini della disciplina del segreto, introducendo un confine più netto, o tutto segreto o tutto pubblicabile;
- il secondo, consistente nello stabilire una responsabilità degli enti per i reati di indebita o scorretta pubblicazione giornalistica, che tuttavia ad avviso di Ferrarella come in una sorta di effetto boomerang finirebbe per coinvolgere direttamente l’editore nella scelta se pubblicare o meno la notizia, senza più il filtro della coscienza e della libertà critica del singolo giornalista;
- il terzo, quello dei rimedi lenitivi o indennitari, ad esempio le circostanze attenuanti generiche concesse per pre-sofferto mediatico;
- l’inasprimento delle sanzioni economiche a danno della stampa o comunque dei media potrebbe invece, ad avviso di Ferrarella, determinare una sorta di chilling effect (effetto inibitorio) sull’esercizio libero dell’attività giornalistica.
Concludeva sostenendo che soltanto una più completa e pervasiva informazione garantirebbe anche contro gli stessi abusi del diritto di informare, nell’ottica di una mutua assunzione di responsabilità da parte della Magistratura, dell’Avvocatura così come dei mezzi di informazione.
Il Professor Alessio Lanzi, membro del CSM, prendeva la parola inquadrando il libro di Manes fra i pamphlet di denuncia e, ritenendo la soluzione proposta da Ferrarella sostanzialmente troppo ottimistica e a dir vero utopistica, riconduceva il diritto a non subire processi mediatici alla garanzia liberale della sicurezza individuale.
Prendeva posizione poi per l’accentramento del potere di comunicazione con i media in capo al titolare dell’Ufficio di Procura.
Richiamava la stampa a ispirarsi al limite della verità, non contentandosi della mera verisimiglianza della notizia.
Infine, si diceva rincuorato dall’entrata in vigore del d.lgs. 188 del 2021 sulla presunzione di innocenza: un primo coraggioso intervento del Legislatore in una direzione da troppo tempo auspicata.
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L’8 novembre 2022, invece, l’Autore aveva il privilegio di discutere del libro con il Professor Tullio Padovani.
Quest’ultimo esordiva enumerando tutte le anamorfosi tipiche del processo mediatico: dalla eticizzazione del rimprovero, allo scivolamento immediato verso il diritto penale d’autore, alla c.d. overcriminalization, al superamento persino del principio di responsabilità personale a favore di una responsabilità indistinta e collettiva; all’indeterminatezza anche temporale della sanzione dello sdegno sociale e della conseguente messa al bando.
Questo sistema si porrebbe come parallelo al giudizio penale ufficiale.
S’interrogava quindi il Professor Padovani circa le origini di questo fenomeno e lo rintracciava in corrispondenza con la nascita della c.d. opinione pubblica.
Una forte accelerazione veniva tuttavia dall’inchiesta di Mani Pulite.
Prima di tale svolta era il processo nel foro, infatti, a fornire ai giornali materiale per la costruzione di una sorta di reality (es. il processo Montesi); dopo Mani Pulite saranno i media ad anticipare il processo, costruendo un giudizio, con tanto di relativo verdetto, prima e a prescindere da questo, e contentandosi soltanto dell’avvio dell’inchiesta.
Ciò avrebbe determinato la fine dell’indipendenza di giudizio dei Magistrati giudicanti, i quali si trovano immersi in buona fede in queste acque “avvelenate” dal pregiudizio, a cui sarebbe forse possibile trovare un rimedio, ad avviso del Professor Padovani, soltanto nella ricusazione e nella rimessione del processo.
Chiosava il Professore con una critica serrata alla disciplina processuale del segreto nel codice del 1988 (il famoso combinato disposto degli articoli 114 e 329 c.p.p.): quel Codice a suo giudizio non avrebbe affatto in animo di tutelare la riservatezza dell’indagato, ma solo, piuttosto, l’interesse delle indagini, perché altrimenti non avrebbe avuto senso rendere ostensibile (a tutti) ciò che ormai è nella sfera di conoscibilità del (solo) indagato.
Bisognerebbe invece vincolare i Magistrati al segreto fino al termine delle indagini, pena altrimenti lo spostamento del processo ad altra sede precostituita.
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Tanto premesso, l’Autore di questa breve recensione si asterrà da ogni autonomo commento, contentandosi di constatare la notevole vivacità del dibattito suscitato dal libro.